Con questo articolo, uscito sul GIORNALE di oggi 20/01/2007, a pag.1, Fiamma Nirenstein continua l'analisi della situazione israeliana dopo la guerra contro Hezbollah della scorsa estate. Niente catastrofismi, Israele ha una classe dirigente in grado di valutare gli errori commessi e porvi riparo. Come avviene in una sana e forte democrazia.
Ecco l'articolo:
Un paio di dibattiti, qualche articolo e si capisce in fretta che i crampi di Israele danno una certa soddisfazione, una specie di punizione cosmica a un Paese spesso colpevolizzato e anche criminalizzato: il Capo di Stato Maggiore Dan Halutz si è dimesso, il grande esercito israeliano, Tzahal, chi l’avrebbe detto, ha mostrato con la Guerra contro gli Hezbollah una serie di falle. E non solo l’esercito, ma anche la leadership politica è in profonda crisi, e se ne chiedono le dimissioni. Ehud Olmert non gode più della fiducia che portò al potere Kadima con 29 seggi; il suo ministro della Difesa Amir Peretz, laburista, secondo i cittadini israeliani, deve volare via. Era il segretario del sindacato, dice la gente, doveva accettare un ministero sociale o economico. Ogni sua uscita, anche in questi giorni in cui si sceglie il nuovo Capo di Stato maggiore, appare impropria. Tzipi Livni, la ministra degli Esteri, un tempo pupilla di Sharon, è stata a sua volta molto ridimensionata. Come se non bastasse, Olmert sta per essere interrogato per l’eventuale favoreggiamento dell’acquisto da parte di suoi amici di una grande banca. E il presidente dello Stato di Israele Katzav è sospettato addirittura di stupro. Non c’è dunque dubbio alcuno che la classe dirigente israeliana sia in stato di sofferenza; qualcuno racconta che appoggiato a un muro alla Camera dei deputati Olmert mormorasse: «Mi uccidono». Di fatto la tv, i media tutti, molti politici fra cui il trenta per cento del suo stesso partito, il controllore dello Stato, il pubblico, la commissione Winograd che sta concludendo le sue indagini sulle responsabilità della guerra dello scorso agosto, chiedono che la presa di responsabilità non si fermi a Halutz.
La massa di pressione porterà presto a altre dimissioni. Vedremo senz’altro rotolare la testa di Peretz, e probabilmente anche quella di Olmert. E se non sarà lui a scegliere la strada del ritiro dalla scena, le primarie del suo partito ve lo costringeranno. Per Tzipi Livni, è difficile prevedere: dipende molto da quanto risulterà fruttuosa la sua politica della mano tesa verso i palestinesi, che ieri ha portato alferimento a Abu Mazen di cento milioni di dollari.
Che cosa tuttavia significa questo crisi? Se l’opinione pubblica europea si immagina forse che Israele sia davvero «un albero ammarcito» come ha detto il presidente dell’Iran Ahmadinejad in uno dei suoi tanti discorsi genocidi che condannano a morte gli ebrei, se immagina una crisi di ripiegamento dopo una sconfitta, un segnale strutturale di sofferenza e di ripiegamento morale della classe dirigente israeliana che potrebbe portare a conclusioni fatali... bene, è molto difficile per chi conosce bene la situazione immaginare che si tratti di questo.
Questo gruppo dirigente, compreso il capo di Stato maggiore, possono essere denominati «la squadra dello Sgombero di Sharon». È infatti sull’ipotesi che lo sgombero di Gaza avrebbe portato a un’apertura di dialogo con i palestinesi e a una loro presa di responsabilità su una porzione di territorio fino allo Stato palestinese, che erroneamente si forma questo gruppo. Difatti la prima grande operazione militare di Halutz fu lo sgombero di Gaza dell’agosto 2006, portata a compimento con «determinazione e sensibilità» come recitava lo slogan dell’esercito, senza feriti o morti nonostante la situazione esplosiva. Il secondo passo del governo fu promettere un largo disimpegno anche dal West Bank, e già si studiavano le mappe quando alcuni fattori determinanti portarono un cambiamento sul campo: Hamas distrusse le sinagoghe e le serre rimaste in piedi a Gaza, piazzò i missili kassam di cui cominciava a fare largo uso, e sulla piattaforma della negazione dell’esistenza dello Stato di Israele lanciò una fase di aggressività che si innestò su altri processi importanti. È infatti allora che Ahmadinejad, già dal dicembre del 2005, lancia la sua politica nucleare esplicitamente dedicata alla distruzione di Israele, mentre i suoi alleati più vicini, gli sciiti estremisti islamici Hezbollah, al servizio anche della Siria che cura il loro rifornimento di missili a lungo e breve raggio, preparano la prossima guerra. L’interesse della Siria nel controllo del Libano si arma del desiderio Iraniano di farne la prossimaa islamica. Insomma, intorno a un gruppo dirigente israeliano formato per la pace quasi esclusivamente da civili, come Olmert, Livni e Peretz, si crea una situazione completamente nuova. La sorpresa di Israele è bruciante, ma soprattutto è fatale perché cade sulla frontiera di un problema mondiale. E non solo Israele ma il mondo intero ancora non ha trovato nessuna risposta convincente a eserciti e armamenti terroristi destinati a un uso integralista islamico.
In secondo luogo, la guerra con gli hezbollah non è stata vinta dal generale Halutz proprio perché mancava la capacità strategica di affrontare la novità del conflitto asimmetrico. L’insuccesso è stato grave: non sapere bloccare la novità dei missili di breve gittata e non riportare a casa i soldati rapiti. Ma guardando più a fondo, i lanciamissili dei proiettili a lunga gittata sono stati tutti distrutti, gli hezbollah hanno perso 500-700 uomini, più di tutti quelli perduti negli ultimi vent’anni; la determinazione nel rispondere in maniera immediata e diretta del governo israeliano ha restaurato un elemento di deterrenza che Nasrallah, il capo degli hezbollah, ha denunciato quando ha detto: «Avessi conosciuto la reazione israeliana, non avrei rapito i loro soldati». Tuttavia, ci sono stati una serie di gravi errori, il più importante quello di puntare sull’aviazione. Ma sullo sfondo di questo errore, soprattutto c’è stato quello costruito nel profondo di questo gruppo dirigente: l’illusione, costruitasi durante i falliti accordi di Oslo, che la guerra non si sarebbe ripresentata. L’esercito era declinato, le riserve non erano preparate, i rifornimenti e le armi erano debolmente usate, e l’uso strategico dei missili a breve gittata non era stata valutata.
Ma con la guerra Israele ha imparato cose molto importanti, e le dimissioni severe e cariche di senso di responsabilità di Dan Halutz, eroe di guerra e anche però dello sgombero, mette in moto la macchina delle responsabilità, della revisione della catena del comando e della ristrutturazione delle strutture di difesa (si è già in fase di costruzione di un sistema di difesa antiaerea per i kassam)istino delle esercitazioni intensive. Ma c’è la classe dirigente per il ricambio?
La democrazia nata e formatasi in una guerra imposta in tutti questi anni ha formato una quantità di quadri specializzati che sono al contempo accademici e militari. Basta prenderne due contrapposti, e oggi messi da parte, ma probabilmente di nuovo presto in giuoco per capire di che cosa si parla. In una foto del 9 maggio 1972 si vedono insieme in tuta bianca, travestiti da tecnici, ritti sull’ala di un aereo Sabena, Ehud Barak, Binyamin Netanyahu, Danny Yatom. Sono impegnati nel salvataggio di cento ostaggi rapiti in un sequestro aereo... Ehud Barak allora colonnello, più tardi è stato capo di Stato maggiore, poi il Primo ministro che tentò il tutto per tutto a Camp David con Arafat, e si trovò di fronte a un rifiuto. Netanyahu, conservatore, anch’egli nella «Sayeret Mathal», l’unità speciale che ha fatto cose impossibili, uomo di destra mentre Barak è di sinistra, è stato a sua volta primo ministro. Danny Yatom, laburista, poi capo del Mossad nel 1996, correrà anche lui per la leadership. Altri nomi di grande spessore come Yuval Steinitz, accademico, ex presidente della Commissione esteri, o Shaul Mofaz, ex capo di Stato maggiore e ex ministro della Difesa, o Avi Dichter, accademico, ex capo dei servizi degli Interni, lo Shin Beth, o i vecchi Shimon Peres e Fuad Ben Eliezer... e ancora tanti altri sono là a formare la solita classe dirigente israeliana, proprio quella che ha fatto fiorire il deserto e ha vinto tutte le guerre. E anche l’esercito si prepara di bel nuovo: e chi è stato al fronte durante la guerra e ha parlato con ufficiali e soldati, sa che sognarsi che la demotivazione prenda possesso del cuore degli israeliani, è fuori luogo. Una democrazia in guerra non può cadere preda della depressione.
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