Un filmato recuperato dall’esercito israeliano durante le operazioni nella Striscia di Gaza mostra sei ostaggi israeliani mentre cercano di accendere le candele della festa di Hanukkah in un tunnel con scarso ossigeno. I sei ostaggi sono Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, Eden Yerushalmi, 24 anni, Ori Danino, 25 anni, Alex Lobanov, 32 anni, Carmel Gat, 40 anni, e Almog Sarusi, 27 anni. Il filmato risale al dicembre 2023. Otto mesi dopo, il 29 agosto 2024, all’approssimarsi delle Forze di Difesa israeliane al tunnel sotto il quartiere di Tel Sultan, a Rafah (Striscia di Gaza meridionale), tutti e sei gli ostaggi furono assassinati con un colpo alla testa dai terroristi palestinesi.
Il dovere di ricordare una serie di articoli per il Giorno della Memoria
Testata: Famiglia Cristiana Data: 26 gennaio 2007 Pagina: 0 Autore: redazione Titolo: «Il dovere di ricordare»
Famiglia Cristiana nel numero 4 on line nella “Sezione Attualità” pubblica una serie interessante di articoli in occasione della Giornata della Memoria intitolata “Il dovere di ricordare”. Dopo l’abisso, le storie dei sopravissuti, l’impegno di giovani studiosi che perpetuano la memoria dell’orrore dei lager assumono un’importanza straordinaria in un’epoca nella quale c’è ancora chi nega lo sterminio degli ebrei. Il dovere di non dimenticare diventa quindi un monito per la coscienza di ogni uomo.
«Auschwitz», ha scritto Elie Wiesel,«resiste agli sforzi dell’immaginazione e della percezione, si sottomette soltanto al ricordo». Da qui il dovere di ricordare, come facciamo in queste pagine in occasione della Giornata della memoria, attraverso le storie e le testimonianze di chi scampò all’orrore dell’Olocausto perpetrato dal nazismo, o di chi ha deciso di perpetuarne il ricordo consacrando i suoi studi e la sua futura professione alla Shoah. La tentazione di porre una delle più grandi tragedie dell’umanità, per così dire, fuori dalla storia, è purtroppo prevalsa a lungo in Italia e nel mondo, ma la sua unicità, la sua sacralità, non ne impediscono la memoria, anzi la sollecitano, per farla divenire parola e ricordo. A oltre 60 anni di distanza ne leggiamo ancora oggi i motivi sfogliando le pagine dei giornali. Persino una documentazione quasi sconfinata, come quella sui lager, le deportazioni, i massacri di gruppo, fatta di fotografie, testimonianze, filmati, atti ufficiali e tanto altro, non mette l riparo la Shoah dal suo riconoscimento universale. Si tratti dell’infondatezza palese travestita da controversia pseudo-storiografica di uno storico negazionista, o dei deliri populisti di un capo di Stato. La Shoah, ancora oggi, vive costantemente il pericolo dell’oblio, se non addirittura della negazione. Proprio per questo va protetta. Negare l’Olocausto è, infatti, un reato d’opinione in molti Paesi europei (in Francia si parla di una legge analoga per chi nega il genocidio armeno), e anche l’Italia si sta avviando su questa strada con un disegno di legge che errà presentato proprio in occasione della Giornata della memoria di quest’anno. Francesco Anfossi
Quando si sono incontrati, Erika era poco più che una bambina. Sedeva tra centinaia di alunni nella sua scuola media di Ladispoli ad ascoltare il racconto di Piero Terracina, ebreo romano deportato ad Auschwitz a 15 anni, fortunosamente scampato all’inverno polacco e alle atroci selezioni per la vita e per la morte, oggi tra i più tenaci testimoni pubblici della Shoah. Tante volte Erika ha ripercorso con la mente la storia incredibilmente reale di quell’anziano signore che non si vergognava di commuoversi mentre parlava di sé bambino, nel 1938, quando le leggi razziali lo cacciarono da scuola. Del 16 ottobre 1943, la retata nazista nel ghetto ebraico di Roma: era in coda sotto la pioggia per comprare le sigarette al padre e proprio da lui si sentì urlare: «Vieni via! Arrestano tutti gli ebrei!». Del nascondiglio e della paura condivisi con i genitori, i nonni, i tre fratelli e la sorella fino al 7 aprile del 1944, quando un giovane sciocco e avido li denunciò alle SS per 40 mila lire. Furono rinchiusi nel carcere di Regina Coeli, trasferiti nel campo di Fossoli, vicino a Modena, e il 16 maggio, su un treno piombato riempito di 581 persone, deportati ad Auschwitz. L’abisso da cui solo Piero riemerse, il braccio sinistro deturpato dal numero A5506. Erika gli ha scritto e ha voluto incontrarlo di nuovo. Per approfondire una tragica pagina della nostra storia e soprattutto per capire come sia possibile continuare ad amare la vita dopo aver conosciuto l’inferno. Oggi Erika Silvestri ha 20 anni e studia storia all’università. La sua amicizia con Piero si è fatta profonda, indissolubile, nonostante i 58 anni che li separano. Come con un nonno dal quale cercare risposte sul senso dell’esistenza. Ha scritto un libro su di lui, ed è la prima volta che Piero Terracina, instancabile oratore, accetta di mettere per iscritto le sue ferite. È uscito il 10 gennaio per Rizzoli con il titolo Il commerciante di bottoni: «Un giorno gli raccontai che da piccola amavo giocare con i bottoni», spiega Erika, «e lui mi disse: "Che coincidenza. Io ho lavorato a lungo in un’azienda di bottoni"». Il libro ha la freschezza della giovane autrice, che lo paragona a «una scatola con dentro tanti biglietti da estrarre a uno a uno, scoprendo episodi della nostra amicizia e le tappe della vita di Piero: le leggi razziali, la deportazione, il ritorno dal lager». Inizia con Erika che, da una vecchia foto, disegna un ritratto della bellissima sorella di Piero, rimasta cenere ad Auschwitz. Esita a lungo se fargliene dono, teme di riaccendere in lui la sofferenza, finché si decide. Un gesto in cui Piero legge grande affetto, ed è un regalo che innesca ricordi, un racconto e un altro ancora. Uno dei più intensi riguarda il legame con un altro sopravvissuto, Sami Modiano: «Eravamo adolescenti, soli, impauriti, nella stessa baracca di Birkenau. Ci aggrappavamo l’un l’altro per conservare una sembianza di vita in mezzo alla morte», ammette Piero nel salotto della sua casa romana, mentre con Erika sorseggia succo d’arancia. «Sami fu selezionato per la camera a gas. Mentre attendeva di morire, arrivò un treno di patate e servivano braccia per scaricarlo: fu chiamato al lavoro e si salvò. Dopo l’arrivo dei russi, nel gennaio del ’45, percorremmo un tratto di viaggio insieme a Primo Levi, come lo narra nel libro La tregua. Finché io mi ammalai e fui portato in un sanatorio nel Caucaso. Di Sami non ebbi più notizie, né lui di me. Solo qualche anno fa mi vide in televisione e mi riconobbe subito, nonostante fossi tanto diverso dal ragazzino emaciato di un tempo. Ci ritrovammo e oggi siamo legati come allora». Piero Terracina rivide Roma nel dicembre del ’45, a 17 anni. Ritrovò qualche parente, cominciò a lavorare, divenne dirigente d’azienda. Non si è ai sposato: «Qualcuno pensa sia perché non ho voluto mettere al mondo figli, dopo ciò che ho vissuto», nota, «ma non è vero, dalla vita ho avuto anche gioie. Smettere di credere in Dio e negli uomini significherebbe ripiombare nel nulla assoluto di Auschwitz». La sua famiglia sono i nipoti. Ed Erika, che lo ha accompagnato ad Auschwitz in due viaggi organizzati dal Comune di Roma per le scuole. Gli ha porto il braccio mentre Piero, tra le rovine delle baracche rosse di Birkenau, rievocava una notte del ’44 in cui gli zingari smisero all’improvviso di suonare e cantare: erano stati mandati al gas, migliaia in una volta sola. Erika talvolta lo segue nei tanti incontri con gli studenti che ancora non stancano Piero. «I ragazzi sono sempre meravigliosi», sottolinea lui. «Sono appena stato a Napoli, in un quartiere ai margini. Mi avevano messo in guardia e invece gli studenti sono stati attentissimi: non esistono adolescenti difficili, basta imparare a comunicare con loro». Come lui ha saputo comunicare con Erika, che ora progetta di specializzarsi in storia della Shoah a Gerusalemme. Per portare avanti la preziosa testimonianza che le è capitata in dono. E farsi candela della memoria contro ogni negazionismo. Emanuela Zuccalà
Le vittime della Shoah
La legge n. 211 del 20 luglio 2000 ha istituito anche in Italia il Giorno della memoria, che si celebra il 27 gennaio, anniversario della liberazione, nel 1945, del lager di Auschwitz, «in ricordo dello sterminio e della persecuzione del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi di concentramento». Secondo le stime del Consiglio mondiale ebraico, la Shoah (termine ebraico che significa "distruzione") provocò lo sterminio di circa 6 dei 9,5 milioni di ebrei che vivevano in Europa prima della Seconda guerra mondiale. Nei lager nazisti furono eliminati in totale dai 13 ai 19 milioni di persone: 3,5-6 milioni di civili slavi; 2,5-4 milioni di prigionieri di guerra; 1-1,5 milioni di dissidenti politici; 200-800.000 zingari; 00-300.000 portatori di handicap; 100-250.000 omosessuali; 2.000 testimoni di Geova. Dopo l’8 settembre 1943 furono catturati dai tedeschi 650.000 italiani, in gran parte militari (circa 400.000 non fecero più ritorno in patria). Di questi, 550.000 furono deportati nei lager di Germania e Polonia e 100.000 trattenuti nei Balcani. Gli ebrei italiani deportati furono 6.746 (5.916 di loro morirono nei lager nazisti
E’ ancora aperta “La strada di Levi”
«Meditate che questo è stato». Le parole di Primo Levi sono come scolpite in epigrafe a Se questo è un uomo. Levi non c’è più da vent’anni, La tregua ne compie 60. Torino c’è. La prima per il pubblico qualunque, non anteprima, non a inviti, di La strada di Levi, il film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti che ripercorre ai giorni nostri il tortuosissimo viaggio di ritorno dal campo di concentramento di Auschwitz descritto in La tregua, coincide con un pomeriggio di un gennaio tanto caldo da sembrare maggio. Il primo spettacolo, alle 15.15, costa 3 euro, ma in un venerdì così sembra nato soltanto per andare deserto. E invece, nella sala del cinema Romano di piazza Castello, ci sono circa 50 persone. Tra loro, lo si capisce dalle parole origliate qua e là, gli amici di Primo Levi, anche, che chiedono di ricordare e magari di giudicare. Il film documentario è una carrellata di immagini scabre, nessuna concessione alla retorica, voci solo fuori campo, perlopiù pagine di Levi, a cucire interviste a persone incontrate lungo la strada, appunto. L’idea è di raccontare la "tregua" che l’Est europeo avrebbe, secondo gli autori, vissuto tra il 1989 e l’11 settembre 2001. C’è una possibilità che ci sia una forzatura nel far calzare alle parole di Levi le immagini dell’Europa orientale di oggi, però le analogie si trovano, eccome: miseria, migrazioni, crisi identitarie, nazionalismi spinti, nostalgie sinistre e revisionismi, dolore multiforme di mondi alla ricerca di nuovi equilibri. Polonia, Ucraina, Russia, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Germania, Austria sono esattamente i luoghi di La tregua, ma sarebbe sbagliato aspettarsi di rivedere il libro trasformato in film. Eppure, dalla visione della pellicola si esce con lo stesso senso di angoscia che si prova terminando la lettura di Primo Levi, con il suo sogno ricorrente della casa che si disfa ridestando il lager. Si esce con la consapevolezza che il mostro può, a ora incerta, tornare altrove, con altre forme. Resta, però, la memoria. Come dovere, come unico antidoto al rischio fortissimo di «lasciarsi impietrire dalla lenta nevicata dei giorni». Elisa Chiari
Quelle note dietro il filo spinato
C’è una città dove i vivi non sanno più ridere e i moribondi non muoiono più. La morte si lamenta con Arlecchino perché si sente inutile e intanto un imperatore sanguinario dichiara guerra al mondo chiedendo l’aiuto alla morte, che rifiuta. Nessuno muore più. È il caos, anche se un ragazzo e una ragazza riescono a innamorarsi. Alla fine l’imperatore accetta di morire e torna la speranza. Questa, per sommi capi, la trama di Der Kaiser von Atlantis (L’Imperatore di Atlantis), un’opera del compositore ceco Viktor Ullmann. La storia, allucinante, non deve stupire più di tanto. L’opera fu infatti composta da Ullmann in circostanze terribili, mentre si trovava rinchiuso nel campo di concentramento nazista di Terezin (Theresienstadt). Ullmann, ebreo, nato nel 1898, era un musicista di talento, allievo di Schoenberg. Fu portato a Terezin nel 1942, due anni dopo fu ucciso ad Auschwitz. Terezin fu una cittàghetto creata dai nazisti non lontano da Praga per ingannare il mondo. C’erano bambini e artisti, vi erano ammesse perfino le visite della Croce Rossa. Ma molti rinchiusi a Terezin poi finivano nei campi di sterminio. A Terezin in quel periodo ci fu una esplosione di creatività musicale. Oltre a Ullmann vi furono rinchiusi altri compositori come Pavel Haas (allievo del grande Janacek), Gideon Klein (giovanissimo, compose a Terezin una sonata per pianoforte, quartetti, un trio per archi e ari lavori corali), Hans Krása (autore di Bruindibar, operina per ragazzi e orchestra). Un altro musicista, Raphael Schaechter, fra il 1943 e il 1944 fece eseguire a Terezin opere di Verdi. L’opera di Ullmann è stata rappresentata più volte nei teatri (anche al Festival di Spoleto, nel 2004), ma gran parte della produzione musicale nei ager, la cosiddetta "musica concentrazionaria", è finita nell’oblio. Ora, finalmente, la si sta recuperando in varie università e centri di ricerca in Europa, negli Stati Uniti e in Israele. A Roma, presso l’Università Roma Tre, sta nascendo la Biblioteca internazionale di letteratura musicale concentrazionaria. «Abbiamo già 4.000 spartiti, ma le ricerche continuano. Nel 2008 contiamo di organizzare a Roma un grande simposio da dedicare a questo patrimonio musicale», dice il professor David Meghnagi, animatore del progetto. Ebreo tripolino, è docente di Psicologia clinica a Roma Tre e cura presso lo stesso ateneo un master in "Didattica della Shoah". Sua sorella Miriam è una nota cantante. Meghnagi, con l’aiuto di ricercatori come Francesco Lotoro e Luca Lombardi, ha già pubblicato dei cd di musica concentrazionaria (eseguita da giovani musicisti del Conservatorio di Barletta). Le sue ricerche non si limitano alle composizioni di musicisti professionisti. Nei campi produssero tanta musica anche i rom e i sinti. I deportati ebrei scrissero cantici di sinagoga. Spesso la musica veniva scritta in condizioni di fortuna. Talvolta sono rimasti solo frammenti, magari scarabocchiati su fogli di carta igienica. Nell’archivio che si sta raccogliendo a Roma non c’è solo musica proveniente dai campi nazisti. Ci furono i canti patriottici composti in segreto dai prigionieri politici o dai soldati, oppure le trascrizioni per coro femminile di celebri brani classici (come il Bolero di Ravel), eseguite dalle detenute olandesi nei campi giapponesi di Sumatra. Anche prigionieri italiani composero musica. Come il fante Berto Boccosi, anconetano, rinchiuso dagli Alleati in un campo di prigionia algerino nel 1942. Lui fu più fortunato dei suoi colleghi ebrei. Morì nel 1985, da uomo libero. Roberto Zichittella
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