Israele, insieme alla Siria e ad "altri poteri", insidia " la miracolosa struttura portante dello Stato libanese" e nutre "disegni di destabilizzazione".
E' quanto, di fronte all'evidente volontà di destabilizzare il Libano di Hezbollah, Siria e Iran, sostiene Igor Man nel suo commento pubblicato dalla STAMPA del 24 gennaio 2007.
Ma l'inclusione di Israele nel novero di quanti vogliono produrre il caos in Libano è ingiustificata.
Del caos, piuttosto , hanno sempre approfittato i nemici di Israele per fare del "paese dei cedri" la base della loro aggressione terorristica.
Prima l'ha fatto l'Olp di Arafat, e oggi o fa Hezbollah.
Ecco il testo completo dell'articolo:
Beirut è tornata la disgrazia. Una giornata di sciopero generale indetto da Hezbollah, il «partito di Dio» sciita che vuol rovesciare il governo Siniora; neanche ventiquattr’ore sferruzzate di selvaggia furia suicida han cancellato «il belletto della normalità», restituendo al già felice Paese dei cedri i connotati funesti della guerra intestina. Le mischie cruente fra i miliziani sciiti di Hezbollah, i più scatenati, e di Amal, i più «politici» con i «volontari» del partito sunnita al-Mustaqbal sono state contenute dalla polizia, dall’esercito: gli stessi contendenti non han pigiato finora sull’acceleratore il piede biforcuto della «guerra civile». Sedici anni (1975-1991) d’infame guerra interna hanno vaccinato i libanesi.
Da bravi fenici, maestri del compromesso, produttori di benessere, sono riusciti nell’impresa ciclopica di ricostruire il Libano. Ma la ricostruzione non poteva non coincidere con la sovranità mutilata dall’occupazione, sia pure carsica, del Deuxième Bureau della Siria. Damasco non ha mai riconosciuto il Libano, scippato ai siriani dagli accordi «imperialisti» Sykes-Picot; «Non si scambiano ambasciatori dentro lo stesso paese», diceva Hafez al-Assad, l’ascetico Duce siriano i cui talenti colpirono Kissinger.
«Il Libano è più di un paese, è un messaggio», disse Giovanni Paolo II. Un messaggio che dimostra come un paese arabo può essere islamico ma al tempo stesso aperto all’Occidente se non «amico», capace di convivere pacificamente con Israele. In forza del Patto nazionale del 1943, cristiani-maroniti, musulmani sciiti e sunniti, greci-ortodossi han costruito un paese ricco, parlamentare, con una stampa libera, terra di asilo nel gigantesco boulevard naturale che collega tre continenti. Era una fiaba il Libano, una saga orientale cui ci eravamo affezionati tanto da respingere l’idea che potesse trasformarsi in faida pressoché permanente. Ma la natura e la composizione della società libanese, le sue contraddizioni sociali, quella sorta di apartheid confessionale in cui s’è via via tradotto il Patto nazionale, tutto ciò ha facilitato i «disegni esterni» di destabilizzazione. Di conserva con Israele, con la Siria altri poteri, altri governi insidiano la miracolosa struttura portante dello Stato libanese vuoi per proteggere confini difficili, vuoi per allargare le rispettive aree di influenza.
La recente irruzione dell’Iran nella palestra della destabilizzazione (che oramai affligge tutto il Vicino Levante, l’area del Golfo e persino la Turchia) viene da lontano. Dal 1979, quando Khomeini spedì in Libano i suoi pasdaran per rafforzare il «fronte sciita» indebolito dall’imborghesimento di Amal. Guidati da «Ringo», il figlio «strano» di Montazeri, i pasdaran piantarono nella Bekaa i semi del komeinismo. Quei semi han fatto nascere la fitta boscaglia terribile chiamata Hezbollah. Quel «partito di Dio» che «inventò» i terroristi suicidi, terribile arma segreta dello sciismo terrorista.
Assad tenne a debita distanza Teheran pur succhiando le ricche mammelle di Teheran. I successori del Leone di Damasco sono in difficoltà di fronte allo straripare dell’Iran cui, a sentire il presidente Ahmadinejad, spetta il ruolo di ispiratore-guida degli sciiti. E siccome gli sciiti (quelli di Hezbollah, quelli di Amal) sono la maggioranza effettiva del Libano, il Patto nazionale «va rivisto» con le conseguenze del caso. Ecco la primavera di Beirut, ecco la disperazione degli studenti in T-shirt che affrontano gli hezbollah in queste ore tremende, per le vie d’una città nata per la bella vita. Se a questo minestrone ribollente, per citare Malraux, si aggiunge la spasmodica preoccupazione dei sunniti (leggi Egitto e Arabia Saudita) e cioè che gli Usa pragmaticamente aprano un tavolo con Teheran, in quest’ottica non appare eccessivo il pessimismo dei «guru di Zamalek». «Siamo solo agli antipasti», dicono.
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