Un rabbino tunisino nei ghetti del regno di Sardegna Giorgina Arian Levi
Davide Viterbo
La Giuntina Euro 10,00
Un gran fracasso nel cortile del ghetto ebraico. Uno schiamazzo di voci. Dalla carrozza scende un omone barbuto col turbante, e si fa largo tra lo “sciame di fanciulli” che gli fa il verso. Si volge a “urlare col vetturino” e nello stesso tempo avanza “bel bello a bestemmiare col Signor Maestro per ottenere un albergo degno della sua arroganza”.
Questo personaggio esotico e chiassoso – descritto da uno scolaro ebreo che assistette alla scena – è Abraham Belaiss Naskar ben Shalom, sapiente tunisino e impareggiabile scroccone. Come una meteora, lo strampalato avventuriero venuto dal Nord Africa scompigliò per qualche anno – tra il 1818 e il 1830 – la vita ordinata e un poco intorpidita del giudaismo sabaudo.
Dopo essere stato gran rabbino e tesoriere del bey di Tunisi, Belaiss era dovuto fuggire inseguito dai creditori. Aveva vagato per il Mediterraneo e l’Europa continentale prima di arenarsi, chissà come, in Sardegna. Lì si era ingraziato il re Vittorio Emanuele I, allora in esilio, forse gli aveva offerto i propri servigi di spia e certo doveva aver fatto colpo accampando relazioni altolocate. Il re gli concesse varie udienze, gli donò una tabacchiera tempestata di diamanti e gli offrì mille franchi. Questo almeno racconta lo stesso Belaiss, che peraltro indulgeva anche al vizio dell’esagerazione. E’ comunque indubbio che il sovrano lo prese sotto la propria protezione e che il rabbino pensò di essersi finalmente sistemato. Dopo una serie di tentativi, gli riuscì il gran colpo. Nel 1820 ebbe la cattedra rabbinica di Nizza, assai più per le pressioni della corte sabauda che per libera decisione degli ebrei della città.
Passata la bufera napoleonica, la Restaurazione aveva segnato anche in Piemonte una nuova fase nei rapporti tra Stato e comunità ebraica. La monarchia voleva riprendere un rigido controllo sugli ebrei ed è probabilmente per questo che Belaiss fu visto come un’utile pedina. Giorgina Arian Levi e Davide Viterbo, che hanno ricostruito i maneggi di Belaiss, schizzano una vicenda a metà tra l’intrigo politico e l’opera buffa. Da una parte le autorità di Torino, che favorivano il rabbi, dall’altra gli ebrei di Nizza, che di malavoglia vedevano sfumare le libertà sociali ed economiche ottenute coi francesi. Belaiss non esitò a fare i nomi di qualche sovversivo, e cercò di spremere un salario adeguato all’alto concetto che aveva di sé stesso. Ma c’era un altro problema grave: il maestro venuto da Tunisi non parlava né l’italiano né il francese. Usava un ebraico ricco e ampolloso,e la sua lingua madre era l’arabo, cosicché la maggior parte dei fedeli non capiva una parola delle sue prediche.
E fu proprio su questo scoglio linguistico che s’infranse l’avventura di Belaiss. Passi un rabbino reazionario e avido di denaro,ma un oratore incomprensibile era davvero troppo per la comunità di Nizza. L’ultima supplica al sovrano sabaudo fu inequivocabile: “Il più alto favore e la più bella grazia che si potesse accordare a questa Università israelitica sarebbe il richiamo del signor Abramo Belaiss”. La corte cedette, il rabbi di Tunisi fu rimosso e dovette lasciare il Piemonte. Finì i suoi giorni nella comunità sefardita di Londra.
Certo, quel diavolone venuto da Barberia doveva avere un carattere insopportabile,ma la verità è che i suoi modi e il suo stile di vita riflettevano un mondo culturale lontanissimo da quello della diaspora piemontese. Incompatibilità ambientale, si direbbe oggi.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore