Scenari mediorentali il generale americano Petraeus vuole rendere sicuro l'Iraq, il generale libanese Aoun vuole diventare presidente con l'aiuto di Hezbollah, Richard Perle spiega il nuovo piano di Bush
Testata: Il Foglio Data: 25 gennaio 2007 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Petraeus spiega il suo piano militare ( e politico) per rendere sicuro l'Iraq - Perle ci spiega che Bush non sarà un'anatra zoppa con l'Iran - Perché il generale cristiano Aoun lotta e combatte con l'Iran»
Dal FOGLIO del 25 gennaio 2007:
Washington. Nel luglio del 2004, sulla copertina di Newsweek c’era la foto del generale David Howell Petraeus con il titolo: “Può quest’uomo salvare l’Iraq?”. Due giorni fa quest’uomo si è presentato davanti alla commissione delle Forze armate del Senato americano per le audizioni: se l’esito è favorevole, Petraeus aggiungerà la quarta stella alla sua giacca come comandante delle forze americane in Iraq. “Il generale dell’ultima chance”, come l’ha definito in un ritratto il Monde ieri, ha presentato il suo piano militare a Baghdad che ha l’obiettivo di garantire la sicurezza degli iracheni, di combattere i terroristi sunniti e di smantellare le milizie che operano fuori dall’esercito, in particolare quelle legate al leader sciita Moqtada Sadr. I lavori sono già cominciati: secondo il comando americano, nelle ultime settimane 600 uomini dell’esercito del Mahdi sono stati catturati. Ma non ci si deve aspettare che i tempi di questa nuova offensiva siano brevi. Anche le critiche interne sono forti, come dimostra il voto di ieri della commissione Relazioni internazionali al Senato, che ha bocciato il piano di Bush: la risoluzione non vincolante sarà sottoposta al voto di tutta la Camera alta settimana prossima. Petraeus, nel discorso iniziale, ha detto: “La situazione in Iraq è molto grave, la posta in palio è alta e non ci sono scelte facili da fare”. Soprattutto, “ci vorrà tempo perché le truppe addizionali arrivino in Iraq, tempo per organizzarle e metterle in contatto con i partner iracheni, tempo per stabilire le condizioni per un successo delle operazioni e tempo per condurre queste operazioni e valorizzare gli obiettivi che si raggiungono”. Quest’anno sarà lungo e difficile. E questo è già un problema, “perché il tempo non è dalla nostra parte”, visto che “ci abbiamo messo troppo a capire come si stavano organizzando i miliziani contro di noi”. Le sfide sono quattro: garantire la sicurezza quartiere per quartiere; sviluppare l’efficacia delle forze irachene; integrazione del progetto militare con quello istituzionale, economico e di stato di diritto; fare pressioni sul governo perché sfrutti al meglio tutte le sue capacità, risorse naturali comprese. Uno dei motti di Petraeus, che compare anche nel manuale sul controterrorismo scritto da lui e adottato dal Pentagono, è: “L’esercito è un martello, ma non tutti i problemi che gli si presentano sono dei chiodi”. Nell’audizione, il generale non soltanto ha spiegato come intende attuare il piano militare, ma ha sottolineato la necessità di una collaborazione con tutti gli interlocutori, soprattutto in campo economico. L’esempio di riferimento è Mosul, dove lui operò nel 2003 come capo della 101a divisione aviotrasportata e ottenne risultati riconosciuti da tutti. La “presenza persistente” delle truppe americane con quelle irachene a Baghdad per garantire la sicurezza della popolazione è la prima priorità: Petraeus ha spiegato che ci sarà una rotazione e che non tutte le aree saranno bonificate contemporaneamente, ma il processo sarà graduale. La commissione ha insistito sulla sicurezza a Sadr City, roccaforte del leader sciita Moqtada al Sadr – anche se lui ora si è rifugiato a Najaf – e del suo esercito del Mahdi. Petraeus ha spiegato che lì si testerà non soltanto la forza delle brigate irachene – che dovranno essere “apolitiche e non legate agli interessi settari” – ma anche quella del governo e dello stesso Sadr. Il quale “deve dimostrare la volontà di agire in modo costituzionale e responsabile, indipendentemente da quali soldati arriveranno nella sua zona” (sono già state assegnate due brigate curde). Per quanto riguarda l’esecutivo di Nouri al Maliki, Petraeus ha ricordato l’articolo 9 della Costituzione irachena che prevede lo smantellamento di tutte le milizie. “Il governo non ha fatto molto in questo senso perché aveva bisogno di sicurezza”, ha spiegato il generale, ricordando però che ora, con il nuovo piano, tale elemento non sussiste più. Nell’ultima parte dell’audizione, Petraeus ha spiegato sia il sistema di turn over delle truppe irachene – 6.500 soldati hanno appena finito la formazione e un secondo ciclo di 8 mila finirà entro due mesi – sia i checkpoint, i pattugliamenti e i report obbligatori da consegnare settimanalmente ai superiori, ma anche un suo piano di ristrutturazione economica. Secondo il generale, la soluzione del problema della disoccupazione è cruciale anche per quello della sicurezza. Per questo, le aziende di proprietà statale devono essere modernizzate, non soltanto quelle legate al petrolio, ma pure quelle relative alle riserve di zolfo e alla produzione dell’asfalto. Già 56 di queste aziende – circa 200 fabbriche – sono state rimesse in funzione e, nella martoriata provincia di al Anbar, 6 milioni di dollari del governo possono servire a dare lavoro a 11 mila persone. Perché, come recitava un cartello appeso nella sala di comando di Petraeus a Mosul, “i soldi sono una munizione, quindi vanno usati”.
Sempre dal FOGLIO, un intervista a Richard Perle sulla politica americana verso l'Iran e il Medio Oriente:
Gerusalemme. “La maggior enfasi sulla protezione degli iracheni come base per costruire istituzioni e governo è un cambiamento molto positivo”, dice al Foglio Richard Perle commentando la nuova strategia di George W. Bush in Iraq, ribadita due sere fa nel discorso sullo Stato dell’Unione. Perle è un analista neoconservatore, è stato consigliere del Pentagono fino al 2004 e uno degli ideologi della dottrina Bush. Oggi dice che un cambiamento era necessario, perché “ci sono molte ragioni per cui la vecchia strategia non funzionava nel garantire la sicurezza nelle città”, ma spiega che non è una questione di numero di soldati, bensì di “fare la cosa giusta” con l’incremento delle truppe. “La domanda è se Bush – prosegue Perle – riesce a convincere gli americani del fatto che andarsene subito o anche lentamente è una strategia folle che peggiorerebbe soltanto le cose, e le conseguenze sarebbero devastanti”. La risposta non è chiara e le proteste dei democratici non si sono fermate, pure se il discorso di Bush – in cui ha ribadito la necessità di vincere la guerra al terrore – è stato molto dialogante nei confronti dell’opposizione. La commissione Relazioni internazionali del Senato ieri ha infatti votato (12 voti a 9) una risoluzione non vincolante che boccia il piano della Casa Bianca: la settimana prossima la mozione sarà votata da tutto il Senato. Ma Perle non pare preoccupato per gli attacchi dei liberal, “non vedo niente che assomigli a una strategia alternativa – dice – Il Congresso è in una posizione molto confortevole per lanciare le sue critiche, quindi ci saranno molte lamentele, ma dubito che si arrivi a un taglio dei finanziamenti”. Le ripercussioni del cambio di strategia hanno un impatto a livello regionale, oltre che in Iraq, dove – secondo il comando americano – sono già stati catturati 600 miliziani dell’esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr. Perle è duro nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare e non pensa che, su questo fronte, Bush si comporterà come “un’anatra zoppa”, un presidente dimezzato nell’ultima parte del suo mandato. “Se Bush venisse a sapere nell’ultimo giorno da presidente che non agendo nei confronti di Teheran si raggiungerebbe il punto di non ritorno della nuclearizzazione iraniana, darebbe l’ordine di agire”. Certo, “non sono informazioni riservate” queste, come spiega Perle, non ne ha parlato direttamente con Bush, ma ne è convinto sulla base del decisionismo già mostrato in passato. Ha un atteggiamento molto critico nei confronti del coinvolgimento dell’Arabia Saudita in chiave anti Iran, anzi definisce senza mezzi termini “un’idiozia” l’apertura verso Riad. E’ convinto che i sunniti siano “più terrorizzati di noi” nei confronti di Teheran e del suo asse sciita e che quindi non faranno nulla, a partire proprio dalla casa saudita. “Un’alleanza sarebbe disgustosa – spiega – perché l’Arabia Saudita non è amica degli Stati Uniti e finanzia il terrorismo in giro per il mondo”. Lo stesso vale per Israele, perché, secondo Perle, “non c’è alcuna intenzione di lavorare con Gerusalemme” da parte di Riad, che si muove soltanto perché impaurita. “Come sempre, i sauditi guarderanno l’America che si occupa dell’Iran piuttosto che mettersi a lottare loro stessi”. Gli eventi dimostreranno chi ha ragione, ma certo conta anche il fatto che, nel 2008, ci sarà un cambio della guardia alla Casa Bianca. In campo repubblicano, Perle è ben impressionato da Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, anche se i migliori complimenti li riserva per Rudy Giuliani, ex sindaco di New York, “un politico intelligente, deciso e innovatore”. E’ perplesso nei confronti di John McCain, senatore dell’Arizona, anche se condivide la maggior parte delle sue istanze di politica estera: “Non sono certo che abbia il temperamento per essere presidente”. Sul fronte democratico, è colpito da Barack Obama, senatore dell’Illinois, che di certo farà sentire la sua presenza all’altra grande concorrente, Hillary Clinton, che “si è candidata con grande anticipo per chiudere la strada ad altre new entry”. Molti dicono che Obama potrebbe fare il vice di Hillary, ma Perle scuote la testa e sorride: “Nessuno corre per fare il vice”.
Dal FOGLIO un ritratto del generale Aoun, leader cristiano libanese alleato di Hezbollah:
Beirut. Il piccolo De Gaulle, Napoleone del Libano o più semplicemente “il generale”. Sono questi i diversi modi con cui Michel Aoun si è fatto chiamare nel corso della sua travagliata carriera di capopopolo libanese. Nato nel 1935, in una famiglia cristiana maronita, è l’alleato di ferro di Hezbollah nel tentativo di rovesciare il governo filo occidentale di Fouad Siniora. Ieri i posti di blocco che paralizzavano il paese sono stati tolti e i manifestanti, compresi i suoi uomini, sembrano essersi ritirati dalle strade, anche se hanno annunciato proteste ancora più ampie, dopo aver lasciato sul terreno morti e feriti. I detrattori lo chiamano “Napolaun” sapendo che l’ex generale cristiano non disdegna di paragonarsi a Bonaparte. La sua stella cominciò a salire nei giorni più bui della guerra civile libanese. Nel 1984 divenne capo dell’esercito, miseramente diviso lungo linee confessionali, ma il grande salto lo fece quattro anni dopo, con la nomina a primo ministro del presidente cristiano Amin Gemayel. Una scelta folle tenendo conto che, nel delicato bilanciamento dei poteri nel Paese dei cedri, il primo ministro deve essere sunnita. Licenziato, un anno dopo scatenò una delle ultime e più violente battaglie della guerra civile, ma i soldati siriani ridussero in briciole il suo sogno bonapartista. La leggenda vuole che il “generale”, dopo essersi lasciato un migliaio di morti alle spalle, fuggì in pigiama per le strade di Beirut, rifugiandosi nell’ambasciata francese. Durante i 14 anni di esilio è stato uno strenuo oppositore della presenza siriana in Libano, testimoniando in tal senso davanti al Congresso degli Stati Uniti. Damasco, che controlla il piccolo vicino, fece emettere un mandato di cattura nei suoi confronti “per avere messo in pericolo le relazioni del Libano con un paese amico”. Quando sunniti, drusi e cristiani si sono alleati per cacciare i siriani dal Libano – fondando il Movimento 14 marzo, attualmente al governo – Aoun li appoggiò da Parigi. Lo scorso anno, dopo il ritiro delle truppe di Basher al Assad, rientra trionfalmente in patria, per coltivare i sogni di grandezza di un tempo. Ben presto capisce di aver spazi limitati e salta il fosso stringendo un patto d’acciaio con Hezbollah. All’opposizione sciita legata a Damasco e Teheran fa comodo un alleato cristiano. Le bandiere arancioni del Movimento si mescolano a quelle gialle del Partito di Dio durante le manifestazioni di protesta contro Israele. Il colore era stato scelto per emulare i rivoltosi ucraini, che a Kiev avevano conquistato il potere abbattendo il governo filo russo. In cambio Aoun ottiene la promessa di Hezbollah ad appoggiarlo nel suo sogno più alto: diventare capo dello stato al posto dell’emarginato Emile Lahoud, anche lui filo siriano, ma in scadenza. Con l’opposizione sciita si schierano anche i cristiani di Suleiman Franjieh, ma la scelta di campo di Aoun è clamorosa. Il 10 dicembre i suoi fanno gli ascari di Hezbollah nell’assedio del palazzo governativo di Siniora e il “generale” pronuncia un discorso in cui incita all’assalto facendo riferimento anche alla rivolta serba contro Milosevic, appoggiata dall’occidente. Un mese prima – quando alcuni sicari uccidono il ministro dell’Industria, Pierre Gemayel, figlio del presidente che lo nominò primo ministro durante la guerra civile – Aoun tace. I suoi sostenitori sono attaccati dagli uomini di Gemayel e dai miliziani di Samir Geagea, capo delle Forze libanesi, schierato con il governo. Geagea accusa Hezbollah e i suoi alleati di ordire un golpe e sembra che fra i militanti del “generale” si cominci a notare qualche crepa. Il problema è che Aoun sfrutta il risentimento dei cristiani nei confronti dei sunniti, che nel governo la fanno da padroni. Ieri il premier Siniora, volato a Parigi, ha cominciato a incassare i primi aiuti internazionali, in vista della conferenza di oggi in sostegno al Libano. Novecento milioni di euro promessi dalla Commissione europea e dalla Francia, ma servono almeno 4 miliardi, anche per ammodernare e rinforzare l’esercito contro i piani di “golpe” di Hezbollah e alleati
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