Crisi di deterrenza e crisi di leadership in Israele l'analisi di Giorgio Israel e un editoriale
Testata: Il Foglio Data: 18 gennaio 2007 Pagina: 3 Autore: Giorgio Israel Titolo: «La crisi della deterrenza e dell'esercito di Israele spiegata con la teoria dei giochi»
Dal FOGLIO del18 maggio 2007,un'analisi della crisi di deterrenza di Israele, in particolare nei confronti dell'Iran:
Benny Morris ha argomentato di recente (“L’incubo del giorno del secondo Olocausto”, Corriere della Sera, 20.12.06) l’inutilità dell’arsenale nucleare israeliano: “Può soltanto essere schierato ‘troppo presto’ o ‘troppo tardi’. Il momento ‘giusto’ non arriverà mai”. Se Israele ne facesse uso preventivamente sarebbe degradato a paria delle nazioni. Se ne facesse uso ad attacco iraniano avvenuto, sarebbe inutile perché la sua sorte sarebbe già segnata. In altri termini, Israele non possiede alcuna deterrenza nucleare. Un paio di settimane dopo, il Sunday Times ha “rivelato” che Israele si prepara a distruggere gli impianti atomici iraniani con bombe nucleari tattiche. Nello smentire la notizia le fonti governative israeliane hanno rilevato che, se Israele stesse studiando un piano siffatto, non lo racconterebbe a un quotidiano britannico. Tuttavia, sia che si tratti di un segnale volto a creare una condizione di deterrenza, sia che si tratti di una manovra per annullarla a priori, l’accaduto induce a riflettere sulla natura e i limiti di questa deterrenza e ad articolare il discorso di Benny Morris. Imbarchiamoci in un’apparente digressione. L’approccio scientifico alla problematica militare è, da almeno due secoli, una peculiarità occidentale. Lo è quantomeno dai tempi di Napoleone che, come ricorda von Clausewitz, riteneva che “molte decisioni da prendersi del condottiero costituirebbero problemi matematici la cui soluzione sarebbe degna delle energie intellettuali di un Newton o di un Eulero” ed enunciava principi del tipo: la potenza di un esercito è una quantità proporzionale al prodotto della massa dell’esercito medesimo per il quadrato della sua velocità – un principio che ispirò con esiti brillanti la campagna d’Italia. Certo, Napoleone considerava il fattore umano e la motivazione delle truppe altrettanto fondamentali dell’approccio tecno-scientifico, e questa sintesi spiega i suoi straordinari successi. In seguito, però, la considerazione del secondo fattore è stata minore. Le analisi scientifiche nel contesto militare hanno assunto un peso rilevantissimo negli Stati Uniti all’epoca della Guerra fredda, soprattutto sul problema della deterrenza nucleare. Il tema è vastissimo ma basti ricordare le relazioni strette tra la US Air Force e un’istituzione di ricerca anche “pura” come la Rand Corporation, per capire come le questioni strategiche siano divenute in occidente una faccenda sempre più scientifica. Non è chiaro quanto i rapporti degli scienziati abbiano concretamente pesato nel determinare le scelte strategiche nel periodo della Guerra fredda – pare che venissero spesso cestinati come troppo astratti e impraticabili – ma è indubbio che le relazioni tra ambienti scientifici e militari abbiano determinato un modo di pensare le questioni strategiche influenzato da un approccio scientifico e, in particolare, matematico. Un grande matematico come John von Neumann, membro della commissione per l’Energia atomica statunitense e della Rand, ammoniva in un rapporto degli anni Cinquanta che gli ordigni atomici ponevano problematiche inedite a causa dei loro effetti quasi immediati, che richiedevano la messa in opera di metodi non convenzionali di analisi operativa e dei sistemi: difatti – egli osservava – non basta più ragionare in termini di risposte alle iniziative possibili dell’avversario, ma occorre elaborare un sistema affinché tali risposte siano immediate. Ciò è talmente complicato che conviene piuttosto “non ‘fare il peggio’ in tutti i casi, altrimenti quando il nemico farà il peggio non ci si potrà difendere, e quel che bisognerà esibire con un avvertimento istantaneo, se si è forti abbastanza, è una potenza spinta fino ai limiti delle proprie capacità”. Si riconosce in queste parole la teoria dell’equilibrio del terrore o della deterrenza. Ma esse sottendono anche un modo di ragionare ispirato alla teoria matematica dei giochi, di cui von Neumann era uno dei creatori. Alla Rand la teoria dei giochi era un tema caldo. Lo studio delle sue connessioni con la tematica nucleare aveva ricevuto impulso da un modello elaborato nel 1950 da due matematici, Merrill Flood e Melvin Dresher. Esso ruotava attorno a un concetto chiave della teoria, l’equilibrio di Nash, dovuto al premio Nobel John Nash (reso popolare dal recente film “A Beautiful Mind”). Questo modello è conosciuto sotto il nome di “dilemma del prigioniero”. Proviamo ad illustrare rapidamente di che si tratta. Due persone sospette di omicidio, A e B, vengono arrestate, ma la magistratura non possiede prove sufficienti per incriminarle. Decide allora di impedire ogni contatto tra di loro e di offrire loro separatamente lo stesso accordo: se uno fornisce prove del delitto e l’altro tace, il primo riceverà uno sconto di pena totale mentre il secondo sconterà l’intera pena (20 anni); se entrambi confessano sconteranno una pena di 2 anni; se invece non confessano dovranno essere scarcerati dopo la detenzione provvisoria (poniamo 1 mese). Il dilemma dei due prigionieri può essere rappresentato con uno schema tipico della teoria dei giochi (vedi il grafico) in cui agli incroci delle possibili scelte sono rappresentati i “prezzi” pagati da ciascuno. La soluzione prevista dalla teoria di Nash è che i due prigionieri confesseranno (l’“equilibrio di Nash” è dato dalla casella in basso a destra): difatti, ciascuno di essi, di fronte al rischio che l’altro confessi mentre egli non confessa, e quindi di vedersi comminata una pena durissima, preferirà affrontare il “male minore” di scontare una pena di 2 anni (magari per un delitto che non ha commesso…).
B non confessa
B confessa
A non confessa
A: 1 mese B: 1 mese
A: 20 anni B: 0 anni
A confessa
A:0 anni B: 20 anni
A: 2 anni B:2 anni
Questa soluzione ha sollevato interminabili discussioni ed è stata aspramente criticata da chi ha osservato, non senza fondamento, che essa bollava come “irrazionale” il comportamento di chi non confessa e si batte senza compromessi perché innocente. Inoltre, essa esclude il comportamento “mafioso” di chi è certo che l’altro non confesserà. Difatti, questo modello parte da una visione di “razionalità” basata su due principi: (1) ogni individuo razionale agisce badando soltanto ai propri interessi e quindi in modo non cooperativo; (2) non è razionale cercare di ottenere il massimo possibile, bensì lo è agire con prudenza: il comportamento ottimale consiste nello scegliere il meno buono tra tutti i risultati migliori, in corrispondenza a tutte le possibili scelte dell’avversario. Si constata che, seguendo un siffatto principio di “razionalità”, la soluzione è data appunto dalla casella in basso a destra: 2 anni di galera per entrambi i “giocatori”. Si noti che questa idea di razionalità ha radici in una lunga tradizione di pensiero che è all’origine della visione del soggetto economico della cosiddetta teoria neoclassica o marginalista. Il dilemma del prigioniero ha prodotto una letteratura sterminata. In verità, Flood e Dresher lo avevano ideato per confutare, o addirittura prendere in giro, l’idea di razionalità soggiacente alla teoria di Nash, che ritenevano implicasse un comportamento poco credibile. Nelle centinaia di articoli pubblicati sul tema ci si destreggiava a confrontare il risultato con situazioni concrete. E’ divertente menzionare la tesi di alcuni psicologi secondo cui una coppia in crisi addotta spesso la soluzione di Nash: l’ideale sarebbe concordare una separazione consensuale con il minimo di danno, ma di fronte al rischio che il partner non sia cooperativo e sferri una contesa legale, ottenendo vantaggi economici e l’affidamento dei figli, emerge spesso la scelta del “male minore”, la convivenza da separati in casa… A noi interessa però capire in che senso il dilemma del prigioniero modellizzi la dissuasione nucleare. Basta interpretare “confessare” nel senso di “riarmarsi” e “non confessare” nel senso di “non riarmarsi”, e rappresentare quantitativamente i vantaggi delle varie scelte. La soluzione di Nash è un male minore: entrambi i contendenti si riarmano per evitare che l’avversario, riarmandosi da solo, consegua un vantaggio strategico e sia indotto a fare uso dell’arma atomica. Il brano di von Neumann riportato sopra va riletto in questo contesto. Beninteso, il processo di riarmo non è composto da un solo atto, ma da una sequenza di situazioni del tipo “dilemma del prigioniero”, che danno luogo al “dilemma del prigioniero iterato”. E’ naturale chiedersi se, nel riproporsi della stessa situazione, uno dei “giocatori” non possa scostarsi dal comportamento non cooperativo e optare per il non riarmo. Gli analisti hanno studiato il dilemma del prigioniero iterato attraverso simulazioni reali – giocatori che assumono decisioni rispetto a poste monetarie – e hanno osservato l’emergere di un comportamento cooperativo. Questo implicherebbe l’emerge tendenziale di un atteggiamento favorevole a un consenso verso il disarmo. Si potrebbe osservare che questo è quel che è accaduto realmente: il riarmo illimitato da parte di Usa e Urss è terminato quando la mossa del presidente Reagan di lanciare il programma delle “guerre stellari” ha elevato la posta a un livello tale da indurre un atteggiamento cooperativo da parte dell’avversario. Si noti che tale è stato l’atteggiamento finale di entrambi i contendenti, a riprova del fatto che tutti e due seguivano un comportamento vicino al tipo di razionalità descritto dal modello. Ma su questo torneremo. Questo genere di modelli – anche quando sono espressi in forme ben più complicate dello schemino qui visto – non costituiscono veri e propri modelli predittivi, ma soltanto forme di ragionamento “euristico”, intese ad aiutare l’intuizione mediante schemi logici. Il rapporto molto generico che hanno con la realtà comporta parecchi problemi. Ne sottolineiamo due. E’ facile intuire che quando si considera un numero di contendenti maggiore di 2 il modello diventa man mano più complicato e di difficile decifrazione. Non è un caso che la teoria dei giochi, ma anche la più concreta analisi operativa e la teoria dei sistemi, abbiano trovato applicazioni in ambito militare soprattutto nel contesto aereo. La strategia aerea consente una schematizzazione (relativamente!) semplice della problematica in gioco, per il numero non elevato dei vettori e la possibilità di definire chiaramente gli obbiettivi. Si tratta di un grado di complessità enormemente minore di quello che comporta la strategia di terra, che dovrebbe tener conto di una miriade di unità, in un contesto territoriale estremamente vario. La guerra aerea si presta alla gestione da una sala di comando, simile alla consolle di un videogioco. La guerra terrestre – che resta la fase insostituibile nel determinare la conclusione di un conflitto – non si presta facilmente a un simile approccio. La crescente trasformazione dei conflitti militari in problemi di analisi operativa e teoria delle decisioni – di cui è espressione lo sforzo di risolverli sul piano aereo – spiega molto degli insuccessi nelle recenti campagne irachena e libanese. La prima era di natura eminentemente terrestre. La recente decisione del presidente Bush di incrementare le truppe e la presenza capillare sul territorio indica il fallimento di un approccio “sistemistico”, teso a risolvere il conflitto con il controllo dei nodi “strategici”. Ha anche indicato l’inadeguatezza di un esercito che ha scarsa consapevolezza dei fini per cui agisce e opera come un apparato formale e tecnologico, per giunta organizzato privatisticamente, persino con forme di esternalizzazione logistica. Alcuni esperti militari israeliani hanno avvertito, alla luce dell’esperienza libanese, dei rischi enormi di imboccare questa via, per un esercito che ha sempre avuto un elemento di forza nella motivazione “morale”. Nella campagna libanese si è seguita invece una via tesa a risolvere il conflitto quasi esclusivamente con l’arma aerea, in un’ottica sistemistica: scardinare le vie di collegamento e rifornimento, isolare i reparti, ecc. confidando in un effetto automatico di crollo. I fatti hanno dimostrato la fallacia di questo approccio. Nella visione esclusivamente “scientifica” del conflitto bellico emerge un secondo ordine di difficoltà relativo all’uso acritico dell’idea di “razionalità” che abbiamo visto nel caso del dilemma del prigioniero. E’ lecito dire che, non soltanto la dirigenza politica americana ma anche quella sovietica aderiva a comportamenti che non si discostavano molto da quel modello di razionalità. In fin dei conti, Stalin era un tiranno efferato ma realista. La scelta della costruzione del socialismo in un paese solo e l’uso dei movimenti comunisti occidentali come strumenti di pressione erano espressione di questo realismo, ben distante dalla teoria trotzkista della rivoluzione permanente. Pertanto, se la teoria dei giochi ha offerto un buon modello euristico per giustificare la politica di dissuasione nucleare come strumento per mantenere la pace, è perché il modello di razionalità cui essa si rifaceva era abbastanza aderente al comportamento di entrambi i contendenti, che, in fin dei conti, preferivano evitare un conflitto nucleare globale. L’episodio della crisi dei missili sovietici a Cuba ne costituisce una conferma. Può dirsi che le dirigenze politiche di alcuni dei nuovi paesi che si affacciano al possesso dell’arma atomica aderiscano a una simile forma di “razionalità”? La risposta, soprattutto se si pensa all’Iran, è decisamente negativa. Questo è un modo di tradurre formalmente il discorso di Benny Morris. Non vi è la minima ragione di attendersi che un Iran dotato di atomica seguirà un processo bilanciato di riarmo, in un contesto magari stressante ma che, entro certi limiti, garantisca la pace come nel passato. Qui emerge il carattere puerile di ogni analisi che trascuri i fattori ideologici e religiosi in gioco; e l’anacronismo di chi voglia riproporre il modello che ha garantito la pace durante la Guerra fredda come se fosse applicabile a questa nuova situazione. Si vede inoltre come sia perfettamente legittimo stabilire un parallelismo tra l’hitlerismo e il regime degli ayatollah – pur con tutte le ovvie differenze. Hitler, se avesse fatto in tempo, avrebbe certamente usato l’atomica, anche rischiando di far distruggere l’intera Germania. Il suo comportamento da prima di Monaco 1938 all’invasione della Polonia, mostra inequivocabilmente che il regime nazista non era disposto ad accettare alcuna soluzione alla Nash… In definitiva, di fronte a un antagonista come quello iraniano e, più in generale, di fronte all’integralismo islamico, la teoria classica della deterrenza nucleare è inapplicabile perché si basa su un modello di razionalità che non trova alcun corrispettivo. Tuttavia, Israele non ha mai dichiarato il possesso dell’arma atomica e quindi non si è trovata mai in un contesto di deterrenza bilanciata. Ciò è accaduto non soltanto per l’assenza di antagonisti atomici ma anche a causa della esiguità territoriale che rende poco credibile l’uso dell’arma nucleare se non come extrema ratio, in caso di una situazione radicalmente e concretamente critica. L’ipotetica atomica israeliana è una minaccia contro chi si avvicini all’obbiettivo di distruggere lo stato, anche con mezzi convenzionali. Non a caso Israele ha cercato di evitare la situazione di deterrenza nucleare bilanciata che si stava per produrre con l’Iraq distruggendo la centrale di Osirak. Oggi, Israele si trova di fronte a una situazione molto più drammatica, perché se non può ripetere con l’Iran l’operazione di Osirak, è costretto all’infausta alternativa tra lo “scoprire” il proprio potenziale nucleare, nell’improbabile speranza di creare una situazione di equilibrio del terrore con l’Iran del tipo Guerra fredda – improbabile per l’esiguità territoriale e l’inesistenza di comuni criteri di “razionalità” – e quella di continuare a tenere coperto il possesso dell’arma atomica, con esiti sostanzialmente identici. In definitiva, la mossa di minacciare una nuova Osirak è l’unica opzione rimasta nel quadro di un confronto di tipo strategico, nella residua esilissima speranza di indurre un comportamento “razionale” da parte dell’antagonista. Israele è ridotta in questa situazione perché l’occidente non sa che pesci pigliare di fronte all’atomica iraniana, incapace come si sta mostrando di uscire dai modelli concettuali della Guerra fredda. In tal modo, Israele è lasciata sola di fronte a una scelta strategica drammatica che – come dice giustamente Benny Morris – da un lato rischia di farne il paria delle nazioni (se decidesse di ripetere Osirak con mezzi atomici), da un lato di imboccare una strada che rischia di condurre a un declino e a un esito drammatico, alla sua distruzione. In questo dilemma e in attesa che qualcuno si assuma la responsabilità di una nuova Osirak o di imboccare coraggiosamente e molto decisamente altre vie – come la destabilizzazione politica dei regimi oltranzisti – a Israele resta soltanto la scelta parziale di affidarsi alla deterrenza convenzionale, come del resto è sempre stato. Anzi, qui più che di deterrenza bisogna parlare di “supremazia”, ossia della capacità di mostrare un potenziale militare convenzionale indiscutibilmente imbattibile. Purtroppo, la guerra del Libano dell’estate 2006 ha avuto il deleterio effetto di offuscare in modo serio questo alone di supremazia, il che è assai grave in un mondo in cui i rapporti di forza sono assolutamente decisivi. In tal senso, sono da prendere molto sul serio le recenti dichiarazioni del re di Giordania Abdullah secondo cui “la guerra della scorsa estate ha mostrato che Israele non è tanto forte quanto credevamo e, a ragione o no, la percezione in medio oriente è che Israele abbia perso”. Egli ha aggiunto che “un numero crescente di paesi della regione ritiene che la sola via per farsi ascoltare da Israele è mediante la forza e non attraverso negoziati”. Non meno lucida è l’osservazione del sovrano secondo cui, data la crescente influenza dei movimenti integralisti nel mondo arabo e islamico, la via d’uscita principale è l’educazione, la quale è tuttavia un processo che non richiede meno di una ventina d’anni. Ammesso – osserviamo noi – che la strada di educare alla moderazione e al dialogo venga imboccata, e presto, visto che oggi viene percorsa, e con decisione, la strada opposta. Viceversa, in un contesto in cui i rapporti di forza hanno un ruolo decisivo la percezione generale è quella descritta dal re di Giordania, è assolutamente illusorio credere che la via del dialogo e della pace possa essere imboccata e percorsa senza ripristinare al contempo una condizione di primato militare quantomeno convenzionale sperando che prima o poi qualcun altro si occupi del versante non convenzionale. Non è meno illusorio credere che si possa proseguire sulla via di un approccio meramente “scientifico” al problema strategicomilitare, non rendendosi conto che è stato proprio quell’approccio a condurre agli esiti negativi attuali. Al quotidiano israeliano Yedioth Ahronot, che ha criticato una classe politica espressione di una nuova generazione “avviluppata in uno scoraggiante edonismo”, Shimon Peres ha risposto osservando che, certo, Israele è cambiata, non soltanto i leader, anche la gente, ma che non si può condannare chi ama un buon bicchiere di vino o il trasformarsi di Israele in una società ipertecnologica e consumista, attaccandosi alla nostalgia dei tempi andati. Ciò è vero, ed è altrettanto vero che amare un buon bicchiere di vino e aspirare a comprarsi un gadget non è assolutamente in conflitto col nutrire ideali, e la diagnosi del quotidiano è probabilmente catastrofista. Resta il fatto che Israele non ha altra scelta che alimentarsi di ideali e credere in sé stessa e nel proprio futuro fino in fondo; persino di sobbarcarsi di essere la coscienza dell’occidente. Magari in attesa che si svegli. E che ci si renda definitivamente conto che la questione israelo-palestinese, per quanto importante, non è la madre di tutti i conflitti; che il contesto concettuale della Guerra fredda è svanito; e che la sopravvivenza dell’occidente passa anche attraverso la sopravvivenza di Israele.
Di seguito, l'editoriale a pagina sulla crisi di leadership israeliana:
Il capo delle forze armate israeliane, Dan Halutz, sommerso dalle critiche per la conduzione della guerra in Libano, ha rassegnato le dimissioni. Le ammissioni del generale sugli errori commessi hanno innescato una discussione sulle responsabilità politiche, che ha messo nel mirino il ministro della Difesa Amir Peretz, leader dei laburisti, e il premier Ehud Olmert, presidente di Kadima. E’ tutta la leadership israeliana ad apparire pericolante. Anche la campagna giornalistica sulle presunte trattative segrete con la Siria ha il senso di un attacco, particolarmente insidioso perché naturalmente non può ricevere risposte convincenti. Come ha detto il vecchio Shimon Peres, la notizia è falsa, ma sarebbe doverosamente smentita anche se fosse vera. A rendere il clima più pesante attorno a Olmert ci sono anche un’inchiesta giudiziaria a suo carico per insider trading (ma altre sono già finite nel nulla) e soprattutto la sempre più evidente divaricazione delle sue posizioni da quelle di Tzipi Livni, ministro degli Esteri. In condizioni normali anche questa situazione potrebbe essere considerata come una specie di gioco delle parti, quello del poliziotto buono che si finge in conflitto con il poliziotto cattivo. Ma sono cose che si può permettere soltanto una leadership forte e riconosciuta, mentre quella attuale non lo è affatto. Naturalmente, com’è tipico nella politica e non solo israeliana, le critiche alla conduzione militare e alla diplomazia s’intrecciano con le lotte di potere all’interno dei partiti. Ophir Pines-Paz, che aspira a sostituire Peretz alla guida dei laburisti, è tra i più decisi nell’attaccare il ministro della Difesa, forse soprattutto per soffiargli il posto. Sulla sponda opposta dello schieramento politico, il Likud è bloccato dalla controversia tra l’ex premier Bibi Netanyahu, che è per accentuare la rottura con Olmert che era stata causata dalla decisione di Ariel Sharon di evacuare la striscia di Gaza, e l’ex ministro degli Esteri, Silvan Shalom, che invece punta alla ricostruzione di un’intesa delle forze di centrodestra. Probabilmente sarà proprio la divisione che immobilizza il Likud, maggiore forza d’opposizione, a dare un po’ di respiro alla leadership sott’accusa. Nella situazione delicata di Israele, però, un governo che regge solo per le debolezze dell’opposizione, che non cade perché non sa da che parte cadere, rischia di non essere in grado di assumere iniziative incisive se si rendessero necessarie
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