Sulla STAMPA di oggi, 27/01/2007,a pag.15, un pezzo di Elena Loewenthal su una storia poco conosciuta della Shoah, il salvataggio di alcuni ebrei in paesi arabi.
Lo Yad Vashem, il memoriale alla Shoah che si trova a Gerusalemme, è un bosco: un grappolo di colline fitte di alberi, diversi per specie e misure. Ognuno ricorda un «giusto fra le genti» che, a rischio della propria vita e non per denaro ma per umanità, ha salvato un ebreo durante la Shoah. Anche uno soltanto, perché come dicono tanto un adagio ebraico quanto il Corano, «chi salva una vita salva il mondo intero». Fra quasi ventimila nomi (e alberi) polacchi, italiani, tedeschi, francesi, olandesi, figurerà presto anche quello di Khaled Abdelwahhab, il primo arabo a ottenere questo riconoscimento della memoria. La pratica è avviata e procede con l'esame delle testimonianze: lo Yad Vashem è infatti anche un immenso archivio storico.
Ventitrè ebrei debbono la vita a quest'uomo e a suo padre, che li nascosero nel loro uliveto in Tunisia, al riparo dai nazisti. Sia Khaled sia Anny Boukris, che svelò questa storia, non ci sono più. Il suo racconto era animato da una gratitudine mai spenta per quella famiglia di proprietari terrieri arabi che rischiò la vita ospitando lei, i suoi cari e altri correligionari in un frantoio nel villaggio di Tlelsa finché non arrivarono gli inglesi. Abdelwahhab dopo la guerra visse a New York e Parigi, e morì nel 1997, a ottantasei anni. La sua storia è stata raccolta da Robert Satloff, studioso e direttore dell'istituto per i «Near East Studies» di Washington, in un libro appena pubblicato, «Among the Righteous».
Mentre in Italia si discute intorno alla legge Mastella, mentre alle Nazioni Unite è appena passata una risoluzione di condanna del negazionismo storico - non senza una prevedibile dissociazione da parte dell'Iran -, c'è una storia che è ancora tutta da scoprire, e per questo sembra viva anche se le sue voci, come quella di Khaled e Anny, tacciono per sempre. Fra il giugno del 1940 e il maggio del 1943 i nazisti arrivarono in Africa: all'epoca qui vivevano circa un milione e mezzo di ebrei. Come in Europa, questi paesi videro collaborazionisti e spettatori passivi, ma vi fu anche chi si ribellò all'orrore aiutando e nascondendo le vittime della caccia nazista. Se non che, in nome di una strategia politica dell'omertà, il fronte arabo militante contro Israele ha scelto, almeno sino ad oggi, una negazione tout court dello sterminio ebraico, considerato un pretesto per l’«intrusione» dello stato ebraico entro l'universo islamico.
Tale rimozione della Shoah ha spazzato via per anni tante piccole, grandi storie di salvezza. Di questa «congiura del silenzio» in nome di una battaglia totale contro lo stato ebraico, ha fatto le spese sino ad ora quella memoria di giustizia e umanità che orienta i passi fra le colline dello Yad Vashem, guida gli occhi sulle targhe di marmo grigio con tutti quei nomi. Dopo Khaled Abdelwahhab, proprietario terriero di Tunisia e (gaudente) cittadino del mondo, eroe e «giusto» in contumacia suo malgrado, molte altre storie come questa sono destinate a riaffiorare dalla retorica della negazione. Per mettere finalmente radici fra le colline di Gerusalemme.
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