Famiglia Cristiana nel numero 4 on line nella “Sezione Attualità” pubblica
una serie interessante di articoli in occasione della Giornata della
Memoria intitolata “Il dovere di ricordare”.
Dopo l’abisso, le storie dei sopravissuti, l’impegno di giovani studiosi
che perpetuano la memoria dell’orrore dei lager assumono un’importanza
straordinaria in un’epoca nella quale c’è ancora chi nega lo sterminio
degli ebrei.
Il dovere di non dimenticare diventa quindi un monito per la coscienza di
ogni uomo.
«Auschwitz», ha scritto Elie Wiesel,«resiste agli sforzi dell’immaginazione
e della percezione, si sottomette soltanto al ricordo».
Da qui il dovere di ricordare, come facciamo in queste pagine in occasione
della Giornata della memoria, attraverso le storie e le testimonianze di
chi scampò all’orrore dell’Olocausto perpetrato dal nazismo, o di chi ha
deciso di perpetuarne il ricordo consacrando i suoi studi e la sua futura
professione alla Shoah.
La tentazione di porre una delle più grandi tragedie dell’umanità, per
così dire, fuori dalla storia, è purtroppo prevalsa a lungo in Italia e nel
mondo, ma la sua unicità, la sua sacralità, non ne impediscono la memoria,
anzi la sollecitano, per farla divenire parola e ricordo.
A oltre 60 anni di distanza ne leggiamo ancora oggi i motivi sfogliando le
pagine dei giornali. Persino una documentazione quasi sconfinata, come
quella sui lager, le deportazioni, i massacri di gruppo, fatta di
fotografie, testimonianze, filmati, atti ufficiali e tanto altro, non
mette l riparo la Shoah dal suo riconoscimento universale. Si tratti
dell’infondatezza palese travestita da controversia pseudo-storiografica
di uno storico negazionista, o dei deliri populisti di un capo di Stato. La
Shoah, ancora oggi, vive costantemente il pericolo dell’oblio, se non
addirittura della negazione. Proprio per questo va protetta. Negare
l’Olocausto è, infatti, un reato d’opinione in molti Paesi europei (in
Francia si parla di una legge analoga per chi nega il genocidio armeno), e
anche l’Italia si sta avviando su questa strada con un disegno di legge
che errà presentato proprio in occasione della Giornata della memoria di
quest’anno.
Francesco Anfossi
Quando si sono incontrati, Erika era poco più che una bambina. Sedeva tra
centinaia di alunni nella sua scuola media di Ladispoli ad ascoltare il
racconto di Piero Terracina, ebreo romano deportato ad Auschwitz a 15
anni, fortunosamente scampato all’inverno polacco e alle atroci selezioni per la
vita e per la morte, oggi tra i più tenaci testimoni pubblici della Shoah.
Tante volte Erika ha ripercorso con la mente la storia incredibilmente
reale di quell’anziano signore che non si vergognava di commuoversi mentre
parlava di sé bambino, nel 1938, quando le leggi razziali lo cacciarono da
scuola. Del 16 ottobre 1943, la retata nazista nel ghetto ebraico di Roma:
era in coda sotto la pioggia per comprare le sigarette al padre e proprio
da lui si sentì urlare: «Vieni via! Arrestano tutti gli ebrei!».
Del nascondiglio e della paura condivisi con i genitori, i nonni, i tre
fratelli e la sorella fino al 7 aprile del 1944, quando un giovane sciocco
e avido li denunciò alle SS per 40 mila lire. Furono rinchiusi nel carcere
di Regina Coeli, trasferiti nel campo di Fossoli, vicino a Modena, e il 16
maggio, su un treno piombato riempito di 581 persone, deportati ad
Auschwitz. L’abisso da cui solo Piero riemerse, il braccio sinistro
deturpato dal numero A5506.
Erika gli ha scritto e ha voluto incontrarlo di nuovo. Per approfondire
una tragica pagina della nostra storia e soprattutto per capire come sia
possibile continuare ad amare la vita dopo aver conosciuto l’inferno. Oggi
Erika Silvestri ha 20 anni e studia storia all’università. La sua amicizia
con Piero si è fatta profonda, indissolubile, nonostante i 58 anni che li
separano. Come con un nonno dal quale cercare risposte sul senso
dell’esistenza. Ha scritto un libro su di lui, ed è la prima volta che
Piero Terracina, instancabile oratore, accetta di mettere per iscritto le
sue ferite. È uscito il 10 gennaio per Rizzoli con il titolo Il
commerciante di bottoni: «Un giorno gli raccontai che da piccola amavo
giocare con i bottoni», spiega Erika, «e lui mi disse: "Che coincidenza.
Io ho lavorato a lungo in un’azienda di bottoni"».
Il libro ha la freschezza della giovane autrice, che lo paragona a «una
scatola con dentro tanti biglietti da estrarre a uno a uno, scoprendo
episodi della nostra amicizia e le tappe della vita di Piero: le leggi
razziali, la deportazione, il ritorno dal lager». Inizia con Erika che, da
una vecchia foto, disegna un ritratto della bellissima sorella di Piero,
rimasta cenere ad Auschwitz. Esita a lungo se fargliene dono, teme di
riaccendere in lui la sofferenza, finché si decide. Un gesto in cui Piero
legge grande affetto, ed è un regalo che innesca ricordi, un racconto e un
altro ancora.
Uno dei più intensi riguarda il legame con un altro sopravvissuto, Sami
Modiano: «Eravamo adolescenti, soli, impauriti, nella stessa baracca di
Birkenau. Ci aggrappavamo l’un l’altro per conservare una sembianza di
vita
in mezzo alla morte», ammette Piero nel salotto della sua casa romana,
mentre con Erika sorseggia succo d’arancia. «Sami fu selezionato per la
camera a gas. Mentre attendeva di morire, arrivò un treno di patate e
servivano braccia per scaricarlo: fu chiamato al lavoro e si salvò. Dopo
l’arrivo dei russi, nel gennaio del ’45, percorremmo un tratto di viaggio
insieme a Primo Levi, come lo narra nel libro La tregua. Finché io mi
ammalai e fui portato in un sanatorio nel Caucaso. Di Sami non ebbi più
notizie, né lui di me. Solo qualche anno fa mi vide in televisione e mi
riconobbe subito, nonostante fossi tanto diverso dal ragazzino emaciato di
un tempo. Ci ritrovammo e oggi siamo legati come allora».
Piero Terracina rivide Roma nel dicembre del ’45, a 17 anni. Ritrovò
qualche parente, cominciò a lavorare, divenne dirigente d’azienda. Non si
è ai sposato: «Qualcuno pensa sia perché non ho voluto mettere al mondo
figli, dopo ciò che ho vissuto», nota, «ma non è vero, dalla vita ho avuto
anche gioie. Smettere di credere in Dio e negli uomini significherebbe
ripiombare nel nulla assoluto di Auschwitz». La sua famiglia sono i
nipoti.
Ed Erika, che lo ha accompagnato ad Auschwitz in due viaggi organizzati
dal Comune di Roma per le scuole. Gli ha porto il braccio mentre Piero, tra le
rovine delle baracche rosse di Birkenau, rievocava una notte del ’44 in
cui gli zingari smisero all’improvviso di suonare e cantare: erano stati
mandati al gas, migliaia in una volta sola.
Erika talvolta lo segue nei tanti incontri con gli studenti che ancora non
stancano Piero. «I ragazzi sono sempre meravigliosi», sottolinea lui.
«Sono appena stato a Napoli, in un quartiere ai margini. Mi avevano messo in
guardia e invece gli studenti sono stati attentissimi: non esistono
adolescenti difficili, basta imparare a comunicare con loro».
Come lui ha saputo comunicare con Erika, che ora progetta di
specializzarsi
in storia della Shoah a Gerusalemme. Per portare avanti la preziosa
testimonianza che le è capitata in dono. E farsi candela della memoria
contro ogni negazionismo.
Emanuela Zuccalà
Le vittime della Shoah
La legge n. 211 del 20 luglio 2000 ha istituito anche in Italia il Giorno
della memoria, che si celebra il 27 gennaio, anniversario della
liberazione, nel 1945, del lager di Auschwitz, «in ricordo dello sterminio
e della persecuzione del popolo ebraico e dei deportati militari e
politici italiani nei campi di concentramento».
Secondo le stime del Consiglio mondiale ebraico, la Shoah (termine ebraico
che significa "distruzione") provocò lo sterminio di circa 6 dei 9,5
milioni di ebrei che vivevano in Europa prima della Seconda guerra
mondiale. Nei lager nazisti furono eliminati in totale dai 13 ai 19
milioni di persone: 3,5-6 milioni di civili slavi; 2,5-4 milioni di prigionieri di guerra; 1-1,5 milioni di dissidenti politici; 200-800.000 zingari; 00-300.000 portatori di handicap; 100-250.000 omosessuali; 2.000 testimoni di Geova.
Dopo l’8 settembre 1943 furono catturati dai tedeschi 650.000 italiani, in
gran parte militari (circa 400.000 non fecero più ritorno in patria). Di
questi, 550.000 furono deportati nei lager di Germania e Polonia e 100.000
trattenuti nei Balcani. Gli ebrei italiani deportati furono 6.746 (5.916
di loro morirono nei lager nazisti
E’ ancora aperta “La strada di Levi”
«Meditate che questo è stato». Le parole di Primo Levi sono come scolpite
in epigrafe a Se questo è un uomo. Levi non c’è più da vent’anni, La
tregua
ne compie 60. Torino c’è.
La prima per il pubblico qualunque, non anteprima, non a inviti, di La
strada di Levi, il film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti che
ripercorre
ai giorni nostri il tortuosissimo viaggio di ritorno dal campo di
concentramento di Auschwitz descritto in La tregua, coincide con un
pomeriggio di un gennaio tanto caldo da sembrare maggio.
Il primo spettacolo, alle 15.15, costa 3 euro, ma in un venerdì così
sembra
nato soltanto per andare deserto. E invece, nella sala del cinema Romano
di piazza Castello, ci sono circa 50 persone. Tra loro, lo si capisce dalle
parole origliate qua e là, gli amici di Primo Levi, anche, che chiedono di
ricordare e magari di giudicare.
Il film documentario è una carrellata di immagini scabre, nessuna
concessione alla retorica, voci solo fuori campo, perlopiù pagine di Levi,
a cucire interviste a persone incontrate lungo la strada, appunto.
L’idea è di raccontare la "tregua" che l’Est europeo avrebbe, secondo gli
autori, vissuto tra il 1989 e l’11 settembre 2001.
C’è una possibilità che ci sia una forzatura nel far calzare alle parole
di Levi le immagini dell’Europa orientale di oggi, però le analogie si
trovano, eccome: miseria, migrazioni, crisi identitarie, nazionalismi
spinti, nostalgie sinistre e revisionismi, dolore multiforme di mondi alla
ricerca di nuovi equilibri.
Polonia, Ucraina, Russia, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria,
Germania, Austria sono esattamente i luoghi di La tregua, ma sarebbe
sbagliato aspettarsi di rivedere il libro trasformato in film.
Eppure, dalla visione della pellicola si esce con lo stesso senso di
angoscia che si prova terminando la lettura di Primo Levi, con il suo
sogno ricorrente della casa che si disfa ridestando il lager.
Si esce con la consapevolezza che il mostro può, a ora incerta, tornare
altrove, con altre forme.
Resta, però, la memoria. Come dovere, come unico antidoto al rischio
fortissimo di «lasciarsi impietrire dalla lenta nevicata dei giorni».
Elisa Chiari
Quelle note dietro il filo spinato
C’è una città dove i vivi non sanno più ridere e i moribondi non muoiono
più. La morte si lamenta con Arlecchino perché si sente inutile e intanto
un imperatore sanguinario dichiara guerra al mondo chiedendo l’aiuto alla
morte, che rifiuta. Nessuno muore più. È il caos, anche se un ragazzo e
una
ragazza riescono a innamorarsi. Alla fine l’imperatore accetta di morire e
torna la speranza. Questa, per sommi capi, la trama di Der Kaiser von
Atlantis (L’Imperatore di Atlantis), un’opera del compositore ceco Viktor
Ullmann.
La storia, allucinante, non deve stupire più di tanto. L’opera fu infatti
composta da Ullmann in circostanze terribili, mentre si trovava rinchiuso
nel campo di concentramento nazista di Terezin (Theresienstadt). Ullmann,
ebreo, nato nel 1898, era un musicista di talento, allievo di Schoenberg.
Fu portato a Terezin nel 1942, due anni dopo fu ucciso ad Auschwitz.
Terezin fu una cittàghetto creata dai nazisti non lontano da Praga per
ingannare il mondo. C’erano bambini e artisti, vi erano ammesse perfino le
visite della Croce Rossa. Ma molti rinchiusi a Terezin poi finivano nei
campi di sterminio. A Terezin in quel periodo ci fu una esplosione di
creatività musicale. Oltre a Ullmann vi furono rinchiusi altri compositori
come Pavel Haas (allievo del grande Janacek), Gideon Klein (giovanissimo,
compose a Terezin una sonata per pianoforte, quartetti, un trio per archi
e ari lavori corali), Hans Krása (autore di Bruindibar, operina per ragazzi
e orchestra). Un altro musicista, Raphael Schaechter, fra il 1943 e il
1944
fece eseguire a Terezin opere di Verdi.
L’opera di Ullmann è stata rappresentata più volte nei teatri (anche al
Festival di Spoleto, nel 2004), ma gran parte della produzione musicale
nei ager, la cosiddetta "musica concentrazionaria", è finita nell’oblio. Ora,
finalmente, la si sta recuperando in varie università e centri di ricerca
in Europa, negli Stati Uniti e in Israele. A Roma, presso l’Università
Roma Tre, sta nascendo la Biblioteca internazionale di letteratura musicale
concentrazionaria. «Abbiamo già 4.000 spartiti, ma le ricerche continuano.
Nel 2008 contiamo di organizzare a Roma un grande simposio da dedicare a
questo patrimonio musicale», dice il professor David Meghnagi, animatore
del progetto. Ebreo tripolino, è docente di Psicologia clinica a Roma Tre
e cura presso lo stesso ateneo un master in "Didattica della Shoah". Sua
sorella Miriam è una nota cantante. Meghnagi, con l’aiuto di ricercatori
come Francesco Lotoro e Luca Lombardi, ha già pubblicato dei cd di musica
concentrazionaria (eseguita da giovani musicisti del Conservatorio di
Barletta).
Le sue ricerche non si limitano alle composizioni di musicisti
professionisti. Nei campi produssero tanta musica anche i rom e i sinti. I
deportati ebrei scrissero cantici di sinagoga. Spesso la musica veniva
scritta in condizioni di fortuna. Talvolta sono rimasti solo frammenti,
magari scarabocchiati su fogli di carta igienica.
Nell’archivio che si sta raccogliendo a Roma non c’è solo musica
proveniente dai campi nazisti. Ci furono i canti patriottici composti in
segreto dai prigionieri politici o dai soldati, oppure le trascrizioni per
coro femminile di celebri brani classici (come il Bolero di Ravel),
eseguite dalle detenute olandesi nei campi giapponesi di Sumatra. Anche
prigionieri italiani composero musica. Come il fante Berto Boccosi,
anconetano, rinchiuso dagli Alleati in un campo di prigionia algerino nel
1942. Lui fu più fortunato dei suoi colleghi ebrei. Morì nel 1985, da uomo
libero.
Roberto Zichittella
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