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Europa Rassegna Stampa
23.01.2007 L'alleanza "difensiva" di Iran e Siria
la falsificazione di un "esperto"

Testata: Europa
Data: 23 gennaio 2007
Pagina: 5
Autore: Lazzaro Pietragnoli
Titolo: ««Lo stesso nemico, ma sono amici?»»

Tra Siria e Iran, vi sarebbe, secondo l'analista Jubin Goodarzi un'"alleanza difensiva" di lunga data.
Sorta soprattutto per contrastare la "capacità offensiva" dell'Iraq di Saddam Hussein e... di Israele.
A questo proposito va ricordato che Israele non ha mai aggredito né la Siria né l'Iran (nè nessun  altro in Medio Oriente)
E' la Siria che ha preso parte a tre guerre di aggressione contro Israele (1948, 1967, 1973). E' l'Iran che proclama la volontà di spazzare via Israele dalla faccia della terra. 
Sono Siria e Iran che finanziano e appoggiano il terrorismo contro Israele.
E quello che sconvolge l'Iraq.

Sono Siria e Iran che minacciano aggrediscono Israele ( e l'Occidente), non il contrario.

Ecco il testo dell'articolo:

Negli ultimi sei mesi il continuo peggioramento della situazione in Iraq, la guerra estiva tra Israele e Hezbollah e la pubblicazione del rapporto Baker-Hamilton hanno messo in luce il peso sempre crescente di Iran e Siria nello scacchiere mediorientale: la Siria è uscita rafforzata dalla “non-vittoria” israeliana in Libano, l’Iran continua a tenere testa agli Usa sulla questione del nucleare, entrambi supportano più o meno apertamente la guerriglia antiamericana in Iraq. Come ha ammonito l’Iraqi Study Group in dicembre, ormai il dialogo con Damasco e Teheran è fondamentale per qualsiasi soluzione stabile in Medio Oriente.
«Una ricetta che l’amministrazione Bush non potrà mai accettare » sottolinea Jubin Goodarzi, autore del libro “Syria and Iran: Diplomatic Alliance and Power Politics in the Middle East”, recentemente pubblicato negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
«L’alleanza tra Siria e Iran è un elemento fondamentale della politica mediorientale fin dalla cacciata dello Scià nel 1979 – spiega Goodarzi, iraniano di nascita, ma ormai definitivamente radicato in Europa (Londra prima e Ginevra ora) – e si è cementata negli anni ‘80, durante la guerra Iran-Iraq e l’invasione israeliana del Libano. Si tratta di un’alleanza sostanzialmente difensiva, che si rafforza nei momenti in cui un pericolo esterno si manifesta: nel corso degli anni, i due paesi si sono trovati alleati nel tentativo di neutralizzare la capacità offensiva dell’Iraq e d’Israele.
Essi sono paradossalmente molto diversi: l’Iran è un paese non arabo a maggioranza sunnita retto da una teocrazia islamica, la Siria, invece, è un regime autoritario secolare, in un paese a maggioranza sciita. Ma, di fronte a una minaccia esterna, trovano punti di contatto»
È successo così di fronte all’invasione americana dell’Iraq nel 2003?
In quell’occasione la reazione di Siria e Iran è stata ambivalente: da un lato la fine del loro comune nemico Saddam era un sollievo; dall’altra la facile vittoria americana diventava un rischio per la loro stessa sicurezza. Entrambi temevano di essere un possibile target degli Usa nella lotta al terrorismo internazionale. Hanno reagito in maniera tattica, aiutando la resistenza agli americani, in modo da mantenere la situazione in uno stato di “caos controllato”: nessuno dei due vuole il collasso dell’Iraq, ma al tempo stesso non vogliono neppure una situazione di pace governata dagli Usa.
Perché l’amministrazione Bush non può seguire le conclusioni del rapporto Baker-Hamilton e aprire un dialogo con Siria e Iran?
C’è una visione ideologica che ha ispirato l’amministrazione Bush: essa non prevede compromessi con le cosiddette “forze del male”. Ci sono poi questioni pratiche: sia Iran che Siria chiederebbero qualcosa in cambio per cominciare un dialogo con gli Usa.
Teheran potrebbe chiedere il via libera alle ricerche sul nucleare civile, la Siria la fine delle inchieste sulla morte di Hariri e la riapertura del processo di pace con Israele con l’obiettivo di vedersi restituire l’altopiano del Golan. Sono tutte richieste fortemente mal viste da Israele. Bush, soprattutto dopo la batosta delle elezioni di mid-term, non vuole entrare in rotta di collisione con il potente elettorato ebraico americano: il padre nel 1992 fece pressione su Israele e fu sconfitto alle seguenti elezioni presidenziali perché perse l’ottanta per cento del supporto ebraico.
Infine c’è una ragione di realismo politico: è davvero dubbio che Siria e Iran possano fare qualcosa per far migliorare la situazione in Iraq. Ormai la violenza nel paese ha preso la sua strada e anche se la Siria decidesse di chiudere le sue frontiere alla guerriglia, e l’Iran smettesse di supportare le milizie sciite, probabilmente non ci sarebbe un reale impatto sulla situazione della sicurezza interna. La loro reale influenza sulla regione è ingigantita dai continui fallimenti americani. Per questo Bush ha deciso di mantenere la sua rotta: le recenti affermazioni a sostegno dei gruppi di opposizione siriana, l’imposizione delle sanzioni all’Iran e l’invio di nuove truppe in Iraq sono un chiaro segnale che gli Usa vogliono procedere con determinazione lungo la via fin qui tracciata.
Che possibilità di uscita ci sono?
Non c’è una soluzione veloce. Non è facile restaurare un edificio di cui sono state sbagliate le fondamenta. Fuor di metafora: ci sono stati alcuni errori enormi all’inizio ed ora non è possibile recuperare in modo semplice. La scelta di smantellare le forze armate irachene, mettendo in strada da un giorno all’altro migliaia di persone, in un paese già devastato dalla disoccupazione e privo di sicurezza; la scelta di costruire un governo di coalizione tra forze politiche che non avevano mai collaborato prima, e in assenza di una reale struttura democratica; la decisione di imporre l’economia di mercato a un paese che negli ultimi vent’anni aveva vissuto in un’economia di guerra prima e di sanzioni poi.
Ci sono stati errori di ogni tipo, politici ed economici: la situazione andava gestita in modo più graduale.
Per garantire democrazia e libertà in Iraq, e in tutti i paesi del Medio Oriente, è necessario far crescere una borghesia indipendente, che possa mettere in crisi il monopolio economico degli stati sul petrolio e contrastare la corruzione dei regimi. È quello che è successo in Europa nel medioevo, ma richiede tempi lunghi e un approccio meno manicheo e più attento alle sfumature.
Tra gli errori degli Usa c’è anche la condanna a morte di Saddam Hussein?
Se quelli di Saddam erano crimini contro l’umanità, sarebbe stato meglio farlo processare da un tribunale internazionale, piuttosto che dalle sue stesse vittime. Ma Russia, America e gli altri stati europei che avevano supportato Saddam nel corso degli anni ’80 hanno preferito processarlo solo per reati, diciamo così, nazionali, onde evitare di fare pienamente luce anche sulle loro passate responsabilità. Processi farsa ed esecuzioni sommarie erano tipici del regime di Saddam Hussein: non abbiamo fatto nessun passo avanti.

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