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Il Foglio Rassegna Stampa
19.01.2007 Gli alleati sudamericani dell'Iran
le analisi di Maurizio Stefanini e Amy Rosenthal

Testata: Il Foglio
Data: 19 gennaio 2007
Pagina: 1
Autore: Maurizio Stefanini
Titolo: «COMPAÑEROS DEI MULLAH»
Dal FOGLIO del 19 gennaio 2007, Maurizio Stefanini descrive l'alleanza tra Iran fondamentalista e populismo sudamericano:

Nel 2000 la prima visita di Chávez a Teheran iniziò una cooperazione sempre più intensa tra il nuovo Venezuela bolivariano e la Repubblica islamica, con il fine dichiarato di fare alzare i prezzi del petrolio. Nel 2001 una nuova visita di Chávez in Iran gli fece parlare per la prima volta di “alleanza strategica”. Nel 2005 la visita di Khatami in Venezuela formalizzò questa alleanza strategica in una serie di accordi di cooperazione per 8 miliardi. Nuovi accordi di cooperazione tra Iran e Venezuela arrivano nel 2006, e da intesa tra paesi l’“alleanza strategica” diventa “tra rivoluzioni”, come il Patto d’acciaio tra l’Italia fascista e la Germania nazista. “Due rivoluzioni si danno la mano”, dice il 17 settembre Chávez nel conferire a Ahmadinejad l’Orden del Libertador, massima onorificenza venezuelana. Il 2006 è anche l’anno in cui circolano voci non controllabili secondo cui la cooperazione Caracas- Teheran si estenderebbe anche al campo nucleare: è comunque certo che il Venezuela possiede in Amazzonia le più importanti riserve di uranio del mondo, e che Chávez appoggia senza riserve il programma nucleare iraniano. Pure nel 2006 circolano voci altrettanto non controllabili su un accordo segreto per inviare in Venezuela missili iraniani terra-terra a larga gittata da puntare contro il territorio degli Stati Uniti: poichè i missili da inviare in Venezuela sono dello stesso tipo di quelli inviati a Hezbollah attraverso la Siria e realizzati in Iran clonando modelli originali nordcoreani, il Venezuela si salderebbe così all’asse del Male. Come che sia, con l’inizio del 2007 l’Iran approfitta della crescita di influenza del chavismo per espandere anche la sua influenza in America Latina. Un saldarsi tra Asse del Male e Asse del Caos. Assistito dalla bonanza petrolifera, catalizzando atavici risentimenti antiamericani risvegliati dalla crisi di quel consenso di Washington che aveva orientato nel senso dell’ortodossia economica le democrazie emerse in America Latina negli anni Ottanta dopo la caduta dei regimi militari, Chávez ha infatti nel frattempo distribuito petrolio e petroldollari in quantità. Costruiscono nel continente una complessa rete di alleanze e influenze strutturata su almeno tre “anelli”. Il più “interno” è rappresentato dall’Alba: Alternativa bolivariana delle Americhe, che si propone come modello di integrazione economica alternativa a quella già propugnata dagli Stati Uniti dell’Alca, Area di libero scambio delle Americhe. Nata attorno allo scambio petrolio contro medici e tecnici tra Cuba e Venezuela, si è poi estesa alla Bolivia di Evo Morales, dove stanno arrivando petrolio, medici cubani e soldati venezuelani tutti assieme, e dove inoltre il Venezuela ha acquistato il 94 per cento della principale finanziaria del paese. E il 10 gennaio, all’atto stesso di insediarsi come nuovo presidente del sandinista Daniel Ortega, s’è aggiunto anche il Nicaragua, pur se mantenendo nel contempo la sua adesione al Cafta, trattato di libero commercio centroamericano con gli Stati Uniti. Ma Chávez, dopo aver finanziato la sua campagna elettorale anche a colpi di forniture di petrolio ai sindaci sandinisti, gli ha promesso ora un gasdotto, decine di centrali, una raffineria e 10 milioni di barili di petrolio all’anno a prezzo sovvenzionato: un valore di 600 milioni di dollari, contro i 300-400 che il Nicaragua riceve oggi in prestiti da tutto il resto del mondo. Al contrario, nell’insediarsi l’altro ieri il nuovo presidente ecuadoriano Rafael Correa ha annunciato la sua intenzione di aderire all’Alba, dicendo nel contempo no al proposto trattato di libero commercio con gli Stati Uniti. Anzi, ha pure stabilito che non rinnoverà agli Stati Uniti la concessione della base militare di Manta, in scadenza nel 2009. Non è però entrato nell’Alba subito. Non avendo infatti voluto presentare liste in Congresso, al momento non ha con sé neanche un deputato. E la sua prima mossa è stata dunque l’indizione di un referendum, che il 18 marzo dovrà dire sì o no a un’Assemblea costituente eventualmente in grado di mettere in mora il Congresso. Comunque, già nel 2006 il Venezuela ha sostenuto la traballante economia dell’Ecuador con l’acquisto di bond per 25 milioni di dollari. Sono i presidenti dell’Alba quelli che in un modo o nell’altro si sono impegnati a favore dell’opzione “socialista del XXI secolo”, come l’ha definita Chávez. E sono pure loro quelli presso i quali Ahmadinejad si è appunto recato. A Cuba già era stato in occasione del vertice dei non allineati dello scorso settembre, cogliendo l’occasione per fare un salto a Caracas. E a Caracas è arrivato il 13, firmando nuovi accordi con Chávez, assistendo al suo insediamento e concordando con lui una strategia comune all’Opec per far aumentare i prezzi del greggio. Ma soprattutto i due hanno spiegato che un fondo di 2 miliardi di dollari già costituito per finanziare progetti in Iran e Venezuela sarebbe stato rivolto anche a altri paesi, “al fine di controbattere la dominazione statunitense”. I due si sono poi recati assieme al giuramento di Ortega, con cui Ahmadinejad ha firmato un accordo di cooperazione economica. “Non siamo più soli: Iran, Nicaragua, Venezuela e altri paesi rivoluzionari siamo uniti, resteremo uniti e resisteremo uniti”, ha detto poi in un comizio in un quartiere di Managua, accanto ad Ortega. “Il trionfo è nostro”. Insomma, dal Patto d’acciaio siamo già al Tripartito, se non all’Anti- Comintern. Ahmadinejad ha poi accompagnato Chávez anche a presenziare all’insediamento di Correa a Quito. E a Quito si è visto col boliviano Morales, per cercare “accordi commerciali e diplomatici”. C’è poi il secondo “anello” del Mercosur: area di integrazione economica nata nel 1991 tra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay sul modello europeo, e a cui Chávez ha da poco aderito, cercando di trascinarla su posizioni antiamericane. E in effetti il Mercosur ha assecondato la sua battaglia per affondare l’Alca: i governi di sinistra di Brasile, Argentina e Uruguay, ma anche quello di destra paraguayano. Un conto però è il risentimento per i dazi agricoli americani; un altro seguire Chávez nella sua palingenesi rivoluzionaria, sebbene il greggio faccia gola a tutti, e il Venezuela bolivariano abbia acquistato in quantità bond argentini altrimenti incollocabili dopo il default. Tra l’incudine e il martello è infatti soprattutto Néstor Kirchner, dopo che la magistratura argentina ha incriminato un bel po’ di pezzi grossi iraniani per la storia degli attentati degli anni Novanta, la magistratura iraniana ha a sua volta spiccato un mandato di cattura internazionale per i magistrati argentini e il presidente ha cacciato dal governo il sottosegretario filochavista Luis D’Elía, che era andato a esprimere solidarietà all’ambasciata iraniana. Terrorizzato all’idea che Chávez potesse prenderlo sotto braccio per fargli fare una foto assieme ad Ahmadinejad, Kirchner ha infatti mandato a Quito al suo posto il suo vice Sciolli. Quanto al Brasile, Lula ha fatto smentire ufficialmente certe sue confidenze private apparse sulla stampa locale, e secondo le quali avrebbe rimproverato Chávez di stare “civettando con l’autoritarismo”. Ma si tratta di smentite che non convincono nessuno. E’ una chiave, quella della differenziazione tra i due “anelli”, su cui sta lavorando l’Amministrazione Bush, pur con sfumature diverse tra l’approccio del responsabile dell’Intelligence John Negroponte e quello del sottosegretario all’America Latina Thomas Shannon. Negroponte nel suo rapporto annuale al Senato sui possibili rischi per la sicurezza americana ha allertato sulla corsa agli armamenti di Chávez, ed ha anche avvertito che Chávez e Morales stanno “approfittando della loro popolarità per debilitare l’opposizione e eliminare ogni controllo sulla loro autorità”. Shannon riconosce invece che il Venezuela resta una democrazia e cerca di evitare frizioni, secondo una linea condivisa dal presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez, il più stretto alleato di Washington in Sud America. E’ Vélez infatti a dire che non bisogna interferire con le questioni interne del Venezuela e che con Chávez “si lavora benissimo”. Ed è ancora Vélez ad aver approfittato dell’incontro con Correa in occasione dell’insediamento di Ortega per raggiungere un accordo a sorpresa che ha disinnescato sul nascere un conflitto diplomatico per le fumigazioni di narcocoltivazioni al confine. Un problema ecologico frontaliero che l’antiamericano Correa e il filoamericano Uribe Vélez hanno risolto molto meglio dei due governi di sinistra di Argentina e Uruguay, che non riescono invece a trovare un accordo. Negroponte riconosce però che Ortega e Correa sono alleati di Castro e Chávez “in minor grado” rispetto a Morales. E anche che malgrado i proclami e gli allarmi su una “svolta a sinistra” in realtà il tour latinoamericano di 16 elezioni negli scorsi 14 mesi non presenta alcuna “tendenza ideologica dominante”. Salvo “una crescente impazienza dell’elettorato per l’incapacità dei governi di migliorare la qualità della vita”. Una differenza di apprezzamento tra Correa e Ortega è poi dimostrata dal fatto che a Managua il dipartimento di stato ha mandato una nutrita delegazione, in cui con Shannon c’era il segretario alla Salute Michael Leavitt e anche il presidente della Millennium Challenge Corporation John Danilovich. Mentre a Quito c’erano solo il segretario al Commercio Carlos Gutiérrez e l’ambasciatrice Linda Jewell. Il terzo “anello”, infine, è quello rappresentato dalle opposizioni ai governi in carica in tutta l’America Latina, e appunto i successi di Morales, Ortega e Correa dimostrano quanto può per loro essere efficace l’appoggio di Chávez. Però ci sono state l’anno scorso anche le sconfitte di Ollanta Humala in Perù e di Andrés Manuel López Obrador in Messico, a ricordare quanto l’etichetta di chavista possa risultare altre volte controproducente. Chávez ha anche trescato con gruppi e personaggi ostili o concorrenziali rispetto ai presidenti teoricamente suoi amici del secondo “anello”: dal già citato D’Elía, leader dei piqueteros (i disoccupati organizzati) argentini, a Heloísa Helena, che ha prima condotto una scissione a sinistra nel partito di Lula e poi si è candidata contro di lui, definendolo “mafioso”. Insomma, usa con loro una tecnica di bastone e carota che nel lungo termine potrebbe anche risultare controproducente. D’altro canto, e malgrado le economie latinoamericane abbiano avuto in questi anni una crescita continua, le situazioni di tensione continuano anche negli stessi paesi del primo “anello”. Addirittura si sta parlando in Bolivia di “libanizzazione” strisciante. Da una parte, infatti, stanno i quattro dipartimenti che nel referendum sulla devolution che si è fatto lo scorso 2 luglio in contemporanea al voto per la Costituente hanno scelto l’autonomia: quello orientale di Santa Cruz, cuore economico del paese; quelli amazzonici di Beni e Pando; quello meridionale di Tarija, dove sta il grosso degli idrocarburi. Una Padania boliviana schierata in blocco con l’opposizione. Dall’altra ci sono i dipartimenti andini di Oruro, Potosí e Chuquisaca, bastioni di Morales. Ma in mezzo ci stanno La Paz Chochabamba, che votando no all’autonomia mentre eleggevano però un prefetto anti-Morales si sono trasformati in terreno di scontro. Soprattutto Cochabamba, dove all’annuncio del governatore Manfred Reyes Villa di voler indire un nuovo referendum autonomista i seguaci di Morales hanno tentato l’assalto alla sua sede. Ma il prefetto, ex-militare, ha a sua volta organizzato i propri sostenitori in modo efficace, e negli scontri che si sono susseguiti per quattro giorni durante la scorsa settimana ci sono stati due morti e oltre 100 feriti. La tensione paradossalmente è esplosa subito dopo che Morales a scopo distensivo si era infine piegato all’opposizione, acconsentendo che la Costituente voti a maggioranza di due terzi e non semplice. E qualcuno pensa che adesso questa vicenda possa finire per proietteare Reyes Villa sulla scena nazionale come l’anti- Morales. Ironicamente, Reyes Villa stava già per diventare presidente nel 2002, quando era in testa ai sondaggi. Ma un malaccorto avvertimento dell’ambasciatore americano a “non votare Morales” aveva avuto l’opposto effetto di far schizzare in alto il leader cocalero, lasciando Reyes Villa al terzo posto, e portando lo stesso Morales prima al ballottaggio, e poi di lì a tre anni alla presidenza. Con un nuovo compromesso, Reyes Villa ha poi rinunciato al referendum, in cambio di un appoggio formale di Morales alla sua legittimità. Ma i “moralisti” continuano a manifestare a Cochabamba e sono scesi in piazza anche a La Paz. Uno scontro si preannuncia in Ecuador, dove al Congresso una coalizione di 71 deputati su 1000 ha eletto un ufficio di presidenza completamente ostile a Correa. Ma poi il partito dell’ex-presidente Gutiérrez si è staccato da questa intesa, per abboccarsi col nuovo eletto a proposito della Costituente. Gutiérrez fu cacciato nel 2005 da una sommossa di cui Correa fu allora uno dei leader, tanto per inquadrare la situazione. Ora Correa ha chiesto al Tribunale supremo elettorale di indire il referendum sulla Costituente senza consultare i deputati, e minacciandolo in caso di sua renitenza di farlo circondare dai suoi sostenitori. Poiché ha pure detto che “il XXI secolo non ha più bisogno dei partiti”, il presidente del Congresso lo ha accusato di essere un “aspirante dittatore”, mentre quello del Tribunale supremo elettorale ha assicurato che deciderà in capo a 15 giorni “in base alla legge, e non alle minacce”. Per le continue rivolte, dal 1996 nessun presidente eletto in Ecuador è stato in grado di terminare il primo mandato. In pochi analisti scommettono sulla capacità dello stesso Correa di sfatare la maledizione. E uno scontro già assopito rischia poi di ridestarsi anche in Venezuela, dove le scorse elezioni hanno sì segnato un plebiscito per Chávez, ma hanno anche attestato l’opposizione sul suo zoccolo duro. E ora l’opposizione venezuelana sta annunciando che tornerà in piazza. Per reagire non tanto alle nazionalizzazioni ma all’intenzione del presidente di cambiare la Costituzione per farsi rieleggere indefinitamente, oltre che per la prossima chiusura di una tv non allineata; e puntando sul fatto che la riduzione dei prezzi del petrolio può mettere Chávez alle corde in tempi brevi. Ma forse è proprio per questo che il leader bolivariano cerca ora di accelerare. Anche estendendo l’ombra del suo Patto d’acciaio con Teheran a livello continentale, e facendosi intanto dare dalla settimana prossima i pieni poteri per governare il Venezuela 18 mesi a colpi di decreto senza consultare l’Assemblea nazionale. Che d’altronde, in seguito al boicottaggio dell’opposizione alle ultime politiche, è tutta in mano ai suoi seguaci

Amy Rosenthal sulla possibilità che il Venezuela di Chavez utilizzi l'arma petrolifera contro gli Stati Uniti: 

Gerusalemme. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, martedì, ha concluso il viaggio di quattro giorni in America Latina, che prevedeva visite in Venezuela, Nicaragua ed Ecuador. Da quando è stato eletto presidente nel giugno 2005, Ahmadinejad ha creato strette alleanze con i paesi latinoamericani retti da governi antistatunitensi, vale a dire Cuba, Venezuela, Bolivia e Nicaragua. “Ahmadinejad sta chiaramente tentando di costruire una coalizione, cercando il maggior numero possibile di paesi disposti a unirsi a lui”, dice al Foglio Ilan Berman, vicepresidente dell’American Foreign Policy Council, con sede a Washington, e direttore del Journal of International Security Affairs, noto per essere uno dei principali osservatori dell’Iran a Washington. “Questo spiega perché si è rivolto al presidente nicaraguense Ortega, ex leader guerrigliero e nemico degli Stati Uniti durante la Guerra fredda, e al presidente ecuadoriano Correa, che si è ripromesso di stringere legami più forti con il Venezuela – il principale alleato dell’Iran nella regione – e di non rinnovare la concessione per una base aerea militare statunitense sulla costa pacifica del paese”. Tuttavia, ciò che preoccupa maggiormente Berman è la relazione tra Iran e Venezuela. “Ovviamente, il fulcro del viaggio di Ahmadinejad è stato l’incontro con Hugo Chávez. Ciò che ritengo interessante è il fatto che il Venezuela è un importante raffinatore di benzina per gli Stati Uniti, e Chávez e Ahmadinejad hanno discusso a lungo su una sorta di asse antioccidentale e antiamericano del Terzo mondo. Chávez è arrivato a dichiarare che userà la propria influenza nel paese per controbilanciare ogni severa sanzione eventualmente imposta sull’Iran, compreso un embargo sulla benzina.” Alla domanda su quali sono gli interessi comuni che animano Chávez e Ahmadinejad, l’analista politico afferma senza esitazioni: “In gran parte, il loro rapporto è basato su interessi energetici, ma i due politici sono legati in modo particolare dall’antiamericanismo e dal disprezzo per la democrazia dei mercati tradizionali, oltre che dal fatto che entrambi aspirano alla posizione di potenza dominante all’interno della loro rispettiva regione. Per esempio, Chávez si considera una specie di successore di Simon Bolivar, l’eroe che nel XIX secolo liberò il Sud America dalla dominazione spagnola, ed esprime continuamente la propria intenzione di voler guidare una coalizione regionale latinoamericana del Terzo mondo. La retorica di Ahmadinejad è alquanto analoga. Egli vede l’Iran come la possibile potenza egemonica assoluta che costruirà nel Golfo una coalizione in grado di opporsi agli Stati Uniti”. Iran e Venezuela, rispettivamente quarto e quinto più importante esportatore di petrolio al mondo, sono entrambi elementi importanti dell’Opec e hanno firmato numerosi accordi di cooperazione in diversi settori energetici. Per Berman ci saranno effetti sul mercato dell’energia. “L’Opec è stata piuttosto collaborativa nello stabilizzare i prezzi allo scopo di consolidare il mercato globale del petrolio. Ciò premesso, sia Venezuela che Iran si sono mobilitati per provocare un rialzo dei mercati dell’energia, chiedendo all’Opec di negare le forniture, così da causare un aumento del prezzo del petrolio e danneggiare l’Europa e gli Stati Uniti, che sostengono la necessità di adottare sanzioni contro l’Iran nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Finora l’obiettivo non è stato raggiunto, ma la capacità di quei paesi di coordinare le rispettive politiche ed esercitare una forte pressione sugli altri stati membri dell’Opec per i propri fini è una minaccia”. Ed è una minaccia spinta ancora più in avanti dalla prospettiva della bomba atomica iraniana: “Penso che si debba considerare la questione nel quadro di un problema più vasto: quanto maggiore è la possibilità che l’Iran entri in possesso della Bomba, tanto maggiore è la probabilità che riesca a dominare la sua regione. Se ciò accadesse, non ne trarrebbe incoraggiamento solo Ahmadinejad, ma anche Chávez, che crederebbe di poter ricevere supporto da quella che sarebbe essenzialmente un’egemonia regionale islamica”. Berman, oltre a mettere in guardia sul legame importante tra Iran e Venezuela, avverte che l’alleanza potrebbe avere conseguenze potenzialmente devastanti per gli Stati Uniti. La spiegazione: il Venezuela è il più importante fornitore individuale di petrolio raffinato degli americani. Se Chávez adotterà la linea dura e cercherà il confronto, verso il quale sembra essere indirizzato, è parecchio probabile che gli Stati Uniti accuseranno il colpo quando Caracas comincerà a negare le forniture di petrolio raffinato al suo cliente settentrionale”.

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