Passione e tragedia.
La storia degli ebrei russi Riccardo Calimani
Mondatori Euro 20
In copertina nove ritratti: Boris Pasternak, Julij Martov, Il’ja Erenburg, Isaak Babel’, Viktor Adler, Osip Mandel’stam, Otto Bauer, Lev Trockij, Vasilij Grossman.
E’ una sintesi della tormentatissima vicenda degli ebrei russi, e soprattutto sovietici, di cui si occupa il volume di Caimani.
L’autore del Dottor Divago guarda lontano, oltre l’orizzonte, come alla ricerca di una identità personale e collettiva che vada al di là dell’origine etnica, da lui intravista nella fede ortodossa. Il vecchio dagherrotipo mostra Julij Martov come un giovane intellettuale cospiratore, uno dei molti ebrei che sperano nella possibilità liberatoria del marxismo in versione menscevica. Erenburg ha la faccia di chi ne ha passate tante ed è sopravissuto come ha potuto tra proclami di fedeltà al regime e tentativi di smarcamento; Babel’ ha invece il sorriso disarmato di chi vorrebbe raccontare liberamente la vita e le sue contraddizioni, ma viene travolto dall’orrore del troppo sangue versato inutilmente (lo sarà anche il suo). Trockij ti guarda fisso e un po’ minaccioso; ha perduto la sua battaglia politica con Stalin, ma osservandolo ti resta il dubbio se con lui sarebbe andata meglio.
Mandel’stam è impietrito dallo spavento. Grossman ha l’aria sperduta: lui che aveva onestamente cantato il regime sovietico, si era poi accorto di quanto totalitarismo ci fosse in quella ideologia, fino a denunciarne l’esatta specularità col totalitarismo nazista (decretando così la sua esclusione dal novero degli scrittori accettati e pubblicati: il suo capolavoro “Vita e destino” sarà stampato solo vent’anni dopo la sua morte). Sono capitoli di una storia poco nota. Anzitutto nelle sue dimensioni quantitative: basti pensare che all’inizio del Novecento gli ebrei in terra russa erano circa cinque milioni (il cinque per cento della popolazione), che molti di loro furono protagonisti di primo piano della rivoluzione bolscevica (Kamenev, Zinov’ev, Trockij per fare solo alcuni nomi) e non pochi guidarono gli apparati di repressione poliziesca, dai quali poi spesso furono essi stessi schiacciati. Una storia tragica, fatta di lunga emarginazione (sotto gli zar gli ebrei non potevano uscire dal territorio loro assegnato, il “ghetto a cielo aperto” come lo chiama l’autore), di persecuzioni violente (i pogrom che hanno caratterizzato i decenni a cavallo del novecento e prodotto un’ampia emigrazione), di libertà riconquistata con la rivoluzione del febbraio 1917, ma poi sempre minacciata da nuove ondate persecutorie, come il famoso processo dei medici assassini, montato da Stalin nel 1952-53 e risoltosi solo per la morte del dittatore georgiano. Una storia molto complessa, ricca di dibattiti teorici (socialdemocratici, menscevichi, bolscevichi e sionisti, stalinisti e trockisti e così via), di fulgide personalità letterarie, di inspiegabili contraddizioni (la più acuta: quanto ha pesato l’origine ebraica nelle persecuzioni sovietiche? Attori, scrittori, giornalisti, cineasti ebrei furono eliminati in quanto tali o furono solo alcune delle tante vittime di un potere che falciava tutti i presunti nemici senza badare all’origine etnica? Per di più molti di loro furono anche carnefici, magari prima di diventare vittime). Caimani racconta tutta questa drammatica vicenda con lo stile dei medaglioni, lo stesso della copertina. Non una narrazione continua e unitaria, ma capitoli in fondo a sé stanti (non esenti da qualche ripetizione). Forse non è ancora maturo il tempo di una ricostruzione complessiva. L’ha tentata il grande Solzenicyn nella sua ultima monumentale fatica “Due secoli insieme”, ma in Italia non ha ancora trovato un editore.
Pigi Colognesi
Il Foglio