L'America, l'Iraq e la sfida tra sunniti e sciiti in Medio Oriente analisi su una "caldissima guerra fredda"
Testata: Il Foglio Data: 18 gennaio 2007 Pagina: 2 Autore: Carlo Panella - Christian Rocca - Rolla Scolari Titolo: «Condi Rice lavora al nuovo patto con i sauditi, che sono la soluzione ma anche il problema - Prime idee per correggere il piano di Bush per l'Iraq, mentre c'è chi solleva dubbi sul ruolo di Maliki! - Asse sunnita vs. revival sciita - Il Marocco anti Teher»
Dal FOGLIO del 18 gennaio 2007 ( a pagina 2 dell'inserto), un articolo di Carlo Panella sul "nuovo patto con i sauditi" al quale lavora la diplomazia americana.
L’entusiastico appoggio dichiarato dal regno saudita alla “svolta” irachena annunciata dal presidente George W. Bush è di grande rilievo e non soltanto perché smentisce le poco diplomatiche affermazioni del ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema (molto duro nei confronti della svolta) che ha dichiarato che il governo di Riad è animato da sentimenti di critica nei confronti degli Stati Uniti ben maggiori dei suoi. “Siamo completamente d’accordo con gli obiettivi promessi dalla nuova strategia in Iraq del presidente Bush”, ha detto Saud al Faisal, ministro degli Esteri, dopo l’incontro con il segretario di stato Condoleezza Rice, a suggello di un ulteriore passo nella definizione di una nuova strategia regionale che l’Arabia Saudita sta maturando, in sintonia con gli Stati Uniti. Da mesi, infatti, Washington e Riad stanno rimodulando le basi della loro storica alleanza, siglata il 14 febbraio 1945 a bordo dell’incrociatore pesante Quincy, alla fonda nei Laghi Salati, tra F. D. Roosevelt, di ritorno da Yalta, e Abdulaziz ibn Saud (padre di re Abdullah). Il tutto, oggi come allora, segnato da un pesante limite da parte americana. Bush oggi, come tutti i presidenti americani dopo Roosevelt, ha una visione corretta del Golfo dal punto di vista geopolitico, e vede l’Arabia Saudita giocare un ruolo centrale a fianco degli Stati Uniti. Questa visione, però, è appesantita dall’incapacità di comprendere come proprio l’ideologia, lo scisma islamico che regge il regime saudita, sia la causa prima del fondamentalismo jihadista che infiamma il Golfo (e della stessa impossibilità di pacificazione in Palestina). Esattamente come Roosevelt, con straordinaria leggerezza, si impegnò nel 1945 con i sauditi a ostacolare la nascita di Israele, così oggi Bush e Condoleezza Rice continuano a considerare ininfluente – e invece è centrale – il fatto che in campo sunnita il rifiuto di riconoscere l’esistenza di Israele – in primis da parte di Hamas – si basa proprio sull’ideologia wahabita propagata decenni, grazie a miliardi di petrodollari, dal regime di Riad. Siamo comunque di fronte alla definizione da parte di Condoleezza Rice di una sorta di “seconda Quincy”, dell’aggiornamento dell’alleanza siglata dagli Stati Uniti nel 1945 con un paese fondamentale per contenere la spinta della rivoluzione islamica parafascista di Ahmadinejad. Il tutto, però, intorbidito dalla sottovalutazione americana (ed europea naturalmente) del fatto che l’alleato saudita è centro irradiatore di un islam – sempre incentrato sull’antisemitismo e sulla negazione dell’Olocausto – dalle devastanti conseguenze nella umma musulmana. Roosevelt commise un errore simile con Stalin, quando tardò a comprendere che l’indispensabile alleanza con l’Urss per sconfiggere la Germania nazista era però segnata da una contraddizione ideologica che di lì a poco l’avrebbe trasformata in uno stato di guerra, sia pure “fredda”, con gli Stati Uniti. In omaggio alla tradizione americana, dunque, tutto si svolge sul terreno di una realpolitik, in cui gli interessi di Bush e re Abdullah coincidono, ben oltre il terreno petrolifero: ieri i sauditi si sono opposti in sede Opec alle manovre congiunte dell’Iran e del Venezuela per limitare la produzione di greggio e quindi fare aumentare il prezzo dell’oro nero. Dopo aver appoggiato per anni le più spietate iniziative terroristiche di Hamas – finanziando abbondantemente le famiglie dei kamikaze – e dopo avere verificato di non avere alcuna capacità autonoma di influenzare il quadro iracheno, Riad ha dovuto infatti prendere atto di altri due gravi novità. Sul piano interno, ha constatato che la mancanza di iniziativa, di contatti e di uomini in Iraq si è ribaltata in una sorta di contagio iracheno dentro i suoi confini. La filiera irachena di al Qaida ha infatti assorbito migliaia di giovani sauditi – che condividono con i terroristi la comune matrice religiosa wahabita-salafita – che da tre anni passano in un senso e nell’altro la frontiera e si fanno esplodere a Baghdad, così come appoggiano le continue attività eversive in Arabia Saudita. Nonostante agguerrite forze dsicurezza, il governo di Riad non riesce a contenere il contagio, a evidente riprova di altissime complicità da parte di settori non marginali dei servizi segreti e della stessa corte (come confidò tre anni fa all’allora ministro Franco Frattini lo stesso re Abdullah). Sul piano internazionale, Riad ha dovuto prendere atto che la forza di attrazione della rivoluzione iraniana, rivitalizzata dalla leadership di Ahmadinejad, ha ormai pericolosamente eroso l’influenza regionale dell’Arabia Saudita. Oltre alla prospettiva di uno straordinario gap militare nei confronti dell’Iran, quando sarà pronta l’atomica, re Abdullah ha dovuto registrare anche tre sue cocenti sconfitte sui quadranti cruciali del Libano, della Palestina e della Siria. In Libano, l’assassinio di Rafiq Hariri ha eliminato proprio il leader su cui stava costruendo – in raccordo con il presidente francese Jacques Chirac – una svolta anti siriana; il tutto aggravato dal peso preponderante che ha assunto, con la guerra del 2006 contro Israele, Hezbollah, longa manus di Teheran. In Palestina, Hamas, storicamente legata a Riad, ha oggi rotto ogni rapporto e si è alleata con l’avversario Iran. In Siria, il regime di Bashar el Assad non ascolta più Riad, ha eliminato fisicamente, a partire da Hariri, i terminali libanesi dei sauditi e – come Hamas – ha scelto di attestarsi nel campo iraniano (grazie anche ai generosi finanziamenti di Hugo Chávez). Re Abdullah ha dovuto così prendere atto che il revival sciita oggi ha il vantaggio dell’iniziativa su tutti i fronti: in Iran sul nucleare, in Libano con Hezbollah, in Iraq con Moqtada al Sadr e in Palestina con Hamas. Un quadro disastroso, visto da Riad, anche perché la millenaria avversità geopolitica nei confronti della Persia-Iran, di parte araba, per i sauditi è aggravata dall’essenza stessa del wahabismo, che vede negli sciiti iraniani degli eretici idolatri. Pur di contenere l’espansione irano-sciita, quindi, re Abdullah oggi è pronto a tutto, anche a contatti segreti con Israele, come è avvenuto con emissari di Olmert. In Libano, a fronte dell’impossibilità di un rapido mutamento dei rapporti di forza (in stretto contatto con Parigi e Washington) si rassegna a una situazione di impasse, attestata sulla difesa del governo amico di Fouad Siniora. In Iraq, privo com’è di leader amici, dopo la deludente prova del suo stretto alleato Ghazi al Yawhar, che pure Paul Bremer aveva fatto nominare presidente della Repubblica, re Abdullah si accontenta di una difesa dei sunniti a opera dei marine americani. In Palestina, invece, il sovrano saudita tenta oggi un “affondo” contro l’asse iraniano, e punta tutto su Abu Mazen e sulla sfida lanciata a Hamas con lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate. Se questa manovra, intessuta da Condoleezza Rice con la condivisione della Giordania e dell’Egitto (molto distratto però nei confronti del contrabbando di armi di Hamas) riuscirà, re Abdullah potrà presentarsi al tavolo delle trattative tra Abu Mazen e Israele come indispensabile partner. Se e quando Abu Mazen vincerà lo scontro con Hamas – e i “se” sono molti – il tavolo delle trattative per la costituzione dello stato palestinese sarà dunque condizionato da Riad, unica capitale in grado di trascinare i paesi arabi, sulla falsariga del piano di re Fahd approvato dalla Lega araba nel 2002. Ma qui, di nuovo, l’ideologia saudita rischierà di fare saltare il tavolo. Il wahabismo, infatti, non permette l’esistenza di uno stato degli ebrei in Palestina, esattamente come non lo permette l’Islam di Hamas e di Ahmadinejad. Se re Abdullah lo aggirasse, se riconoscesse Israele, anche su richiesta di Abu Mazen, rischierebbe una deflagrante crisi interna e quindi è difficile che lo faccia. Tutta la pur apprezzabile costruzione strategica che Condoleezza Rice ha costruito attorno ad Abu Mazen cadrà allora come un castello di carte, come i vari “piani” che dal segretario di stato William Rogers in poi, da quarant’anni in qua, falliscono in Palestina a fronte del fondamentalismo islamico.
Di Christian Rocca, un articolo sulle idee di miglioramento del piano Bush e sui dubbi circa il ruolo di Al Maliki:
Milano. Le polemiche sul nuovo piano iracheno di Bush continuano senza sosta, ma non sono soltanto di tipo partigiano. Arrivano, piuttosto, le prime critiche sul merito della strategia annunciata dieci giorni fa da Bush. La gran parte degli oppositori continua a rifiutare in blocco il piano Bush, senza offrire nessuna credibile alternativa. Ieri Hillary Clinton ha definito “perdente” la nuova strategia e si è fermata lì. Il senatore repubblicano Chuck Hagel sta lavorando, insieme con i democratici Joe Biden e Carl Levin, a una risoluzione non vincolante che esprima “il senso del Senato” contrario all’aumento delle truppe, mentre il senatore Christopher Dodd, candidato alle primarie democratiche del prossimo anno, ha presentato un progetto di legge che chiede un’ulteriore risoluzione del Congresso nel caso Bush volesse aumentare il numero di soldati già presenti in Iraq. Ma accanto a queste schermaglie politiche c’è anche chi entra nel merito del piano Bush. Il primo è stato David Brooks, la settimana scorsa sul New York Times, a dubitare della credibilità del premier iracheno Nouri al Maliki, fin qui parecchio disponibile con le milizie sciite del leader radicale Moqtada al Sadr. Ieri, sempre il New York Times ha dedicato il primo editoriale al “partner mancante in Iraq”, ovvero ad al Maliki: il piano di Bush si fonda sulla convinzione che il governo iracheno collaborerà, ma nessuna delle idee presentate dalla Casa Bianca potrà avere successo senza la piena collaborazione di Maliki. Da quando Bush ha annunciato il piano, specificando che è stato preparato in collaborazione con il governo iracheno, Maliki non è mai intervenuto direttamente, facendo intendere di non essere particolarmente entusiasta dell’idea di avere più soldati americani per le strade di Baghdad. Il New York Times ha notato, inoltre, che Maliki ha appena nominato il generale Aboud Qanbar, un rumoroso avversario del maggior coinvolgimento americano, a capo delle nuove operazioni di sicurezza che l’esercito iracheno dovrebbe condurre insieme con i soldati statunitensi. Il senatore repubblicano George Voinovich pensa la stessa cosa e crede che Bush abbia messo “un po’ troppo del nostro futuro nelle mani di quest’uomo”. Una preoccupazione condivisa da James Hoge, editorialista di Foreign Affairs, secondo il quale “questa è la debolezza potenziale più grande del programma presidenziale, perché Maliki ha dimostrato in molti modi e in diverse occasioni che non è affidabile come partner”. La Casa Bianca due giorni fa ha provato a smontare questa diffidenza americana su Maliki, diffondendo tutte le dichiarazioni ufficiali irachene favorevoli al piano. La critica più articolata è quella dell’ex analista Cia, Reuel Marc Gerecht, da anni sostenitore dell’idea di puntare sulla maggioranza sciita del paese piuttosto che cercare una soluzione politica con la minoranza sunnita. Non averlo fatto, secondo Gerecht, ha rafforzato la parte radicale dell’Iraq sciita, scesa in campo a difendere con le armi la popolazione dagli attacchi terroristici sunniti. Sull’altro fronte, le porte aperte ai sunniti non hanno ridotto di nulla la ferocia assassina centrata sul motto “potere o morte”, come dimostrano non solo le stragi ma anche le dichiarazioni pro attentati delle organizzazioni sunnite e di gran parte della stampa araba della regione. Gerecht ieri ha scritto un lungo articolo sul Wall Street Journal per proporre una serie di revisioni alla strategia bushiana. Intanto crede che il piano lasci ancora in piedi una buona parte del disastroso approccio militare di John Abizaid e George Casey, i due generali che hanno guidato le operazioni belliche sul teatro iracheno. La scommessa dei due generali – costruire in fretta un esercito iracheno capace di poter fronteggiare il terrorismo sunnita – è stata persa nel febbraio 2006 quando c’è stata la strage della moschea di Samarra. A quel punto, secondo Gerecht, la pazienza sciita si è trasformata in rabbia violenta. Al Pentagono, inoltre, sembrano prendersela comoda con i tempi e con la nomina del nuovo generale David Petraeus, mentre il nuovo segretario, Bob Gates, da un lato parla di un impegno di pochi mesi e dall’altro fa intendere che non tutte le cinque nuove brigate potrebbero essere utilizzate. Gerecht cita l’ex generale Jack Keane, il teorico militare dell’aumento delle truppe deciso da Bush, e attacca duramente l’approccio soft che il Pentagono sta dando alla strategia di Bush. Gerecht sostiene che non solo bisogna fare presto, bene e utilizzare tutti gli uomini, ma anche che gli americani dovranno essere loro a guidare le operazioni militari, piuttosto che fornire sostegno agli iracheni. L’unico modello vincente finora, sebbene su scala minore, è quello della sconfitta della guerriglia a Tal Afar. In quell’occasione – ricorda Gerecht – gli iracheni avevano un ruolo di sostegno, non di comando delle operazioni. Gerecht sostiene che le operazioni dovrebbero cominciare “spezzando la schiena” alla guerriglia sunnita e occupando “le principali città sciite”, mostrando loro che perderanno tutto se non rinunceranno alla violenza. Soltanto in un secondo momento ci si dovrà occupare delle milizie sciite – scrive Gerecht – Prima sarà necessario mostrare alla comunità sciita, oggi difesa esclusivamente dalle squadracce di Moqtada dagli attacchi del terrorismo sunnita, che l’obiettivo primario del nuovo piano non è l’enclave sciita di Baghdad.
Di Rolla Scolari, un articolo sull'emergere delle rivalità tra sunniti e sciiti:
Gerusalemme. Il regno saudita ha detto di essere pronto, assieme ad altri paesi arabi, ad appoggiare il nuovo piano dell’Amministrazione Bush in Iraq, nel tentativo di stabilizzare il paese. E di arginare l’espansione del “Persistan”, come è definita l’ascesa di un potere sciita, con epicentro Teheran, sulle colonne del quotidiano saudita pubblicato a Londra, Asharq al Awsat. I leader della casa dei Saud, custodi dell’islam sunnita, temono il rafforzamento dell’egemonia sciita nella regione e una crescente instabilità. Non lo nascondono. Hussein Shaboshi, uomo d’affari saudita, noto conduttore di una trasmissione economica sulla rete satellitare al Arabiya, scrive che “i segni distintivi” di quella che definisce “l’enorme ambizione iraniana” “non possono essere ignorati: sono le sedizioni in Palestina e Libano, il fenomeno settario in Iraq, le interferenze in Bahrain, l’occupazione negli Emirati Arabi”. Il regno organizza la controffensiva, di concerto con gli Stati Uniti, mentre Condoleezza Rice rientra soddisfatta a Washington dopo aver ottenuto l’appoggio di Riad. C’è chi ricorda la storica allergia dei sauditi per l’instabilità. Amatzia Baram, direttore del Meir and Miriam Ezri Center for Iran and Persian Gulf Studies, specialista in relazioni tra pesi arabi e Israele, spiega che Riad conosce le sue potenzialità storiche di mediatore. “I sauditi hanno paura che qualsiasi cambiamento nella regione possa far loro male”. Hanno sempre mediato per impedire che le trasformazioni nella regione creino un’instabilità capace di avere effetti negativi all’interno del regno, dice Baram. Racconta però una situazione diversa dal passato, inedita: l’ascesa di un potere sciita, il timore di un Iraq sotto l’influenza di Teheran, la preoccupazione per quello che nel mondo arabo è stato vissuto come il successo di Hezbollah contro Israele. “Io dico che non si è trattato di vittoria, ma molti musulmani estremisti hanno vissuto gli eventi di agosto come un successo del Partito di Dio. In Arabia Saudita ci sono molti estremisti, che odiano gli sciiti, ma vedono in Hezbollah un movimento islamico radicale e terrorista capace di sconfiggere uno stato e prendere in ostaggio il Libano”: un precedente pericoloso per il regime di Riad. Il regno, per primo tra gli stati arabi, ha condannato l’attacco di Hezbollah ai soldati israeliani, sbisbilanciandosi in un’inedita presa di posizione contro un gruppo islamico e a favore del “nemico” mai riconosciuto. I recenti eventi fanno convergere gli interessi dell’Arabia Saudita con quelli d’Israele, soprattutto di fronte alla minacciosa corsa nucleare di Teheran. E il segretario di stato americano Rice non ha nascosto di volere raggruppare nello stesso fronte i regimi sunniti, capitanati da Riad, e il governo di Ehud Olmert. Non soltanto. “Gli americani provano a creare una coalizione moderata e vogliono all’interno anche Abu Mazen”; l’incontro tripartito annunciato nel viaggio del segretario di stato americano tra Rice, Olmert e il rais palestinese “serve soltanto alle televisioni”, secondo Baram. Sono di poche settimane fa le notizie di contatti segreti tra Israele e regno saudita. “Non ho dubbi che sia vero, che ci sia qualche contatto, che qualcosa stia accadendo – dice il professore – perché i sauditi sono interessati a riempire il vuoto tra Israele e Libano, e Israele e palestinesi”. In Libano, ricorda, stanno cercando di mediare, di prevenire un disastro e la sconfitta dei loro uomini (come il premier Fouad Sinora e la famiglia Hariri). Proprio poche settimane fa una delegazione saudita avrebbe incontrato membri di Hezbollah.Riad vede arrivare minacce dal Libano e dai Territori palestinesi, dove Hamas, appoggiata da Teheran, non trova l’accordo con il partito del rais Abu Mazen, Fatah. “Teme che l’instabilità in Israele possa avere effetti in Arabia Saudita”. Alla luce di queste paure si possono leggere le voci di contatti tra Israele e Riad e le aperture, seppur timide, del governo Olmert all’inziativa saudita del 2002, terra in cambio del riconoscimento arabo d’Israele. Baram ribadisce che gli americani stanno cercando di costruire una coalizione in cui “l’Arabia Saudita sarà un importante partecipante”. Anche per questo Riad ha fatto pressioni sulla Lega araba per ospitare, dopo aver precedentemente rifiutato, il summit annuale dell’organizzazione a marzo. Dicono funzionari di Riad che il re Abdallah “capisce bene che la regione attraversa un periodo critico e delicato” ed è intenzionato a “serrare i ranghi” e a trovare una soluzione alla crisi conveniente al suo paese.
Infine, un articolo di Anna Barducci Mahjar sull'opposizione del Marocco al negazionismo iraniano:
Washington. Nel mondo arabo il Marocco è l’unico paese ad avere preso una posizione molto decisa contro la conferenza negazionista sull’Olocausto, convocata a Teheran. I quotidiani del regno, come il settimanale Maroc Hebdo, hanno pubblicato in prima pagina articoli sulla Shoah in Europa e in particolare in Nord Africa, dove circa dieci mila ebrei sono stati rinchiusi in campi di concentramento sotto il mandato Vichy dal 1940 al 1943. “La conferenza a Teheran è inconcepibile e inaccettabile”, ha detto al Foglio André Azoulay, consigliere di religione ebraica del sovrano Mohammed VI del Marocco, che è giunto nei giorni scorsi a Washington in veste ufficiale. “Un nostro concittadino ha partecipato all’esposizione di disegni satirici sulla Shoah a Teheran – ha raccontato – Il regno, però, si vergogna che questa persona sia un marocchino”. Azulay ha poi ricordato, in una serie di incontri, il ruolo dimenticato del re Mohammed V nel proteggere gli ebrei dall’Olocausto nordafricano, promuovendo il libro, “Among the Righteous”, di Robert Satloff, ricercatore al Washington Institute, sui nordafricani che si sono opposti alla Shoah. Alcuni imam avevano, infatti, dato dei documenti falsi agli ebrei, in cui si confermava la loro fede musulmana per non essere fatti prigionieri. “Non bisogna però essere ingenui – ha detto Azoulay – Oggi giorno, molti ragazzi si vergognano di dire che i loro parenti e che lo stesso sovrano ha cercato di proteggere i marocchini ebrei”. Eppure nei racconti popolari alcuni nonni tentano ancora di tramandare le parole di Mohammed V – Azoulay sta cercando di fare inserire il suo nome nello Yad Vashem in Israele come un eroe – rivolte ai collaboratori francesi dei nazisti, che avevano richiesto di fare indossare agli ebrei una stella gialla sul petto. “Se volete farlo – avrebbe detto Mohammed V – Portatene una anche per me e per la mia famiglia, perché in questo paese non ci sono differenze: siamo tutti marocchini”. Nel 1965, lo scrittore Said Ghallab disse, però, che in Marocco il peggior insulto era di dare a qualcuno dell’ebreo. Nonostante tutto, il sovrano Hassan II ha voluto continuare la tradizione del padre, nominando nel 1991 Azoulay suo consiconsigliere personale, una delle cariche più importanti del regno. “Faccio parte di un club molto esclusivo – ha detto – Sono l’unico ebreo nel mondo arabo ad avere ottenuto questa posizione”. Azoulay ama infatti dire che in Marocco vive ancora lo spirito dell’Andalusia, in cui ebrei e musulmani vivevano pacificamente insieme. Dopo tutto, in Marocco le popolazioni originarie nel paese erano berbere e di origine ebraica, dato che gli arabi-musulmani sono stati i colonizzatori. “Il problema che oggi dobbiamo affrontare, però, è il fondamentalismo – ha detto il consigliere del sovrano – Non dobbiamo permettere che la religione sia monopolizzata”. Azulay non sa spiegare perché la situazione nel mondo arabo sia “sfuggita di mano” “Mi ricordo quando dodici anni fa – racconta il consigliere del re – per le strade di Casablanca migliaia di persone facevano la fila per salutare Yitzahk Rabin, ex premier israeliano. Oggi, invece, tutto è cambiato”. Azoulay dice che allora nessuno si sarebbe immaginato il “terribile attentato dell’11 settembre”, e nemmeno l’attacco terroristico a Casablanca nel 2003, cui il regno ha reagito con arresti immediati e con campagne contro il fondamentalismo. “Il Marocco tiene sotto controllo i gruppi integralisti”, dice sicuro Azoulay, in vista di possibili tumulti se alle elezioni legislative del 2007 nel regno vincesse il partito islamista, PJD. Il consigliere, però, è ottimista per il Marocco, in cui quest’anno ha sbancato al cinema il film “Marock”, una storia d’amore fra una musulmana e un ebreo. Azoulay ha infatti ancora come modello la sua città natale, Essaouira, nel sud del regno, nota per il suo festival musicale, in cui la maggioranza della popolazione era di religione ebraica. Il consigliere del sovrano, però, sa che la battaglia contro il fondamentalismo non sarà vinta soltanto con le sue parole o con quelle di chi la pensa come lui. “Voglio smettere di fare attivismo – ha detto – Spetta adesso ai miei concittadini musulmani alzarsi in piedi e difendere i miei diritti di persona e di ebreo, come io ho fatto per loro negli anni”.
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