Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Profezia di sventura l'analisi di Martin Van Creveld sulla guerra in Iraq
Testata: Corriere della Sera Data: 12 gennaio 2007 Pagina: 49 Autore: Martin Van Creveld Titolo: «Alla fine le truppe di Bush dovranno ritirarsi»
Dal CORRIERE della SERA del 12 gennaio 2007:
Due mesi dopo le elezioni per il Congresso, Repubblicani e Democratici stanno disponendosi per il prossimo round. I Repubblicani, guidati (ancora) da Bush, vogliono ottenere una «vittoria» in Iraq perché la faccenda sia sistemata quando la gente tornerà a votare. I Democratici, senza qualcuno in particolare che li guidi, vorrebbero che la guerra si concludesse in modi e tempi tali da mettere i Repubblicani nella peggior luce possibile. Quasi certamente, però, non seguiranno la proposta del senatore Kennedy, e di pochi altri, di tagliare i finanziamenti alla guerra e riportare a casa le truppe. Sotto questo aspetto, se non altro, l'Iraq non è il Vietnam. Per quanto gli americani critichino la politica di Bush, a differenza di quarant'anni fa si sentono in dovere di «appoggiare le truppe». In questo caso Bush ha il genere di opposizione che si potrebbe augurare. A pagare il prezzo di questa prova di forza sono le Forze armate statunitensi. Nel 2003 impiegarono solo tre settimane a prendere Baghdad: non fu difficile, perché si trattò di sbaragliare un avversario modesto, che era già stato travolto in precedenza. Ma con 130.000 uomini nel Paese, i militari si sono trovati rapidamente invischiati in una guerriglia che non potevano vincere. Né ci sono molte probabilità che possano vincere in futuro, come insegna l'esperienza in questo tipo di guerre dal 1945 in poi. I presupposti del mancato successo americano sono, ormai, ben noti. Dal punto di vista geografico l'Iraq non è un Paese di piccole dimensioni. Ha una popolazione numerosa, vaste zone con territori complessi, in cui è difficile combattere, e lunghe frontiere che non possono essere rigidamente controllate: Clausewitz lo definirebbe un ambiente perfetto per la guerriglia. Se si aggiunge la gran quantità di armi e la disponibilità praticamente infinita di uomini addestrati a usarle — un'eredità del regime di Saddam — ne risulta una miscela invincibile. A peggiorare le cose, per ogni americano che parla l'arabo vi sono migliaia di iracheni che sanno almeno un po' di inglese. Ed è noto quanto l'informazione, in guerra, sia importante! Secondo il generale David Petraeus, che Bush ha da poco nominato comandante in Iraq, per battere una insurrezione è necessario avere almeno un soldato ogni venti abitanti. Il problema è che Baghdad, da sola, ha sei milioni di persone, e l'intero Iraq ne ha quattro volte tanto. Inviando altri 20.000 uomini si sarà ancora ben lontani da quella proporzione. Servirà solo a spremere l'esercito, i marines e la Guardia nazionale ancor più di quanto sia già avvenuto. Né c'è alcuna probabilità, come sembra sperare Bush, che gli iracheni compensino la differenza. Alla luce del loro passato comportamento sul campo, si è detto tutto il male possibile — e a ragione — degli eserciti e delle forze di polizia arabi. Nell'arte di reprimere le loro popolazioni sono, però, senza eguali, come mostra la lunga stabilità dei regimi dittatoriali di Hosni Mubarak, Muammar Gheddafi, Bashir Assad e, fino a che non è stato rovesciato, di Saddam Hussein. Quanto a reprimere insurrezioni, a paragone dei loro emuli, gli americani sono quasi sempre dei pivelli appena svezzati. Per di più, l'esercito e la polizia iracheni ricostituiti sono spaccati da divisioni interne. Non si può pensare che i soldati sunniti combattano i sunniti o quelli sciiti gli sciiti. E mentre sia sunniti che sciiti non avranno problemi a massacrarsi a vicenda, non saranno, però, disposti a morire per gli americani, né si vede perché debbano farlo, dato che la maggior parte degli iracheni vuole che gli americani se ne vadano. In ogni caso, molte unità irachene di esercito e polizia esistono solo sulla carta. Assai spesso i loro uomini disertano, portando con sé armi e addestramento. Né c'è, infine, alcuna possibilità che i vicini dell'Iraq, in particolare Siria e Iran, tolgano le castagne dal fuoco all'America, come proponeva la commissione Baker. Forse a Damasco Assad sarebbe disposto a dare una mano (ovviamente ottenendo qualcosa in cambio), ma il Paese che governa è troppo piccolo e debole per avere un'influenza apprezzabile sugli eventi. Ahmadinejad a Teheran potrebbe essere d'aiuto, ma disputando con lui sulle armi nucleari e su quasi tutto il resto, Bush non gli dà alcun motivo per farlo. Queste idee sono solo bolle di sapone. Qualcuna è già scoppiata, altre seguiranno di sicuro la stessa sorte. In sintesi, inviando altre truppe in Iraq, Bush spera di trarre in salvo il partito repubblicano, sfruttando abilmente l'esitazione e la debolezza dei Democratici. Sta però anche gettando molto denaro — per quanto valore possano ancora avere i dollari — in una cattiva impresa. Nonostante l'innegabile determinazione e capacità del generale Petraeus, non vi è dubbio su come finirà la guerra: le truppe statunitensi si ritireranno dall'Iraq e si ridisporranno in Kuwait, in uno degli Stati del Golfo, forse anche in Giordania. E prima lo faranno, meno perdite subiranno. (Traduzione di Maria Sepa) 5 Global Viewpoint
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