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Il Foglio Rassegna Stampa
17.01.2007 Guerre di religione, sentenze di morte contro la libertà di pensiero
i sostenitori dei diritti umani potrebbero occuparsene, se non fossero troppo impegnati a odiare l'America

Testata: Il Foglio
Data: 17 gennaio 2007
Pagina: 2
Autore: David Frum - Irshad Manji - Jeff Israely
Titolo: «Sciiti a Detroit - Scrittrice musulmana colpita da fatwa in difesa di Daniela Santanché - Bagno di realtà»

Dal FOGLIO del 17 gennaio 2007:

Non appena la notizia dell’esecuzione di Saddam Hussein è stata trasmessa lo scorso 30 dicembre, centinaia di iracheno- americani sono scesi nelle strade dei quartieri occidentali di Detroit, densamente popolati da arabi, per danzare e festeggiare. Qualche giorno dopo, alcuni vandali hanno attaccato i centri religiosi sciiti e i negozi con nome sciita nella città e nella zona circostante, sfasciando le vetrine e lasciando minacce di morte in lingua araba sulle segreterie telefoniche. Da mesi, il re giordano Abdullah lancia un monito, sostenendo che il conflitto tra sciiti e sunniti in Iraq potrebbe contagiare l’intero medio oriente. Che possa persino estendersi all’Europa e all’America del nord? Secondo la tradizione musulmana, lo scisma tra sunniti e sciiti deriva dal disaccordo su chi sia l’erede dell’autorità spirituale e del potere politico del profeta Maometto. Spettano ai subordinati e generali scelti da Maometto, o ai suoi parenti, ovvero al genero Ali e al nipote Hussayn (il termine “sciita” è un’abbreviazione dell’espressione araba “shiat Ali”, il partito di Ali)? La questione fu risolta con la violenza. Ali fu assassinato e Hussayn ucciso in una battaglia combattuta in prossimità della città santa di Karbala, nell’attuale Iraq, nell’anno 680, il cui racconto dettagliato è diventato uno dei tradizionali e dolenti motivi ispiratori del culto sciita. L’islam, come si è sforzato di spiegare il grande islamista Bernard Lewis, non ha elaborato il concetto di separazione tra stato e chiesa. La dottrina islamica prevede una comunità unita da un credo condiviso, guidata da un uomo probo che ha il dovere di “ordinare ciò che è giusto e proibire ciò che è sbagliato”. L’islam sciita insegna che quest’ideale è stato tradito quasi dagli inizi dell’islam: il capo legittimo fu estromesso dal potere e assassinato e il suo posto preso da usurpatori e tiranni. E’ facile vedere come questa storia abbia esercitato grande influenza sui singoli e le comunità che si sentivano maltrattati da chi deteneva il potere. Al tempo stesso, è facile vedere come la corrente principale di una religione che propone l’assoluta impersonalità di Dio e rifiuta qualsiasi sentore di deificazione persino del suo più reverendo profeta, abbia condannato, bollandolo come eretica, o peggio, qualsiasi forma di culto della famiglia del profeta. In questo modo ha avuto inizio un ciclo, protrattosi per molti secoli, di ribellioni e rappresaglie, eresie e martirii. Un ciclo che continua tutt’oggi. E’ possibile trovare una via d’uscita? Le prospettive non sono promettenti. Venerdì, uno dei più eminenti religiosi sauditi, Abdul Rahman al Barak, ha pronunciato una fatwa che condanna gli sciiti in quanto infedeli, contro i quali si può legittimamente applicare il jihad. Gli sciiti, ha detto al Barak, “sono la setta più malvagia della nazione islamica, e hanno tutte le caratteristiche degli infedeli. E’ evidente a tutti che sono infedeli, apostati e ipocriti”. Al Barak ha legami molto stretti con la famiglia reale saudita, in teoria moderata. Ciononostante il suo modo di esprimersi è più violento di quello usato dal terrorista di al Qaida Abu Musab al Zarqawi nella dichiarazione di guerra contro gli sciiti iracheni del 14 settembre 2005. I sogni settari finiscono nel sangue Noi, nel mondo occidentale, non siamo giunti alla libertà religiosa con il ragionamento. L’abbiamo accettata (spesso con grande riluttanza) perché eravamo stanchi delle guerre religiose. Nella sua “Lettera sulla tolleranza”, del 1689, il filosofo John Locke non parlò del diritto di porsi liberamente delle domande o della bellezza della diversità. Basò le proprie argomentazioni a favore della tolleranza su una promessa: la pace sociale. “E’ un’inclinazione comune a tutta l’umanità, quando geme sotto un qualsiasi pesante fardello, quella di adoperarsi per scuotersi di dosso il giogo che le scortica il collo […]. C’è solo una cosa che unisce le persone in disordini sediziosi: l’oppressione”. Il mondo occidentale ha imparato la lezione in modo duro, ma l’ha imparata. Nel corso degli anni, molti avevano sperato che il mondo islamico e il medio oriente avrebbero approfittato del terribile esempio dell’occidente, che ha mostrato come la pace e la giustizia non si raggiungano “ordinando ciò che è giusto e proibendo ciò che è sbagliato”, ma creando leggi eque e rispettando chi le osserva. Al contrario, gli abitanti della regione hanno rincorso fantasie totalitarie: il fascismo, il comunismo, il socialismo arabo e ora l’islamismo settario. Tutte si sono concluse nel sangue e nel dolore di chi vi aveva aderito e delle sue vittime.

Sempre dal FOGLIO , un articolo di Irshad Manji sulla fatwa contro Daniela Santanché:

In quanto musulmana riformista, mi sento molto vicina a Daniela Santanchè. Fino a poco tempo fa avrei potuto reagire all’ultima minaccia di morte che ha ricevuto come la maggior parte di noi ancora reagisce: con tristezza, magari disgusto, ma soprattutto silenzio. Ora non posso più mantenere questo silenzio: condivido la sua situazione, perché i jihadisti perseguitano anche me. Quando mi sveglio, per prima cosa controllo la mia e-mail, per vedere se, nella notte, ho ricevuto minacce di morte. Quindi disattivo il sistema di allarme per recuperare il giornale del mattino. Mentre bevo il caffè guardo fuori dalle finestre antiproiettile, vicine alla mia cassetta delle lettere, che la polizia ha sigillato per impedire che vi possano introdurre lettere bomba. Mi è anche stato consigliato di non portare con me un cellulare, la cui tecnologia – il posizionamento satellitare globale – permette ai miei nemici di rintracciarmi. La massima allerta è scattata tre anni fa, quando ho pubblicato il mio libro “Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’islam”. Nel libro, che contesta il sessismo, l’antisemitismo e altri pregiudizi in cui credono moltissimi miei fratelli musulmani, faccio notare che la mia fede è diventata un focolaio di intolleranza, soprattutto nei confronti delle donne e degli ebrei. Sostengo che i musulmani devono seguire le parti progressiste della nostra storia, anziché lasciare che gli estremisti definiscano per noi la religione in cui dobbiamo credere. Supplico i musulmani perché si dichiarino contrari agli omicidi d’onore, alle lapidazioni, agli attentati kamikaze e ad altri crimini commessi in nome di Dio. Sapevo che, esprimendo quelle opinioni, avrei potuto mettere a rischio la mia vita. Durante la stesura del libro, ci sono stati momenti in cui sospiravo, tra me e me: “Se non è questo paragrafo a decretare la mia morte, sarà il prossimo.” Ho pensato anche alle anime coraggiose che mi hanno preceduto: Salman Rushdie, il cui romanzo “I versetti satanici” è stato talmente vituperato dai fondamentalisti islamici da indurre il governo iraniano a emettere nei suoi confronti una condanna a morte nel 1989. Rushdie si è dovuto nascondere per diversi anni. Poi c’è Taslima Nasrin, scrittrice femminista, medico e dissidente musulmana del Bangladesh, tuttora in esilio, a quasi quindici anni dalla prima fatwa emessa contro di lei. Soprattutto, ho ricordato l’aggressione subita dall’ottantaduenne Naguib Mahfouz, egiziano, premio Nobel per la letteratura, pugnalato al collo trent’anni dopo aver scritto un libro che alcuni musulmani consideravano eretico. Quindi, cominciare a trovare nella posta in arrivo minacce quali “Pagherai per le tue menzogne”, “Divertiti per quel poco che ti resta da vivere” e “Questo è l’ultimo avvertimento” da parte dei jihadisti non mi ha sconvolto. Sono trascorsi tre anni, ma questi aspiranti assassini continuano con le loro ossessive intimidazioni: solo pochi mesi fa, il forum di una chat islamica ha pubblicato commenti secondo cui sarei presto finita uccisa, come il regista olandese Theo van Gogh. “Il destino di Van Gogh non è molto diverso dal suo”, ha scritto un membro del forum che si firmava “mullah”. Un membro dal nome “Ibn el-Sheikh” ha risposto: “Nell’aldilà, intendi – ehm”. E mullah ha replicato: “Sì, sì – ehm”. Un altro membro ha aggiunto: “Inshallah”, che in arabo significa “Se Dio vuole”. Ho avuto modo di capire che quei tizi non mi hanno affidato a Dio, né aspettano che attraversi i cancelli dell’inferno: a quanto pare, hanno inserito il mio nome in un elenco di obiettivi per spedirmici rapidamente. Un’altra recente minaccia mi ha descritto come “una scrittrice che ora è condannata a morte”. Si tratta di una nota scritta in Urdu, la lingua principale del Pakistan. La polizia ha scoperto che è partita non da Karachi, Lahore o Islamabad, ma da un Internet café del centro di Toronto, una delle città più liberali, cosmopolite e pluralistiche al mondo. Ritengo che i jihadisti stiano diventando sempre più spudorati. Ostentano le proprie libertà per schernire tutti noi. Lo testimonia il fatto che hanno inviato l’ultima minaccia a Daniela Santanchè tramite il sistema postale parlamentare, come a volersi dichiarare immuni dal controllo statale. Quelli di noi che sostengono i diritti umani devono reagire utilizzando questi stessi diritti – libertà di pensiero, di coscienza e di espressione – per denunciare gli ipocriti e affermare i nostri valori liberali. Naturalmente verremo accusati di avere un desiderio di morte. E’ ironico, perché sono gli islamisti a essere fissati con la morte. Ma la verità è che mi rifiuto di temere la morte. Trovo più triste sprecare la vita, che perderla. In quanto donna musulmana abbastanza fortunata da vivere in occidente, insisto nel voler esercitare le mie preziose libertà. In quasi ogni altra parte del mondo, le donne musulmane non potrebbero mai sfidare la frangia radicale e denunciare la compiacenza tradizionale senza condannare se stesse al carcere o a un destino peggiore. In questa parte del mondo ho la possibilità di pensare, esprimermi, sfidare ed essere sfidata senza rappresaglie governative. In nome di Dio, cosa posso fare di questo privilegio? La risposta è una sola: utilizzarlo. Naturalmente ho i miei momenti di dubbio. Una volta ho chiesto a Salman Rushdie per quale motivo dovrei scrivere un libro che metterebbe a rischio la mia vita. Mi ha risposto: “Un libro è più importante di una vita. Un pensiero che tu esprimi può provocare dissensi energici, veementi, anche violenti. Ma non può essere cancellato. Questo è il grande dono perenne che uno scrittore offre al mondo.” L’Italia è fortunata ad avere un personaggio come Daniela Santanchè, che comprende il potere della voce. Ora più che mai ha bisogno delle nostre voci: schieriamole, per infrangere i silenzi mortali

Segnaliamo infine un'interessante testimonanza diretta (di un americano di sinistra) su un dibattito su Guantanamo organizzato da Amnesty international.
Dalla quale si evince chiaramente come, piuttosto che dalla difesa dei diritti umani, molti militanti del gruppo siano ormai mossi soltanto dall'odio verso l'America:

Il cronista americano accettò l’invito di Amnesty International senza pensarci due volte. Questo è stato il primo errore. Sarebbe uscito dall’incontro con un’amarezza che i neocon originali (ovvero gli ex di sinistra convertiti alla destra) sentivano probabilmente già prima della conversione. Questo è stato il secondo errore. La settimana scorsa, in occasione del quinto anniversario dell’apertura della prigione di Guantanamo ai presunti terroristi, Amnesty International aveva organizzato una dimostrazione con volontari vestiti di una tuta arancione dentro una cella-gabbia nel centro di Roma. La protesta pubblica fu seguita da un dibattito su Guantanamo, in un caffè romano, cui il cronista venne invitato per favorire un’analisi dal punto di vista americano. Dove poteva essere il problema? Sebbene la prospettiva americana – e anche quella del cronista stesso – possano essere cambiate nel corso del tempo, c’era rimasto ben poco da discutere. Guantanamo è da chiudere. Neppure Condoleezza Rice cerca più di difenderla, ultimamente. Quanto ad Amnesty, sebbene forse un po’ troppo di sinistra per i gusti del cronista, l’organizzazione è sempre sembrata seria e concentrata su casi concreti di violazione dei diritti umani. Per quanto riguarda Guantanamo – a parte tutti gli stravolgimenti legali, politici e filosofici nei circoli diplomatici – avevano semplicemente ragione fin dall’inizio. E così, mentre una cinquantina di persone prendeva posto, il cronista chiacchierava con i suoi cortesi ospiti: in fin dei conti, per un americano, giocare fuori casa in Italia non significa necessariamente finire nella gabbia dei leoni. L’unica avvisaglia di possibili guai arrivò da un’amica romana che per caso si trovava lì. Ex attivista di Amnesty, era passata a destra. Prima di andarsene, l’amica si rivolse al cronista, facendo un gesto con gli occhi in direzione di uno dei suoi ex compagni di Amnesty: “Quello lì è un vero estremista”. Il messaggio in codice era: “Dio te la mandi buona, americano mio”. Chi ha buttato giù quelle torri? Eppure tutto sembrava abbastanza nella norma. Poi il moderatore pose la prima domanda all’americano, chiedendo in che modo la prigione veniva considerata negli Stati Uniti. Il cronista aveva appena proferito qualche parola quando, dopo aver pronunciato l’espressione “guerra al terrorismo”, venne interrotto in modo aggressivo da un uomo in prima fila: “E allora chi ha buttato giù quelle torri? Gli americani, dico io!”. Dopodiché l’uomo si alzò, seguito dalla sua compagna, mugugnando “m’incazzo sempre”, e se ne andò. La violenza di questa reazione, lasciò il pubblico – e l’ingenuo cronista – silenziosi e stupiti. Ma il vero shock fu il fatto che, apparentemente, quest’uomo aveva parlato a nome dell’intera sala. I successivi due interventi del pubblico, più civili nella forma, continuarono nella citazione delle teorie della cospirazione, con un membro dei Cobas che concludeva che ogni fatto negativo accaduto in America era un “inside Job”, etichettando il paese come “stato terroristico”. La cosa più sgradevole era che dopo ognuno di questi sermoni l’intera sala scoppiava in un fragoroso applauso. “E adesso m’incazzo io!”, pensò il cronista. Tuttavia fece del proprio meglio per mantenere la calma, cercando di offrire risposte razionali, ricordando al pubblico che gli americani che condividevano la loro posizione su Guantanamo avrebbero presto voltato loro le spalle non appena avessero sentito parlare di queste teorie della cospirazione. Alla fine, pensieri negativi cominciarono ad affollare la sua mente: “Tristissimi caffè rivoluzionari. Siete il sogno sia di Osama bin Laden sia di Dick Cheney! I pecoroni della politica della colpa. Voi preferite che Guantanamo non venga mai chiusa, così potete avere l’America che preferite!”. E così, per un fuggevole momento, il buon americano moderato di sinistra passò all’estrema destra. Andò a letto dispiaciuto di non aver pronunciato ad alta voce uno di questi cattivi pensieri. La mattina successiva, vide la prima pagina di questo giornale. Il direttore è un autentico neocon, un ex uomo della sinistra la cui conversione alla destra deve essere passata attraverso quei momenti di totale disgusto nei confronti dei suoi compagni di allora che uno vive sulla propria pelle. Quel giorno, la notizia principale in prima pagina era l’annuncio di George Bush dell’invio di nuove truppe americane a Baghdad, praticamente contro il parere di tutti. Il titolo del Foglio recitava a caratteri cubitali: “RIPRENDIAMOCI LA CITTÀ PERDUTA”. “Adesso basta!”, pensò l’americano, ora incazzato con il mondo. E così il breve incantesimo neocon venne spezzato. Cancellare un errore non sempre ti porta a fare la cosa giusta.

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