Baghdad, Teheran , Damasco fronti della guerra contro il terrorismo jihadista
Testata: Il Foglio Data: 16 gennaio 2007 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca - Chris Wallace - Daniele Raineri - Carlo Panella - Carlo Pelanda Titolo: «L'alternativa a Bush - Chney spiega perché la contro il jihad si vince o si perde a Baghdad - La frontiera irachena - Il ritardo iracheno - Ecco come e perché il nuovo piano di Bush non riguarda solo l'Iraq»
Dal FOGLIO del 16 gennaio 2007, un articolo di Christian Rocca sull'assenza, nel panorama politico americano, di alternative al piano di Bush sull'Iraq.
Milano. Qual è l’alternativa al piano Bush sull’Iraq? I democratici americani, contrarissimi all’idea di inviare più truppe a Baghdad, non riescono a trovarne una molto diversa dal ritiro puro e semplice dei soldati, cioè dall’ammissione della sconfitta americana (non solo di Bush) in terra mediorientale. Una scelta radicale che, per ora, soltanto una piccola minoranza del partito che ha vinto le elezioni di metà mandato sembra disposto a presentare al pubblico americano. Le iniziative legislative dei deputati e dei senatori più anti Bush, da Dennis Kucinich a Ted Kennedy, sono state accantonate dai leader del partito, almeno per ora, ma Bush deve tenere conto che negli ultimi giorni l’inerzia politica di Washinton s’è spostata parecchio su posizioni ritiriste. In prima fila c’è John Edwards, ex sostenitore della guerra, poi pentito, e ora candidato pacifista alle presidenziali del 2008. Di conseguenza anche Hillary Clinton si è riposizionata e per la prima volta ha cominciato a criticare non soltanto la gestione della guerra, ma anche la decisione di invadere l’Iraq. Edwards vorrebbe il rientro immediato di 50 mila uomini e critica i suoi colleghi, da Hillary Clinton a Barack Obama, non ancora convinti del fatto che bloccare i finanziamenti sia la mossa corretta. Gli uomini di Hillary hanno risposto a tono a Edwards, mostrando le divisioni all’interno del Partito democratico, mentre Obama in settimana dovrebbe annunciare la formazione di un comitato esploratore per la sua candidatura. Nel giro di quindici giorni l’asse politico s’è spostato in modo preoccupante per la Casa Bianca, che tra i democratici può contare sull’isolato sostegno di Joe Lieberman. Ufficialmente la posizione comune è quella di una risoluzione non vincolante che, nei prossimi giorni, si limiti a esprimere l’opposizione del Congresso al piano Bush, senza però impedire la sua esecuzione. Ma più passano i giorni più si fa largo il fronte ritirista. Alla Camera, Nancy Pelosi ha dato incarico al deputato Jack Murtha di valutare come si possa bloccare il finanziamento della nuova missione, mentre al Senato Christopher Dodd sta preparando un nuovo testo che chiede al Congresso di riautorizzare l’aumento delle truppe deciso da Bush. (segue dalla prima pagina) L’opzione che potrebbe guadagnare consensi nei prossimi giorni è proprio quella di Murtha, il quale con uno stratagemma propone di bloccare l’invio di nuove truppe in Iraq perché, in questo caso, l’intero esercito americano resterebbe “a corto di riserve strategiche” in caso di conflitto con l’Iran o la Corea del nord. Se questa impostazione bellicista dovesse diventare maggioritaria, si assisterà a una corsa contro il tempo: “Non so quanti soldati la Casa Bianca riuscirà a mandare in Iraq prima che la legge sia pronta e venga approvata dal Congresso”, ha ammesso Murtha. I primi soldati sono già partiti e, come ha detto ieri il consigliere per la Sicurezza nazionale Stephen Hadley, una volta che i soldati sono in battaglia, i democratici non negheranno loro i fondi. In ogni caso, assicurano alla Casa Bianca, il Pentagono ha già i fondi necessari alla nuova missione nel bilancio già approvato per il 2007. Il presidente dell’Appropriations Committee della Camera, il pacifista David Obey, conferma che a causa della complessità del budget militare sarà difficile trovare un modo per proibire in modo selettivo il finanziamento alle nuove truppe. Resta il problema dell’alternativa. Intervistato da “60 minutes”, Bush ha detto che “è da irresponsabili opporsi a tutto, non proponendo niente”. Secondo il presidente, “chi rifiuta di concedere una possibilità al mio piano ha l’obbligo di offrire un’alternativa che abbia una migliore chance di successo”. Ma Bush deve guardarsi anche dalle critiche degli amici, come l’ex generale Jack Keane, considerato l’architetto ideologico, insieme con Fred Kagan, dell’aumento delle truppe. Keane sostiene che il Pentagono stia ritardando le operazioni e voglia tenersi come riserva 2 delle 5 brigate in viaggio per Baghdad: “Quei soldati servono tutti, adesso”. Anche Bill Kristol critica la decisione di affidare la prima fase del nuovo piano al generale uscente Bob Casey, visto che David Petraeus non è stato ancora nominato.
Sempre dal FOGLIO, un articolo di Daniele Raineri sulle operazioni per fermare le infiltrazioni terroristiche promosse da Iran e Siria in Iraq: Roma. Se non ti preoccupi di che cosa fanno Siria e Iran sul campo iracheno, inevitabilmente saranno loro a occuparsi di te. Venerdì scorso il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, ha dichiarato al New York Times che da diversi mesi il presidente Bush ha ordinato una vasta offensiva contro i network di agenti e di militari iraniani che si sono infiltrati in Iraq. Rice l’ha definita un’operazione difensiva, per proteggere dagli attacchi le forze della Coalizione. Non è una definizione azzardata, e certamente non è una mossa prematura. E’ almeno da due anni che gli americani osservano, grazie alle ricognizioni, il va e vieni quotidiano di almeno un centinaio di nemici attraverso il confine siriano. Vengono per combattere e quando è necessario riparano nelle piccole basi al di là del confine, per fare rifornimento di armi e munizioni, per riorganizzarsi, addestrarsi e in qualche caso per consegnare i cadaveri dei jihadisti alle famiglie. Secondo un rapporto saudita, in Iraq è ormai presente e attiva una quinta colonna di iraniani di circa cinquemila uomini, che sono scivolati in territorio iracheno mescolati alle migliaia di pellegrini sciiti che ogni giorno entrano nel paese dal confine orientale. Contando che il contingente britannico è ora di circa settemila uomini e che il ministro degli Esteri inglese, Margaret Beckett, ha già annunciato che in primavera potrebbe diminuire di tremila uomini, oggi il secondo contingente militare in Iraq è quello di Teheran. Ma lavora in clandestinità e ha l’obiettivo opposto alla Coalizione: affondare il paese nel caos e nella violenza. E’ almeno dalla primavera del 2005 che i militari americani hanno visto un balzo inequivocabile nella tecnologia mortale usata contro di loro. C’è la mano di istruttori preparati e di genieri appartenenti a eserciti regolari. I “bomb jammer” – i dispositivi che bloccani quei segnali spediti con i cellulari o i radiocomandi per cancelli elettrici che comandano le trappole esplosive – che i soldati americani avevano montato sui loro veicoli e che tanto si erano dimostrati efficaci sono diventati inutili. Il nemico ha cominciato a usare fotocellule e laser, che non soltanto eludono le contromisure elettroniche, ma sincronizzano alla perfezione l’esplosione con il passaggio dei mezzi americani, aumentando le probabilità di morte per chi è a bordo. Nell’agosto 2005 un mezzo corazzato americano è stato aperto come una scatoletta da una singola esplosione. I quattrodici soldati a bordo sono morti sul colpo. Era stata usata una carica cava, capace di convogliare tutta la forza dell’esplosione in un punto ristretto della pancia del veicolo. Non è un’arma da guerriglieri. Porta la firma degli iraniani, che hanno avuto già modo di sperimentarla negli anni Ottanta a fianco di Hezbollah e contro i carri armati israeliani nella valle della Beqaa libanese. Secondo il Wall Street Journal, che ieri citava informazioni fornite da gruppi dell’opposizione interna iraniana con una lunga storia di affidabilità, la maggior parte di questi Ied speciali è contrabbandata dal valico a sud di Shalamche e da quello al centro di Mehran-Badreh, grazie alla complicità di ufficiali iracheni amici del regime di Teheran. Gli americani a caccia degli “operatives” stranieri affronteranno anche la rete di enti di beneficenza e di istituzioni culturali che servono da copertura alle cellule dei terroristi iraniani. La Forza Qods è un reparto delle Guardie rivoluzionarie responsabile della pianificazione ed esecuzione di operazioni all’estero, attentati inclusi, e della raccolta di intelligence, il cui comandante, Chizari, è stato catturato in Iraq il mese scorso. I suoi uomini agiscono sotto le insegne di un immaginario ente per la ricostruzione dei luoghi santi sciiti con base a Najaf e guidato dal mullah iraniano Hamid Hosseini. Se l’aggressione contro di loro continua, i militari americani potrebbero non escludere più di inseguire gli iraniani anche al di là del confine e di colpire i jihadisti anche in Siria. Non pensano a un attacco militare in grande stile. Piuttosto a incursioni con i droni e con le forze speciali, quando sarà necessario per proteggere le vite americane e gli sforzi del governo iracheno.
Ampi stralci dell’intervista televisiva che il vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, ha rilasciato domenica a Chris Wallace del canale americano Fox News.
Chris Wallace: “Iniziamo con il discorso che il presidente ha fatto questa settimana, in cui ha detto che l’esercito americano in Iraq – e voglio sottolineare queste parole – è impegnato in una lotta che determinerà – questo è proprio il termine che ha usato – ‘determinerà’ la direzione della guerra globale al terrore e la nostra sicurezza qui in patria. Se lei e il presidente ci credete veramente, allora perché non mandare semplicemente altri soldati in Iraq e perché dipendere dall’esercito e dal governo iracheno che ci hanno delusi più e più volte; perché non dire che questa è una guerra degli Stati Uniti e che faremo di tutto per vincerla?”. Cheney: “Beh, in realtà è proprio quello che abbiamo detto. E stiamo per aggiungere le forze che riteniamo siano necessarie allo scopo. E’ una decisione presa in base al consiglio dei migliori esperti militari che potessimo trovare. Non può essere solo un affare americano, nel senso che alla fine gli iracheni devono diventare loro stessi capaci di difendere e governare il proprio stato. Questo è sempre stato il nostro obiettivo finale, e ciò non è cambiato, ma è emerso chiaramente, sulla base dei fatti più recenti, che quel popolo ha bisogno di aiuto e che noi possiamo fornirgli quell’aiuto incrementando le nostre forze nel futuro immediato e collaborando con gli iracheni. E naturalmente gli iracheni saranno insieme a noi, lavoreranno insieme a noi. Non è un’impresa esclusivamente statunitense. Il punto è sempre stato cercare l’equilibrio tra una giusta quantità di forze e leadership americane e l’attuazione del processo di transizione, di passaggio del potere e della responsabilità agli iracheni. Siamo ancora molto coinvolti nella realizzazione di questo processo. Ma a questo punto è stato chiaramente detto, a giudizio tanto degli iracheni che degli Stati Uniti, che dobbiamo fare di più per dare una svolta alla situazione a Baghdad”. Wallace: “Ma, per ripetere la mia domanda iniziale, alla fine gli Stati Uniti faranno tutto quello che è necessario per vincere?”. Cheney: “Credo di sì. Se si pensa al conflitto che è in atto e ci ricordiamo che l’Iraq è solo una parte di una guerra più vasta che, in effetti, è una guerra globale che va dal Pakistan fino al nord Africa; e noi ci siamo impegnati in Pakistan, ci siamo impegnati in Afghanistan, chiaramente stiamo collaborando strettamente con i sauditi, con gli stati del Golfo, con gli egiziani, e siamo intervenuti – intendo dire aggressivamente dopo l’11 settembre – ci siamo messi a cercare gli stati che sponsorizzavano il terrorismo, ci siamo messi a cercare i paradisi dei terroristi, dove si addestrano e si armano e pianificano e operano per colpire gli Stati Uniti. E adesso abbiamo gente come Karzai in Afghanistan e Musharraf in Pakistan che sono grandi alleati, che mettono in pericolo la propria vita in prima linea ogni singolo giorno che vanno al lavoro, che rischiano attentati. E perché noi possiamo vincere in tutte quelle aree, quella gente deve avere fiducia negli Stati Uniti, deve sapere di poter contare su di noi. Se gli Stati Uniti non avranno la forza di portare a termine il proprio compito in Iraq, significherà che abbiamo messo a rischio tutto quello che abbiamo fatto anche in tutti gli altri posti. Ricordiamoci qual è la strategia di Bin Laden: lui non pensa di batterci in un combattimento regolare, lui pensa di riuscire a costringerci ad andarcene. Lui crede che dopo il Libano nell’83 e la Somalia nel ‘93 gli Stati Uniti non abbiano voglia di un’altra guerra lunga. E l’Iraq attualmente è il campo di battaglia centrale in questa guerra ed è qui che noi dobbiamo vincere. E’ assolutamente essenziale che vinciamo qui e vinceremo qui”. Wallace: “Vicepresidente, perché dovremmo credere che questa volta l’avete pensata giusta?”. Cheney: “Beh, perché se pensiamo a cosa è trapelato in Iraq, Chris (Wallace,l’intervistatore, ndr) in realtà abbiamo fatto dei grandi progressi. Si ricorda a che punto eravamo quattro anni fa? C’era Saddam Hussein al potere, un tizio che aveva dichiarato due guerre, che aveva prodotto e usato armi di distruzione di massa, violato 16 risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che era il principale sponsor del terrorismo, che pagava le famiglie dei kamikaze. Saddam è stato consegnato alla giustizia. Ora è morto. È stato condannato a morte, come tutti sappiamo, poche settimane fa. Il suo governo non c’è più. Ci sono state tre elezioni nazionali in Iraq. C’è una nuova costituzione; c’è un nuovo governo che dura ormai da nove mesi. Ora c’è un sacco di gente che non perde occasione per screditare tutto il sistema. Io penso che sia decisamente troppo presto. Il fatto è che abbiamo fatto tanta strada da quando siamo arrivati in Iraq, ma abbiamo ancora molto da fare. E’ stata più dura e c’è voluto più tempo di quanto ci saremmo aspettati”. Wallace: Il primo ministro iracheno Maliki – penso sia giusto dirlo – ci ha delusi più volte. A metà ottobre ha chiesto all’esercito Usa di liberare un collaboratore di Moqtada al Sadr che era sospettato di aver capeggiato uno squadrone della morte. Il 31 ottobre ci ha chiesto di porre termine a un posto di blocco a Sadr City, dove stavamo cercando un soldato americano che mancava all’appello. Il 30 dicembre ha ignorato le nostre richieste di ritardare l’esecuzione di Saddam Hussein, determinando così un evento che il presidente ha definito poco al di sotto di Abu Ghraib come situazione di imbarazzo per il nostro paese. Domanda: quanto è stato chiaro il Presidente con Maliki al fine di evitare che ci deluda ancora? Cheney: “Siamo stati chiari con lui e penso che Maliki e il governo abbiano capito molto bene che devono passare a un livello superiore e prendersi delle responsabilità, che dobbiamo fissare nuove regole di ingaggio, che non ci saranno interferenze politiche – diciamo – telefonate da parte di funzionari di governo che interferiscono con le legittime attività militari delle forze di sicurezza”. Wallace: “Il presidente ha pronunciato parole dure sull’Iran questa settimana e non è solo retorica. Ha autorizzato l’arresto di alcuni iraniani che hanno creato problemi in Iraq. Ha preso provvedimenti contro le banche iraniane. Avete inviato due portaerei e sistemi per la difesa aerea nella zona. Qual è il messaggio che state inviando all’Iran e fino a dove siete disposti ad arrivare?” Cheney: “Mah, penso che ormai si sappia abbastanza bene che l’Iran sta rimestando nel torbido, per così dire, all’interno dell’Iraq. E il presidente ha risposto a questa situazione, come suggerisce lei stesso. Penso che sia esattamente la cosa giusta da fare. Ma l’Iran rappresenta un problema in senso molto più ampio. Ha cominciato a comportarsi in un modo che ha creato un sacco di tensione in tutta l’area. Se si parla con gli stati del Golfo o con i sauditi o con gli israeliani o con i giordani, tutti sono preoccupati in parte per il comportamento di Ahmadinejad, che è un radicale e sembra essere un uomo con una visione apocalittica del futuro e che pensa anche che sia imminente. Allo stesso tempo, naturalmente, sta anche perseguendo l’acquisizione degli armamenti nucleari. Dunque, l’Iran è in una posizione – proprio a cavallo dello Stretto di Hormuz – dove passa ogni singolo giorno oltre il 20 per cento della fornitura mondiale di petrolio, oltre 18 milioni di barili al giorno. Usano gli Hezbollah come surrogato. E sfruttando la Siria, gli Hezbollah hanno cercato di rovesciare il governo democraticamente eletto in Libano. Attraverso Hamas e il loro sostegno ad Hamas a Gaza stanno interferendo con il processo di pace. Così la minaccia rappresentata dall’Iran sta crescendo. E’ una minaccia multidimensionale e, in effetti, preoccupa tutti nella regione”.
Un articolo di Carlo Panella sulla necessità di un'offensiva a Sadr City:
Roma. E’ stata ovviamente non casuale la coincidenza temporale tra la svolta annunciata dal presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, e l’irruzione nella rappresentanza iraniana a Erbil con l’arresto dei cinque diplomatici. E’ troppo presto per comprendere però se Washington abbia effettivamente la volontà e la capacità di mettere in pratica il monito lanciato da Bush a Damasco e Teheran sulll’Iraq. Sin dalla caduta di Saddam Hussein, infatti, è stato evidente che uno dei punti più deboli dello scenario iracheno era rappresentato dalla permeabilità delle frontiere verso la Siria e verso l’Iran. Perché sia il regime di Damasco sia quello di Teheran avevano tutto l’interesse a trasformare l’Iraq in un paese in preda al caos. Ma quasi nulla si è fatto per obbligare i due paesi a collaborare con il governo di Baghdad, o quantomeno per cessare di lavorare per metterlo in crisi. Subito dopo la caduta di Saddam Hussein, il 3 maggio 2003, il segretario di stato americano Colin Powell volò a Damasco e parlò con Bashar el Assad, ma furono colloqui inutili, perché non accompagnati da nessuna minaccia di ritorsione, come disse, quasi con intenzione di scherno, il ministro degli Esteri siriano Farouk al Sahra: “I colloqui di Powell a Damasco sono stati molto importanti e franchi: hanno toccato vari temi collegati agli sviluppi regionali ma non vi sono stati i moniti che, secondo la stampa, egli avrebbe poi lanciato al rientro in patria”. Da allora in poi, sia Powell sia Condoleezza Rice sia lo stesso presidente Bush hanno spesso alzato la voce contro le responsabilità siro-iraniane nella crisi irachena, ma soltanto verbalmente senza minacciare atti concreti, tranne un Syrian Act che boicotta l’interscambio commerciale, ma con poca efficacia. Dopo la battaglia di Fallujah del 2005, gli ufficiali americani trovarono evidenti prove della complicità siriana, così come le truppe britanniche per tre anni hanno denunciato più volte infiltrazioni di pasdaran a Bassora e hanno spesso combattuto contro gli uomini di Moqtada Sadr, emissario di Teheran. Ma quando Sadr fu costretto alla resa e a restituire il santuario di Najaf occupato dall’ayatollah al Sistani, le truppe americane che l’avevano stretto d’assedio e obbligato alla resa, lo lasciarono poi tornare a Sadr City, indisturbato, con i suoi miliziani. Insufficiente sul piano militare – anche per la difficoltà obiettiva di un controllo efficace delle due frontiere – il contenimento siro-iraniano è stato quasi nullo sul piano politico. Nei confronti di Teheran questa inefficacia è comprensibile, visti i pessimi rapporti e il contemporaneo svolgersi del braccio di ferro sul nucleare. Ma nei confronti di Damasco la posizione di non contrasto è inspiegabile, perché l’unica sua razionalità sarebbe stata quella di non minacciare frontalmente per poter aprire una porta al dialogo, ma Condoleezza Rice né ha avanzato minacce concrete né ha dialogato. Il dipartimento di stato, d’accordo con Chirac, nel 2006, ha addirittura allentato la forte pressione che Assad stava subendo per la decisione della commissione d’inchiesta dell’Onu di mettere sott’accusa suo fratello e suo cognato per l’omicidio del premier libanese Rafiq Hariri. Nel gennaio 2006 il procuratore Detlev Mehlis, che li aveva accusati, è stato sostituito col più accomodante Serge Brammertz e dell’inchiesta non si sa più quasi nulla. Solo se nelle prossime settimane le truppe iraco-americane sferreranno un attacco contro Moqtada a Sadr City, roccaforte iraniana nella capitale, e presidieranno la frontiera con la Siria, la svolta auspicata da Bush si concretizzerà. In caso contrario la crisi si avviterà su sé stessa.
Un'analisi di Carlo Pelanda:
Strano che chi ha commentato, per lo più in modo critico, la cosiddetta “nuova strategia” di George W. Bush per l’Iraq non abbia sospettato che ci sia qualcosina in più della sola azione militare. E’ ovvio che ci sia. E che sia un piano politico ad ampio raggio che riguarda il riordinamento non solo dell’Iraq, ma dell’intera regione. Questa rubrica non lo conosce e se lo conoscesse ne parlerebbe poco per non favorire i nemici dell’occidente. Ma è doveroso avvertire i lettori che il dato di scenario più importante consiste nel fatto che l’Amministrazione Bush abbia oscurato il vero progetto, segnale che gli Stati Uniti d’America questa volta faranno sul serio. Va premesso che il governo non ha voluto sviare la stampa, cosa impensabile in America, ma ha usato l’accordo fatto nel 2001: “Quello che vi diremo sarà vero, ma non vi diremo tutto”. Del piano è stata comunicata la parte militare, perché è la meno nascondibile, tutto il resto, la sostanza politica, è rimasto segreto. Cosa? Un indizio è evidente. Oltre al cambio della conduzione militare delle operazioni in Iraq sono state spostate decine di persone nei posti chiave a Washington. Per esempio, l’anomalia di mettere un numero uno come John Negroponte nella posizione di secondo di Condoleezza Rice. Forse qualcuno l’avrà percepita come rimozione dal difficile ruolo di zar dell’intelligence. Ma più probabilmente è un rafforzamento della capacità di attuare una politica estera molto incisiva e riservata. Che a naso potrebbe essere: ingaggiare di più l’Arabia Saudita sia nel rassicurare i sunniti iracheni sia nel contenimento dell’Iran e nella riduzione della sua influenza sulla Siria, su Hezbollah e su Hamas; destabilizzare in modo morbido il regime iraniano con azioni selettive inavvertibili; convincere Israele ad avere pazienza; fare un contratto pragmatico con la Siria; rafforzare l’asse con Berlino per non avere l’Europa contro. Sul piano iracheno interno, in accordo con Ali al Sistani, capo della maggioranza sciita antiiraniana, garantire un compromesso pacificatore di spartizione delle risorse petrolifere tra curdi, sciiti e sunniti eccetera. Non si sa bene se sia questo, altro, o di più. Ma probabilmente l’intenzione strategica è quella di far vincere l’America non solo in Iraq, ma di renderla potere di riferimento diretto per tutti (alla fine anche per gli iraniani) nel teatro mediorientale. Che è la vera condizione di vittoria di tutta l’iniziativa concepita alla fine del 2001. Parleranno i fatti, a consuntivo, nel 2008. Nel frattempo, nel piccolo giardino di casa nostra, è divertente annotare che Massimo D’Alema ha motivi personali per le esternazioni antiamericane: non gli hanno mai detto alcunché. Cara Marta, ci spiace: è out.
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