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La Stampa Rassegna Stampa
15.01.2007 Antiamericana e antisraeliana
la politica estera italiana al tempo di Prodi e D'Alema

Testata: La Stampa
Data: 15 gennaio 2007
Pagina: 2
Autore: Giacomo Galeazzi - Maurizio Molinari
Titolo: «Sì, l'Italia si allinea al fronte anti-Israele che vinve nella Ue -A dividere è la Somalia»

Il leader dell'opposizione italiana Silvio Berlusconi ha accusato il governo Prodi di condurre una politca antiamericana.
La STAMPA del 15 gennaio 2007 pubblica un'intervista di Giancarlo Galeazzi al rabbino capo di Roma di Riccardo Di Segni, dove si allarga il campo a un'altra grave questione: la posizione antisraeliana del ministro degli Esteri Massimo D'Alema e della maggioranza di governo.
Ecco il testo:

 
Antiamericano ma non solo. L’altro fronte sul quale in questi primi mesi di governo Massimo D'Alema ha incontrato notevoli difficoltà sono i rapporti con la comunità ebraica. Il 23 gennaio il ministro degli Esteri è stato invitato dall'assessore alla cultura della comunità ebraica romana, Luca Zevi per un dibattito sul «Problema Israele». Un invito che ha diviso gli ebrei di Roma, come testimoniano le preoccupazioni della loro guida spirituale, il rabbino capo Riccardo Di Segni.
Cosa viene rimproverato a D'Alema?
«Il problema non è D'Alema, è più vasto. Con il precedente governo c'era stato un decisivo miglioramento della politica italiana nei confronti di Israele. Mutata la compagine governativa, questo miglioramento è svanito. Ed è riemersa una vecchia vena».
Quale?
«Su Israele la sinistra non si presenta con un unico volto. Esiste una sinistra tradizionalmente filopalestinese e un’altra più riflessiva nei confronti di Israele. Il risultato di queste due tendenze contrapposte è una politica estera altalenante, che varia a seconda di come viene tirata la corda. Un problema di mentalità che risale a quarant'anni fa, quando da Mosca arrivò l'ordine di considerare Israele un nemico, dopo che nel dopoguerra era considerato uno stato socialista».
Con quali effetti?
«Il tradimento anti-israeliano ha spinto a destra gli ebrei, che in stragrande maggioranza votavano a sinistra. Di fronte alle critiche di D'Alema ad Israele non ci sono state tanto crisi di coscienza o meraviglia nella comunità quanto piuttosto indignazione. La passeggiata a Beirut a braccetto del deputato di Hezbollah, Hussein Haji Hassan può essere stato un gesto incauto, una disattenzione. Non così altre uscite».
Cioè?
«Le sue dichiarazioni sulle lobbies ebraiche e sulle colpe dello Stato d'Israele. Alla comunità è parso un tentativo inopportuno di portare in Italia il dibattito in corso in America sull'incidenza delle varie correnti di pensiero. Un po' come accaduto per il libro di Carter. Ma la questione delle lobbies se la si riporta nella situazione italiana è fuorviante. E gli ebrei italiani si sono indignati per il tentativo presuntuoso di D'Alema di criminalizzare il dissenso. Parlando con gli altri rabbini europei ho avuto l'impressione che la politica italiana, dopo l'isolata eccezione del governo Berlusconi, si sia allineata a un panorama continentale ostile verso Israele. Certo non c'è solo D'Alema, restano canali di comunicazione, come dimostrano i baci e gli abbracci tra Prodi e Olmert nella recente visita a Roma».

Maurizio Molinari riporta le opinioni di  analisti americani:

Il duello verbale fra Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema sui legami fra Italia e Usa attira l’attenzione degli analisti di Washington, le cui reazioni sono diverse in tutto tranne nell’espressione di un comune e forte disappunto per le critiche rivolte da Roma ai recenti blitz condotti in Somalia dall’Us Air Force contro Al Qaeda.
A sposare la tesi di una seria crisi nei rapporti bilaterali è Robert Kaplan, analista militare del magazine «Atlantic Monthly»" ed autore del best seller «Imperial Grunts» sulle forze armate americane, secondo il quale «le critiche italiane rivolte ai blitz in Somalia e l’opposizione all’allargamento della base di Vicenza sono due posizioni destinate a creare attriti anche con il presidente che verrà dopo George W. Bush perché si tratterà di un democratico o di un repubblicano moderato, che su questi temi non avrà opinioni differenti». Le conseguenze delle parole di Prodi e D’Alema potrebbero essere numerose: «L’Italia da un lato si schiera fra i Paesi contrari alle operazioni limitate anti-Al Qaeda sul territorio di una sua ex colonia e dall’altro - aggiunge Kaplan - favorisce chi dentro il Pentagono punta a smantellare le grandi basi europee ereditate dalla Guerra Fredda per sostituirle con avamposti più leggeri in nazioni dell’Africa o dell’Asia Centrale».
Alla base di «un raffreddamento di rapporti che indebolisce la voce dell’Italia a Washington» per l’analista di «Atlantic Monthly», considerato uno dei maggiori conoscitori del Pentagono, c’è «il fatto che Roma è diventata una di quelle capitali europee che chiedono sicurezza alla Nato ma non sono disposte ad inviare i propri soldati a rischiare la morte in zone di guerra al terrorismo come l’Afghanistan».
Diverso l’approccio di Charlie Kupchan, capo degli Studi europei al «Council on Foreign Relations» di Washington, secondo cui «con il governo Prodi l’Italia non è diventata antiamericana ma anzi ha compiuto scelte, come l’invio dei soldati in Libano durante l’estate, in forte intesa con Washington». Se emergono più dissensi rispetto al passato è «perchè Prodi è stato eletto su una piattaforma diversa, soprattutto sull’Iraq, rispetto a quella di Berlusconi, e dunque ora i disaccordi con la Casa Bianca divengono palesi». Il possibile blocco dei lavori alla base di Vincenza è considerato da Kupchan «un risultato delle limitazioni imposte a Prodi dalla sua base elettorale» ed anche «frutto di un’opposizione popolare forse dovuta a cause locali che poco hanno a che vedere con l’antiamericanismo». Sulla Somalia anche Kupchan però prende le distanze dalle critiche italiane all’unilateralismo americano: «Non hanno molte giustificazioni, viviamo in un mondo pericoloso, se nei campi colpiti si trovavano gruppi di terroristi non c’era certo tempo per andare all’Onu e chiedere un voto formale per attaccare».
Anche Daniel Pipes, direttore del Forum sul Medio Oriente, non è convinto dalla definizione di «antiamericanismo» per il governo Prodi ma ciò non toglie che ne critichi le recenti decisioni: «Quanto avvenuto sulla Somalia e sul caso-Vicenza dimostra che l’Italia si sta allontanando dall’amicizia con l’America che c’era nel periodo di Silvio Berlusconi ma senza tuttavia dimostrare l’ostilità che è invece presente nelle posizioni assunte dai governi francese e spagnolo». «Mi fa molto piacere se i leader di destra e sinistra litigano in Italia su chi è più amico dell’America», taglia corto Michael Novak, politologo del centro studi neoconservatore American Enterprise Institute di Washington molto ascoltato in Vaticano, spiegando la soddisfazione con il fatto che «conferma quanto i disaccordi fra Italia e Usa assomiglino molto a liti famigliari, dove le persone che si confrontano in realtà hanno molto in comune, basta girare per i nostri Paesi per accorgersi quanto siamo simili». Per Charlie Kupchan invece la dura polemica Polo-Ulivo sull’antiamericanismo «riflette il fatto che nell’immaginario degli italiani il legame con gli Stati Uniti conta molto, anche se un politico ha posizioni molto distanti da quelle di Washington in realtà desidera apparire vicino all’America». Anche Novak non perde l’occasione per riferirsi alla Somalia: «L’Italia resta per noi un solido amico ed alleato, con cui i disaccordi sono frequenti, ma criticare i blitz anti-Al Qaeda in Somalia è stato un grave errore perché la guerra al terrorismo ha bisogno del sostegno dell’intera comunità internazionale per poter essere vinta».

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