Sul FOGLIO di oggi, 27/01/2007, giorno della Memoria, a pag.3 un'intervista a Benny Morris e Dan Segre.
Roma. Menachem Begin, l’uomo che ha fatto di più per mantenere viva la memoria dell’Olocausto, una volta ha detto che agli ebrei “è stato concesso il diritto di esistere dal Dio dei nostri padri al primo barlume di luce dell’alba della civiltà umana, quasi quattromila anni fa. Per quel diritto, che è stato santificato dal sangue ebraico di generazione in generazione, abbiamo pagato un prezzo senza precedenti nella storia delle nazioni”. Benny Morris oggi si volge alla memoria dell’Olocausto riflettendo su questo prezzo. E sulla verità profonda contenuta nelle parole del leggendario ministro degli Esteri israeliano Abba Eban, che definiva i confini israeliani del 1948 come “le frontiere di Auschwitz”. Una ventina di anni fa in un libro diventato un classico, “The Birth of the Palestinian Refugee Problem”, Morris criticò la vulgata dell’esodo volontario dei palestinesi, dimostrando come l’Haganah avesse favorito anche con la violenza la loro fuga, ma senza seguire un piano di espulsione globale, come vorrebbe la tesi araba. Recentemente Morris ha fatto parlare di sé con un saggio sul “secondo Olocausto” pubblicato da numerosi quotidiani, dal New York Sun al Jerusalem Post, e in Italia dal Corriere della Sera. “Gli ebrei ashkenaziti che vivono in Israele hanno quasi tutti avuto l’intera famiglia o alcuni suoi membri decimata durante l’Olocausto” racconta Morris al Foglio. “La popolazione ebraica in Israele è intimamente legata a quanto è accaduto negli anni Quaranta. Le minacce iraniane e la guerra con il mondo arabo che auspica e persegue la fine dello stato ebraico, in una lotta che risale al 1948 e arriva fino ad Hamas, solleva nuovamente le paure ebraiche di quello che ho chiamato il ‘secondo Olocausto’. Israele è in pericolo, lo era nel ’48, nel ’67, lo è oggi. Ma in occidente l’Olocausto è finito sempre più nella dimenticanza e nella memorialistica”. L’Olocausto è un continuo perché Ex diplomatico israeliano e studioso nelle più prestigiose università del mondo, da Stanford a Oxford, dal Mit ad Haifa, Vittorio Dan Segre durante la Seconda guerra mondiale andò in Israele a combattere per l’indipendenza. Se Morris è un ex obiettore che negli anni ha assunto sempre più un pessimismo da stato di assedio, Segre è un ex 27 GENNAIO - GIORNO DELLA MEMORIAcombattente che oggi giudica Israele con sereno ottimismo. “Il fatto che non abbia sofferto mi pone costantemente un sentimento di profonda responsabilità e colpevolezza” ci dice Segre. “Ma sono anch’io un sopravvissuto. Mi domando cosa bisogna fare per evitare che un disastro simile accada di nuovo. E non solo agli ebrei. Pensiamo al Darfur. Perché sono scomparsi tanti giovani migliori di me? Per gli ebrei americani, i nati in Israele, i nordafricani e gli ebrei come me, l’Olocausto è un continuo perché”. Per Morris la vittoria del sionismo è stata decretata dalla conquista della maggioranza demografica del popolo ebraico, raggiunta un anno fa per la prima volta dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. “La maggior parte degli ebrei sostiene l’esistenza di Israele e ne alimenta il diritto a vivere, con soldi e immigrazione. La maggior partedegli ebrei israeliani si definisce sionista. Vogliono essere ebrei nello stato d’Israele. Nella diaspora esiste il pericolo dell’assimilazione che in America è legato ai matrimoni misti. I demografi parlano di dissolvenza della diaspora. E mentre la comunità ebraica russa è progressivamente scomparsa, in Israele quella stessa comunità è cresciuta demograficamente. Gli ebrei d’Israele non sono minacciati dall’assimilazione, ma dall’odio arabo e dalla minaccia nucleare. E dall’intellighenzia occidentale che rigetta e indebolisce l’idea di stato ebraico”. Benny Morris fa mea culpa. “Ho commesso un errore sulla questione dell’esistenza di Israele. Negli anni Ottanta ho dato per scontatoscontato che la lotta fosse stata completata, nel senso che Israele non sarebbe stato distrutto e la propaganda sarebbe diventata marginale. Mi illudevo che il mondo arabo avrebbe accettato l’esistenza dello stato ebraico. La pace mi sembrava possibile. Oggi l’esistenza di Israele è di nuovo attaccata”. Segre teorizza invece la fine simbolica del sionismo. “E’ una tragedia che gli ebrei, il popolo più bello della storia e che ha sublimato il proprio concetto nazionale, sia stato obbligato a tornare a quello che Amos Oz chiama i vecchi nonni costretti a giocare con le armi dei bambini. Del sionismo, che aveva molto poco di ebraico, resta la decisione degli ebrei che la caccia gratuita è finita. Non siamo più il popolo degli iloti greci contro cui ci si fa le ossa nella violenza e nella crudeltà. E’ questa l’essenza del sionismo liberato da fronzoli ideologici. Il sionismo aveva per scopo creare uno stato-rifugio per gli ebrei. C’è riuscito pienamente. Per questo dico che è morto a causa del proprio successo”. “Legittimamente i palestinesi si sono scelti come rappresentanti i terroristi di Hamas” prosegue Morris. “Il movimento palestinese fin dagli anni Trenta si è rifiutato di stabilire un accordo con gli ebrei per spartire la terra. La Palestina deve essere ‘judenrein’, liberata dalla presenza giudaica. L’elezione di Hamas con il suo islamismo panarabista è il culmine di questa logica negazionista. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla crescita nella regione del fronte del non compromesso con gli ebrei. Non importa quale accordo o cessate il fuoco venga firmato, nel lungo termine non avrà significato”. Segre è convinto che Israele stia vivendo oggi uno dei momenti più straordinari della sua storia. “L’economia ve benissimo, la moneta è stabile, la disoccupazione è bassissima e per la prima volta in sessant’anni le esportazioni hanno superato le importazioni. La salute economica del paese è eccellente. Ma anche quella democratica. In quale altro paese del mondo dei riservisti sono riusciti a far fuori il capo di stato maggiore? Ci sono state undici commissioni d’inchiesta militare e due civili. Ed è avvenuto nella più perfetta calma che nasce dal senso dell’enorme forza, soprattutto morale. Israele sessant’anni riflette sul problema della sua identità. E lo fa nella pace civile, qualcosa che molti paesi europei non hanno fatto. E’ un momento magico per Israele e la leadership politica ventura dovrà solo parlare po-co e fare ancora meno. Il presidente iraniano Ahmadinejad, che è un invasato ma non uno stupido, sa bene che un conto è fare propaganda contro Israele, altra cosa è sfidarlo. Il pericolo iraniano è molto più grande per Turchia, Pakistan, Iraq e Arabia Saudita”. La guerra contro un popolo ti indebolisce Morris ha perplessità sul ritiro da Gaza e si dice “favorevole a continuare gli assassini mirati contro la leadership palestinese, sia Fatah sia Hamas. E’ legittimo decapitare il vertice dell’organizzazione che persegue la tua distruzione. Hamas sta usando i civili come barriere dietro a cui si annida per attaccare gli ebrei”. Per Segre l’omicidio mirato deve essere invece “l’ultima ratio” e pensa che fosse fondamentale ritirarsi da Gaza. “Quando uno stato come Israele combatte un popolo, è una guerra che finisce per indebolirlo. Per questo abbiamo disperatamente bisogno che uno stato palestinese nasca al più presto. E può avvenire solo all’interno della separazione. Il Muro di Berlino ha consentito di evitare una guerra fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Lo stesso vale per il muro di sicurezza di Israele. Penso anche che sarà una cura benefica questo ricambio al vertice in Israele, dopo il capo di stato maggiore Dan Halutz cadranno altri dirigenti”. Per Morris è necessario riflettere anche sull’effetto del processo di Oslo. “Sono favorevole a due stati per due popoli, ma Oslo ha consentito ai nemici d’Israele di aumentare in numero e in forza. La terra garantisce a Israele la sicurezza tattica e militare. Il ritiro da Gaza e dal Libano ha reso Israele più debole. Quei territori sono diventati basi per attaccarci. Dobbiamo essere più cauti”. Siamo partiti da Beghin, chiudiamo con Begin. “Era ossessionato dall’Olocausto” dice Morris. “Ma aveva ragione quando affermò che l’unica alternativa a Treblinka per gli ebrei è combattere. Anche il paragone fra Hitler e Arafat era eccessivo. Ma aveva capito che l’obiettivo del terrorismo islamico nel lungo termine è la distruzione ebraica: finire il lavoro lasciato incompiuto dal führer. Per questo penso che ogni ebreo d’Israele sia una sorta di sopravvissuto dell’Olocausto”. Per Segre Begin lascia un’eredità ancora più grande. “Era un uomo di assoluta onestà e rispetto, un capo di stato ebreo che non cercava di essere amato dal suo popolo, ma di essere rispettato. C’è riuscito”.
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