martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
12.01.2007 Perché quella irachena non sia una vittoria perduta
il discorso di George W. Bush, le reazioni in Iraq e negli Usa, le analisi di Toni Capuozzo e Amir Taheri

Testata: Il Foglio
Data: 12 gennaio 2007
Pagina: 1
Autore: la redazione - Giulio Meotti - George W. Bush
Titolo: «Il Fronte interno - Voci da Baghdad - Sul campo - Ottimismo - Via le bande da Baghdad»

Dal FOGLIO del 12 gennaio 2006 l'articolo "Il Fronte interno", sulle difficoltà che la svolta irachena di George W. Bush incontrerà al congresso.

Milano. Ora che c’è il nuovo piano per l’Iraq e i primi rinforzi sono già partiti per Baghdad, George W. Bush e la sua amministrazione sono impegnati nella difficile operazione di convincere l’opinione pubblica americana. Ieri Condoleezza Rice e Bob Gates, cioè i capi della diplomazia e dell’esercito americani, sono andati a Capitol Hill, sede del Congresso, ma anche in televisione, a spiegare le novità della strategia irachena annunciata mercoledì sera da George W. Bush. Gates, inoltre, ieri ha annunciato un piano per ampliare di 92 mila uomini la forza complessiva dell’esercito americano (65 mila soldati, 27 mila marines).
I più scettici, ovviamente, sono i democratici, nel cui caucus si trova soltanto un sostenitore convinto del piano Bush: il senatore Joe Lieberman. Divisi anche i repubblicani, i quali dovranno fare i conti con almeno sei senatori (su 49) contrari al rilancio dell’impegno americano in Iraq. Tra costoro ci sono il veterano del Vietnam Chuck Hagel, sodale di Colin Powell e avversario della dottrina Bush fin dal primo giorno, e un paio di senatori che l’anno prossimo si giocano la rielezione in stati liberal o divisi a metà, ma anche il campione della destra religiosa, Sam Brownback, candidato evangelico alla Casa Bianca 2008.
Il discorso di Bush ha costretto i candidati presidenziali dei due partiti a schierarsi: i due front runners repubblicani, ma anche il numero 3, cioè John McCain, Rudy Giuliani e Mitt Romney, hanno accolto calorosamente il discorso di Bush (ma McCain si chiede se il numero delle truppe sia sufficiente). Tra i democratici la situazione è più fluida: sono tutti contrari alle proposte di Bush, ma soltanto i due candidati più di sinistra, John Kerry e John Edwards, propongono di bloccare al Congresso il finanziamento della nuova missione, così come indicato dal senatore Ted Kennedy. I due favoriti, Hillary Clinton e Barack Obama, ma anche il senatore Joe Biden, sono molto più cauti e si limitano a esternare la loro contrarietà, senza però fare le barricate. Questa, in sintesi, è la posizione anche dei leader democratici al Senato e alla Camera, anche se alla House la fronda radicale è meno disposta a votare una semplice risoluzione senza alcun effetto vincolante. Tra l’altro l’ipotesi di votare no soltanto all’invio dei nuovi 21.500 soldati, mantenendo i finanziamenti alle truppe già presenti in Iraq, non tiene conto che prima che Bush invii al Congresso le richieste economiche e che i deputati esaminino la questione i nuovi soldati saranno già tutti impegnati in battaglia a Baghdad.
In generale i democratici più responsabili sembrano non essere in grado di individuare una strategia alternativa a quella di Bush, perché consapevoli che sia il ritiro immediato sia un ordinato ridimensionamento della missione sarebbero piani di attenuazione degli effetti di una sconfitta, non proposte per tentare di vincere. Tra l’altro dovessero riuscire nell’impresa di fermare Bush, sarebbero immediatamente co-responsabili della sconfitta militare con effetti negativi sulle elezioni del 2008. Ecco perché Ted Kennedy ha detto che i democratici avrebbero bisogno di un vero leader che non sia impegnato nella corsa alla Casa Bianca.

Il rigetto della linea Baker-Hamilton
Ma al di là del numero delle truppe e delle nuove regole d’ingaggio, il piano di Bush sembra decisamente più aggressivo nei confronti delle potenze regionali che sono alla base del caos iracheno, l’Iran e la Siria, rigettando così anche ufficialmente il principale suggerimento della Commissione Baker. Bush ha detto di aver inviato altre forze navali nella regione e ha spiegato che fermerà le iniziative iraniane a favore dei terroristi e contro le forze americane. Ieri, a Erbil, le truppe americane hanno arrestato sei agenti iraniani, mentre Condi Rice - rifiutandosi di escludere l’opzione militare – ha avvertito Teheran che le interferenze iraniane in Iraq “non saranno tollerate”.
L’analisi dell’esperto militare del New York Times, Michael Gordon, spiega che le possibilità di successo del piano Bush dipendono dalla reale volontà del governo iracheno guidato da Maliki di porre fine alla guerra settaria, un’ipotesi a cui non crede l’editorialista neoconservatore del Times, David Brooks. Altre volte tentativi simili sono falliti, ma secondo Gordon erano mal finanziati e avevano pochi uomini a disposizione. Col nuovo piano, a Baghdad ci saranno 29 mila americani, invece di 15 mila, e 20 mila soldati iracheni, invece di 9.600.

Di seguito, "Voci da Baghad", sulle reazioni irachene al piano:

Roma. Poche ore prima del discorso di George W. Bush il premier iracheno, Nouri al Maliki, ha annunciato la decisione di sciogliere le milizie sciite di Moqtada Sadr e di trattarle come quelle dei terroristi sunniti. Anche i partiti sciiti – soprattutto il Dawa, dello stesso al Maliki – hanno dovuto prendere atto della volontà americana, sinora ostacolata, di rottura con Sadr e con i suoi mandanti iraniani. Tanto che ieri mattina un blitz delle forze statunitensi nel nord del paese, in Iraq, ha colpito proprio sei funzionari di Teheran (in visita e senza passaporto diplomatico), arrestati perché sospettati di organizzare attività “contro gli iracheni e le forze della coalizione”. Le autorità curde si sono lamentate, ma da qualche settimana le operazioni mirate contro gli iraniani si sono intensificate, come dimostrano i fermi della settimana dopo Natale.
Baghdad ha dovuto prendere atto della decisione americana di andare all’attacco dei terminali terroristi siro-iraniani in Iraq e quindi riformulare la linea di temporeggiamento seguita negli ultimi mesi. Questa strategia ha permesso, infatti, a Moqtada di sviluppare in pieno la sua azione, sino ai limiti della guerra civile interreligiosa. Il consigliere di Maliki, Bassan Ridha, ha commentato che la nuova strategia americana è “foriera di speranze” per l’Iraq. Il leader dello Sciri, Abdul Aziz al Hakim – che a dicembre si era recato a Washington e aveva chiesto a Bush di non ritirare le sue truppe – ieri ha dichiarato: “Il governo deve avere il pugno di ferro contro coloro che mettono a rischio la sicurezza della popolazione”. Anche questa è una dichiarazione di scontro diretto nei confronti del leader radicale Moqtada. Anche i sunniti hanno manifestato la volontà di essere coinvolti nel nuovo percorso strategico, impegnandosi a fare quello che non hanno fatto finora, o non con determinazione, cioè emarginare e combattere le frange estremiste. Ayad al Samaray, portavoce del Partito islamico, ha detto: “Condividiamo il bisogno di impegnare temporaneamente nuove truppe americane in Iraq a causa del degrado della sicurezza ormai imperante e dell’incapacità verificata delle forze oggi dispiegate di controllare la situazione. In tutte le zone in cui la gestione della sicurezza è stata trasferita alle forze irachene, la situazione si è deteriorata”. Le forze sunnite hanno compreso che le linee tracciate da Bush significano la fine delle pressioni diplomatiche su Damasco e Teheran e degli appelli alla ragionevolezza ai partiti sciiti e che – sul terreno iracheno – la svolta si concretizza con un’inedita alleanza di interessi tra Washington e i partiti sunniti democratici. Non a caso, Iran e Siria hanno reagito con veemenza contro il piano di Bush.

Nelle strade di Sadr City
Contenimento frontale delle milizie di Moqtada Sadr, eliminazione dei “santuari” iraniani che operano in Iraq introducendo pasdaran combattenti, armi e denaro e pattugliamento della frontiera con la Siria. Queste sono le tre direttrici sul terreno della “linea Bush”, che è stata recepita dalle forze politiche irachene. Ora è necessario vedere se la volontà del governo di Baghdad si trasformerà anche in fatti. Maliki ha nominato il generale sciita Aboud Gamba per guidare i soldati per le vie di Sadr City a dare la caccia ai miliziani. Ma molti – come anche David Brooks sul New York Times – si chiedono se il premier non finirà, come ha già fatto annunciando il suo piano di sicurezza a fine novembre, col chiedere potere incondizionato alla sua fazione politica riservando alle forze americane la funzione esclusiva di protezione. Soltanto due settimane fa, infatti, Maliki ha permesso – in contrasto con la stessa Amministrazione americana – che l’esecuzione del rais Saddam Hussein avvenisse al grido di “Viva Moqtada al Sadr”.


"Sul campo", presenta l'analisi di Toni Capuozzo:

Roma. Ora l’unico strumento adeguato è l’uso della forza”. Toni Capuozzo non ha mai visto le situazioni risolversi da sole. Nel suo lavoro di inviato all’estero ha messo i piedi in territori dove la guerre sono state lasciate a metà, come temporali sospesi nell’aria e pronti a scatenarsi di nuovo con violenza indicibile. Capuozzo è stato in paesi del sud America dove guerre mai dichiarate ufficialmente sono tralignate in guerriglie senza soluzione, e dove è nata quell’espressione “squadroni della morte” che ora è risalita come una maledizione sugli sciiti e i sunniti chiusi tra le strade e i quartieri di Baghdad. E’ stato nell’ex Jugoslavia, dove ha visto di persona gli effetti della pulizia etnica, un altro degli orrori arrivati tra la gente irachena, e ha visto che fine fanno i deboli quando si sceglie la non-strategia del temporeggiamento. “Basta guardare che cosa è successo nei Balcani. E’ una guerra incompiuta, con il bel risultato che oggi la Bosnia è uno stato fantasma e il Kosovo è una specie di mostro giuridico. Con il risultato che anche se Slobodan Milosevic è morto in carcere (senza che ancora si fosse arrivati a una condanna) gli altri criminali di guerra come Karazdic sono ancora felicemente al largo. Sono guerre restate a metà, come pure è successo sull’isola di Timor nel sud est asiatico, perché oggi nessuno tranne l’America ha più la forza necessaria a farle. Tutti puntiamo su operazioni di polizia internazionale. Veloci, pulite, limpide. Ma condurre una guerra fino in fondo vuol dire sopportare i rovesci, accettare i fallimenti e tenere fissa la rotta. E’ insomma fare la guerra”.
Capuozzo lega quello che ha visto nelle altre zone di guerra con i recenti viaggi in Iraq. Dice che è evidente che sarà necessario usare la mano dura per riconquistare il controllo del paese e per rimetterlo in piedi. Per questo capisce la mossa annunciata ieri dall’amministrazione Bush, l’invio di rinforzi per permettere agli uomini già presenti di affrontare e finire, insieme con l’esercito governativo iracheno, il loro lavoro. Ma, dice anche, questa volta sarà necessario fare un paio di passi indietro rispetto all’idealismo del 2003. “Se vuoi essere pragmatico oggi devi avere il coraggio di smentirti da solo. Questo vuol dire sospendere le molte libertà civili che hai portato, cancellare molti diritti e rimettere di nuovo nell’incubatrice la costituzione irachena. Pensare ancora che a Baghdad si possa riuscire con strumenti di confronto democratici, il dialogo, i tavoli politici… allora è meglio dire ‘abbiamo fallito e torniamocene a casa’. Che è quello che dovremmo dire se dovessimo rinunciare adesso”.
Continua Capuozzo. “Paradossalmente, l’Iraq ha qualche possibilità di salvarsi se il premier, Nouri al Maliki, riuscirà a trasformarsi in una specie di nuovo Saddam. Non a caso oggi ci sono molti iracheni che dicono ‘ci vorrebbe un Saddam senza Saddam’. Non pensano ovviamente a un altro dittatore sanguinario, pensano piuttosto a un leader che tagli finalmente dritto attraverso la nube degli interessi che lo circondano e che si mostri capace dell’esercizio adeguato della forza. Quindi benvengano i rinforzi, e più marine americani ad appoggiarlo. Secondo i rumours che mi arrivano, l’ayatollah al Sistani, guida religiosa degli sciiti iracheni che si oppone all’influenza iraniana, non vede altra strada che la linea dura”.
“Ecco – continua Capuozzo – quella di al Maliki, se troverà o no la forza per imporsi, è la grande incognita. L’inizio non è stato incoraggiante. Maliki è il figlio di una selezione all’incontrario, è arrivato per assenza di qualità. Ci sono altri politici che potrebbero prendere il suo posto, ma tutti hanno contro i pregiudizi e l’ostilità di quella o di quell’altra parte. Quello che è certo, invece, è che non possiamo pensare in Iraq a un esercizio della democrazia così come lo intendiamo noi. Noi che ci schifiamo persino di fronte a un processo come quello contro Saddam e a una sentenza capitale come quella di Saddam. Sarà difficile prevalere se restiamo attaccati all’idea della democrazia in guanti bianchi: laggiù è come la gabbia di topi dell’esperimento, sono diventati aggressivi e si azzuffano gli uni con gli altri”. Capuozzo invece ha visto le pattuglie del nuovo esercito di Baghdad, pattuglie miste, interconfessionali, composte da sunniti e sciiti assieme. Incontrarle prova che in questo momento la cosa più importante non è l’esercizio composito della democrazia, ma che conta invece moltissimo il bastone del comando. “L’esercito funziona, quando funziona, perché tra i militari c’è una disciplina più forte e un senso nazionale più accentuato, e perché sentono con maggior forza sopra di loro la presenza ineludibile dell’autorità. Che in fondo è la stessa cosa che da tempo aspettano invano gli iracheni. In Iraq, impegnati come si era nella guerra alta al terrorismo, si è sottovalutato il problema basso della sicurezza quotidiana. Ci sono molti sequestri, ruberie indisturbate, la vita della gente è totalmente insicura. Un po’ come è successo ai somali che hanno chinato il capo davanti alle milizie delle Corti islamiche, che sono state capaci di ripristinare il codice della strada e hanno levato di mezzo i posti di blocco dei signori della guerra: la gente accetterebbe di buon grado il pugno di ferro se questo significasse dire una maggiore sicurezza. Da quello, poi, seguirebbero gli atteggiamenti dei singoli”. “L’era Saddam, se ha avuto un lascito positivo, è il senso di identità nazionale. Come spesso succede con le dittature, funzionano le scuole, i treni e il senso patrio. Quando s’è scoperchiato il vaso di Pandora – distruggendo l’esercito che era l’istituzione forte del paese e buttando alle ortiche questo senso di identità nazionale, una delle poche eredità accettabili – eliminando la dittatura feroce e sanguinaria si sono liberati tutti i fantasmi repressi. E’ ovvio che se per decenni vieti le processioni poi tutti vanno alle processioni assatanati…” Il problema di noi occidentali, spiega ancora l’inviato del Tg5 e nostro columnist, non è soltanto che in Iraq siamo rimasti attaccati all’idea di una democrazia a tutto tondo, e niente di meno – “è l’inguaribile ottimismo degli americani, per loro la democrazia è un toccasana sempre e comunque digeribile, come un hamburger”– è anche la sottovalutazione costante del nemico. “Il fatto è che il terrorismo paga. Il terrorismo funziona. Se fai un grande attentato alla moschea di Samarra, gli altri risponderanno, non tutti ma in misura sufficiente a innescare il meccanismo di una guerra civile. E una volta innescati quelli, anche lì i Balcani insegnano, è difficile tornare indietro. Ci sembra sempre che tutto inizi e finisca con George Bush e in realtà lì c’è un nemico che tu combatti e che pure ha messo a segno dei colpi ottimi e ha una strategia efficace per quanto rozza, rudimentale e ovviamente sanguinaria”. Ma, ancor più del terrorismo, il problema centrale è la corruzione. Se oggi la produzione di petrolio tornasse anche soltanto ai livelli del periodo dell’embargo, non a quelli di prima, si potrebbero redistribuire quasi 30 mila dollari ogni anno a ciascun cittadino iracheno coi profitti. E’ ovvio che, tolti pochi fanatici, 30 mila dollari comprano la quiete di chiunque”. (d.r.)

"Ottimismo", quella di Amir Taheri:

Roma. Esule iraniano a Londra, editorialista per il New York Post, il londinese Times e il Wall Street Journal nonché autore di libri tradotti in venti lingue, fra cui “L’Irak: Le Dessous Des Cartes”, per Amir Taheri tutti gli obiettivi che gli Stati Uniti si erano posti in Iraq sono stati ampiamente raggiunti. “Il nuovo piano di Bush ha innalzato il morale iracheno a livelli sconosciuti per un anno”, ci spiega Taheri, che ha visitato la prima volta l’Iraq nel 1968. “La guerra predeva la creazione di una democrazia. Si doveva accertare che il regime di Saddam non avesse sviluppato armi di distruzione di massa. E se le aveva, distruggerle. E’ stato abbattuto il clan saddamita, il potere consegnato nelle mani del popolo e Saddam alla giustizia. E’ stata scritta una grande costituzione in stile napoleonico e non shariaco e si sono svolte libere elezioni. ‘Iraqi Freedom’ non era un tentativo di imporre la democrazia con la forza, ma di usare la forza per rimuovere gli impedimenti alla democrazia. Bush ha vinto questa guerra. Ora si tratta di tradurla in vittoria geopolitica. La vera guerra sull’Iraq è combattuta negli Stati Uniti”. Il successo angloamericano è stato sequestrato. “Baathisti e jihadisti, panarabisti e panislamisti, khomeinisti e nichilisti vogliono creare caos e morte per persuadere Washington della futilità degli sforzi. Nella Seconda guerra mondiale l’occidente ha sconfitto il nazismo, ma nessuno aveva previsto che l’Unione sovietica avrebbe cambiato i piani nel corso del conflitto. I giapponesi proseguirono nelle azioni di reazione anche dopo la distruzione della macchina da guerra nazista. Ma è stata imposta loro un’occupazione, una costituzione e la democrazia”.
In Iraq finora si è ucciso molto combattendo molto poco. “Significava che i terroristi, che operano solo sul cinque per cento del territorio, erano in grado di colpire ogni volta che volevano. Nel 2006 ci sono state solo quattordici operazioni degli alleati, tre inglesi e undici statunitensi. E molte di queste sono state interrotte a causa dell’intervento politico. Stavolta Bush ha spiegato che l’America deve essere all’offensiva, sullo stile della ‘pacificazione’ di Fallujah. Il novanta per cento dell’insorgenza è nella provincia Anbar, cinque quartieri di Baghdad e a Baquba. Devono essere rese sicure dall’esercito e ripulite”.
Nel nuovo piano per Taheri ci saranno più combattimenti e meno morti fra i civili. “La strategia per addestrare gli iracheni e trasferire il potere è stata accelerata. Gli iracheni hanno pieno controllo di cinque province e il piano deve essere completato prima delle elezioni generali irachene del 2009. Se l’America si mostra forte, l’insorgenza sarà costretta a cedere. La paura che gli Stati Uniti sarebbero fuggiti è stata all’origine della violenza dalla liberazione nel 2003. La brigata Badr è alleata degli americani e Moqtada al Sadr deve essere contenuto e disarmato. L’esercito iracheno ha lanciato una grande operazione a Baghdad due giorni prima dell’annuncio del piano di Bush. Cinquanta jihadisti sono stati uccisi e un numero sconosciuto catturati”.

Idealisti sugli obiettivi, concreti nella strategia
L’America deve essere idealista sugli obiettivi e concreta sulla strategia. “Per i terroristi la vita non vale niente, ho seguito il terrore in Algeria. I jihadisti sono in grado di manipolare l’opinione pubblica per lasciare solo il nuovo Iraq. Possono uccidere per niente, hanno rovinato la vita di decine di migliaia di iracheni, ma il sangue non si trasforma in politica. Sebbene abbiano assassinato 36 candidati, hanno fallito nel deragliare le elezioni politiche. Hanno cercato di tenere la comunità sunnita fuori dal processo costituzionale. Ma milioni di sunniti hanno votato al referendum”.
Taheri racconta che gli islamisti hanno portato la morte dentro le scuole. “Centinaia di insegnanti e studenti sono stati assassinati, fra cui la decapitazione di due maestre in classe e attacchi suicidi contro le scuole. Ma la maggior parte delle scuole e delle università sono di nuovo funzionanti. Nel settembre 2005, otto milioni e mezzo di iracheni andavano a scuola, un record nella storia della nazione”. Sono passati agli ospedali. “Fra l’ottobre 2003 e il gennaio 2006, oltre ottanta medici e oltre 400 fra infermiere e ausiliari sono stati uccisi. I jihadisti hanno ucciso pazienti nei loro letti”. Come fecero i nazisti con gli ebrei nel ghetto di Cracovia. “E’ un odio di tipo nazista. Ma, ancora una volta, hanno fallito. Nel gennaio 2006 tutti i 600 ospedali erano operativi”. Non hanno risparmiato la ricchezza petrolifera. “Dal luglio 2003, le infrastrutture petrolifere sono state bersagliate da 3.000 attacchi.
Ma l’Iraq è entrato nell’Opec ed è tornato leader nel mercato mondiale”. Secondo Taheri la strategia di Bush resta l’unica soluzione al medio oriente. “In una tenebra possiamo solo gettare un fascio di luce. Abbiamo visto cosa è successo alla Somalia durante l’amministrazione di Bill Clinton, è diventata un buco nero. Gli americani si sono ritirati e al Qaida ha preso piede. C’era stato un primo attacco al World Trade Center nel 1993 e Clinton non fece niente contro il terrorismo. Era il presidente che disse: ‘Se possiamo colpirli domani, perché dobbiamo farlo oggi?’. Ma se non uccidi oggi gli islamisti, loro uccideranno te domani in modo molto più grande e cruento”. Il jihadismo non ha possibilità di successo se gli Stati Uniti perseverano negli obiettivi prefissi. “L’insorgenza non controlla territori e non sta reclutando nuove truppe. Possono solo uccidere tanta gente. E lo faranno. Prima nel deserto fra l’Eufrate e la Siria e poi in Afghanistan, al Qaida ha cercato di creare un emirato da cui lanciare una conquista delle terre arabe. Poi in Arabia Saudita, fino a ieri in Somalia e in una parte della Libia. Ma non hanno futuro in Iraq. Al Qaida è debole dopo la morte di Zarkawi e non ha bacini di reclutamento perché gli stati arabi hanno stretto i confini con l’Iraq”. Un successo di questa guerra è stata la rivitalizzazione della tradizione sciita di Najaf. “E’ la sfida più grave che mullah iraniani si siano trovati davanti negli ultimi venticinque anni. La prima cosa che fece Khomeini fu uccidere un grande numero di religiosi contrari al suo progetto, i maestri dell’ayatollah Ali al Sistani che oggi vive a Najaf. Io non amo nessun ayatollah, ma la città di Najaf è una grande alternativa quietista al khomeinismo di Qom. Nel 2005 i luoghi santi iracheni sono stati visitati da dodici milioni di pellegrini e sono diventati i luoghi più visitati del mondo islamico, prima di Medina e La Mecca”. Iran, Israele e gli arabi “moderati” Lo scontro religioso sullo sciismo ha risvolti politici. “Ci sono due Iran: il simbolo della rivoluzione e lo stato-nazione. Come la Francia sotto Napoleone. L’Iran come nazione ha interessi in un Iraq stabile dove fare pellegrinaggio e stabilire relazioni economiche. Il più grande giacimento petrolifero dell’Iraq è al confine con l’Iran. Ma l’Iran come simbolo della rivoluzione vuole un Iraq nel caos per estendere la propria influenza, oltre a Libano, Siria e Palestina. La promessa di Bush di ‘cercare e distruggere’ i network dei terroristi è il segnale che ha compreso i profondi aspetti regionali di questa guerra. Gli iracheni sono grati a Bush per non aver preso in considerazione l’idea di Baker di coinvolgere l’Iran. E’ impossibile sradicare il terrorismo in Iraq senza eliminare le fonti al di là dei confini. Una volta stabilita l’influenza in Iraq, l’Iran sarebbe in grado di realizzare un potere nel Levante per la prima volta dal VII secolo, quando l’impero persiano cacciò i bizantini dall’attuale Siria”. Taheri azzarda che un grande cambiamento per l’Iraq lo avremo quando si apriranno negoziati per il riconoscimento dello stato d’Israele. “Israele e Iraq non hanno territori contesi e l’intera classe politica è a favore di questo passo. Curdi ed ebrei hanno una storia comune di terrore sotto Saddam Hussein. Il mosaico del medio oriente si basa sul riconoscimento di Israele. Perché gli amici arabi ‘moderati’ e alcuni alleati della Nato si rifiutano di riattivare le ambasciate a Baghdad e nominare gli ambasciatori?”. Le stragi nei mercati e le fucilazioni nei vicoli dove scorrazzano i guerrasantieri non hanno sbiadito l’innato ottimismo di Taheri, l’uomo che Khomeini cacciò dalla direzione del giornale Kayhan. “Sono ottimista sul futuro dell’Iraq, gli iracheni stanno morendo per il proprio futuro. I giornalisti occidentali hanno fatto solo disinformazione sull’Iraq. Hanno detto che Saddam era laico, quando nel 1991 annunciò di essere il discendente del Profeta. Chi scrive che in Iraq oggi si svolgono convegni su ‘ragione e fede’? L’economia irachena è in pieno boom, il popolo sta ricostruendo e la vita riparte. Ho assistito nel teatro di Bassora alla rappresentazione di un’opera di T.S. Eliot. Non è forse straordinario?”. L’Iraq è il campo di battaglia fra la libertà e i jihadisti. “Questi sanno di non poter vincere. Ma sperano di terrorizzare l’opinione occidentale e costringere la coalizione ad abbandonare l’Iraq. La coalizione non può sciogliere il proprio vincolo morale con gli iracheni prima che abbiano reso sicura la democrazia. L’Iraq è stata una storica vittoria per la libertà. Non dobbiamo permettere ai politici meschini di trasformarla in sconfitta. Bush deve diventare ‘explainer- in-chief’, spiegare agli americani ciò che è in ballo e che la vittoria vale la pena di essere preservata combattendo”.

Di seguito, sempre dal FOGLIO, riprendiamo il testo intregrale del discorso di George W. Bush:

Buonasera, oggi in Iraq le forze armate degli Stati Uniti sono impegnate in uno sforzo che determinerà la direzione della guerra globale al terrore e la nostra sicurezza, qui a casa nostra. La nuova strategia che spiegherò questa sera cambierà la linea dell’America in Iraq, e ci aiuterà a vincere la lotta contro il terrorismo. Quando mi sono rivolto a voi, più di un anno fa, quasi 12 milioni di iracheni avevano messo il loro voto nelle urne per una nazione unita e democratica. Le elezioni del 2005 sono state un successo sensazionale. Pensavamo che queste elezioni potessero unire gli iracheni e che, nel formare le forze di sicurezza irachene, avremmo portato a termine la nostra missione con un minor numero di truppe americane. Ma nel 2006 è successo l’opposto. La violenza in Iraq – soprattutto a Baghdad – ha travolto i risultati politici che gli iracheni avevano conseguito. I terroristi di al Qaida e i guerriglieri sunniti hanno capito il pericolo mortale che le elezioni irachene rappresentavano per la loro causa. E hanno risposto con assassinii oltraggiosi volti a colpire iracheni innocenti. Hanno fatto saltare uno dei templi più sacri dello sciismo, la Moschea d’oro di Samarra, con l’obiettivo calcolato di provocare la reazione della popolazione sciita. La strategia ha funzionato. Gli sciiti più radicali, alcuni sostenuti dall’Iran, si sono raggruppati in squadre della morte. E il risultato è stato un circolo vizioso di violenze settarie che continua anche oggi. La situazione in Iraq è inaccettabile per gli americani e inaccettabile anche per me. Le nostre truppe hanno combattuto con coraggio. Hanno fatto tutto quello che abbiamo chiesto loro di fare. La responsabilità degli errori commessi è mia. E’ chiaro che abbiamo bisogno di un cambiamento nella nostra strategia. Il mio team per la sicurezza nazionale, i comandanti militari e i diplomatici hanno fatto un riesame complessivo. Abbiamo consultato i membri del Congresso di entrambi i partiti, i nostri alleati all’estero ed esperti autorevoli. Abbiamo beneficiato delle ponderate raccomandazioni dell’Iraq Study Group – un panel bipartisan guidato dall’ex segretario di stato James Baker e dall’ex deputato Lee Hamilton. Nella nostra discussione, siamo tutti d’accordo nel dire che non esiste una formula magica per il successo in Iraq. E un messaggio è arrivato forte e chiaro: una sconfitta in Iraq sarebbe un disastro per gli Stati Uniti. Le conseguenze del fallimento sono chiare: gli estremisti radicali islamici crescerebbero nella loro forza e nella loro capacità di reclutamento. Si troverebbero in una posizione privilegiata per rovesciare governi moderati, creare il caos nella regione e usare i ricavi del petrolio per finanziare le loro ambizioni. L’Iran sarebbe rafforzato nella sua corsa alle armi nucleari. I nostri nemici avrebbero un paradiso sicuro da cui pianificare e lanciare attacchi contro gli americani. L’11 settembre del 2001 abbiamo visto che cosa può fare un rifugio per gli estremisti dall’altra parte del mondo nelle strade delle nostre città. Per la sicurezza del nostro popolo, l’America deve vincere in Iraq. La priorità più urgente per avere successo in Iraq è la sicurezza, soprattutto a Baghdad. L’80 per cento delle violenze settarie irachene avviene nel giro di 30 miglia dalla capitale. Questa violenza sta spaccando Baghdad in enclave settarie e sta scuotendo la fiducia di tutti gli iracheni. Soltanto gli iracheni possono fermare questa violenza e garantire la sicurezza. E il loro governo ha portato avanti un piano aggressivo per raggiungere questo obiettivo. I nostri sforzi passati per rendere sicura Baghdad sono falliti per due ragioni in particolare: non c’erano abbastanza truppe irachene e americane a garantire la sicurezza dei quartieri che sono stati ripuliti dai terroristi e dai guerriglieri. E c’erano troppe restrizioni per le truppe che erano là. I comandanti militari hanno rivisto un nuovo piano per l’Iraq in modo da affrontare questi errori. Dicono che lo fa, e che questo piano può funzionare. Ecco i punti principali di questa strategia: il governo iracheno nominerà un comandante militare e due vice per la capitale. Il governo iracheno schiererà il suo esercito e la polizia nazionale in nove quartieri di Baghdad. Quando queste forze saranno schierate, ci saranno 18 brigate dell’esercito e della polizia nazionale impegnate in questo compito, insieme con la polizia locale. Queste forze operereanno dalle stazioni della polizia locale, facendo pattugliamenti, creando checkpoint e andando porta a porta a conquistare la fiducia degli abitanti di Baghdad. E’ un compito duro. Perché abbia successo, i nostri comandanti dicono che gli iracheni hanno bisogno del nostro aiuto. Così l’America cambierà la strategia per aiutare gli iracheni a portare avanti il loro compito, fermare la violenza settaria e garantire la sicurezza a Baghdad. Questo impone anche l’aumento della presenza delle truppe americane. Ho impegnato 20 mila soldati in più per l’Iraq. La maggior parte di loro – cinque brigate – sarà schierata a Baghdad. Queste truppe lavoreranno insieme con le unità irachene e saranno inserite nelle loro formazioni. Le nostre truppe avranno una missione ben definita: aiutare gli iracheni a ripulire e rinforzare i loro quartieri, a proteggere la popolazione locale e a far sì che le forze irachene siano in grado di provvedere alla sicurezza di cui Baghdad ha bisogno. Molti che sono in ascolto questa sera si chiederanno perché questi sforzi dovrebbero avere successo ora quando le operazioni precedenti sono fallite. Bene, ci sono alcune differenze: nelle operazioni precedenti, le forze irachene e americane hanno ripulito molti quartieri da terroristi e miliziani, ma quando le nostre truppe si sono spostate da altre parti, gli assassini sono tornati. Questa volta, avremo la forza di cui abbiamo bisogno per tenere sotto controllo le aree che abbiamo ripulito. Nelle precedenti operazioni, le interferenze settarie e politiche hanno impedito alle forze irachene e americane di entrare nei quarteri in cui si rifugiano coloro che alimentano la violenza settaria. Questa volta, le forze irachene e americane avranno l’autorizzazione di entrare in questi quartieri, e il premier Maliki ha promesso che le interferenze politiche o settarie non saranno più tollerate. Ho fatto presente al primo ministro e agli altri leader iracheni che l’impegno dell’America non è senza fine. Se il governo iracheno non dà seguito alle sue promesse, perderà il sostegno del popolo americano e anche quello del popolo iracheno. E’ il momento di agire. Il premier lo ha capito. Questo è quello che ha detto ai suoi cittadini la settimana scorsa: “Il piano di sicurezza di Baghdad non prevede alcun paradiso di sicurezza per i fuorilegge, indipendentemente dalle affiliazioni settarie e politiche”. Questa nuova strategia non produrrà la fine immediata degli attentati suicidi, degli assassinii o delle esplosioni. I nostri nemici in Iraq faranno di tutto per riempire i nostri schermi tv di immagini di morte e sofferenza. Ciò nonostante, fra qualche tempo, possiamo aspettarci di vedere truppe irachene inseguire assassini, un minor numero di attacchi terroristici a sangue freddo e maggiore fiducia e cooperazione da parte dei cittadini di Baghdad. Quando questo succederà, la vita quotidiana migliorerà, gli iracheni acquisteranno fiducia nei loro leader e il governo avrà lo spazio vitale necessario per fare progressi in altre aree. La maggior parte degli iracheni sunniti e sciiti vuole vivere in pace insieme, e la riduzione della violenza a Baghdad aiuterà a rendere la riconciliazione possibile. Una strategia di successo per l’Iraq va oltre le operazioni militari. I cittadini iracheni devono vedere che queste operazioni sono accompagnate da miglioramenti visibili nei loro quartieri e nelle loro comunità. E l’America terrà il governo iracheno al rispetto dei termini di paragone che ha annunciato. Per stabilire la sua autorità, il governo iracheno ha in progetto di assumersi la responsabilità della sicurezza di tutte le province entro novembre. Per dare a ogni iracheno una partecipazione nell’economia del paese, l’Iraq adotterà una legge per la condivisione dei ricavi di petrolio da parte di tutti gli iracheni. Per mostrare che si impegna a fornire una vita migliore, il governo iracheno spenderà dieci miliardi di dollari del suo patrimonio per la ricostruzione e le infrastrutture, progetti che creeranno nuovi posti di lavoro. Per rafforzare i leader locali, gli iracheni vogliono organizzare elezioni provinciali entro la fine dell’anno. E per permettere a più iracheni di rientrare nella vita politica del paese, il governo riformerà le leggi di debaathificazione e avvierà un processo per prendere in considerazione emendamenti alla Costituzione. L’America cambierà il suo modo di aiutare il governo iracheno, mentre quest’ultimo si impegna nel conseguimento di tali obiettivi. In linea con le raccomandazioni dell’Iraq Study Group, aumenteremo la presenza di consulenti americani in seno alle unità dell’esercito iracheno e assegneremo a ogni divisione una brigata della Coalizione. Aiuteremo gli iracheni a costruire un esercito più grande e meglio armato e velocizzeremo l’addestramento delle forze irachene, un elemento che rimane il fulcro della missione statunitense in Iraq. Daremo ai nostri comandanti militari e ai civili maggiore flessibilità nella gestione dei fondi al fine di fornire assistenza economica. Raddoppieremo il numero dei team di ricostruzione nelle province. Questi team sono composti da esperti militari e civili; il loro scopo è quello di aiutare le comunità locali irachene a perseguire la riconciliazione, rafforzare i moderati e accelerare la transizione verso un Iraq autosufficiente. Il segretario di stato Condoleezza Rice nominerà un coordinatore per la ricostruzione (è stato nominato ieri, si tratta diell’ex ambasciatore Timothy Carney, ndr) che risiederà a Baghdad al fine di garantire che gli aiuti economici destinati all’Iraq portino migliori risultati. Mentre ci adopereremo per questi cambiamenti, non cesseremo di lottare contro al Qaida e i combattenti stranieri. Al Qaida è ancora attiva in Iraq. La sua base si trova nella provincia di Anbar. Al Qaida ha contribuito a rendere Anbar la zona più violenta dell’Iraq, dopo la capitale. Un documento di al Qaida che abbiamo intercettato descrive il piano dei terroristi di infiltrarsi nella provincia per poi prenderne il controllo. Ciò avvicinerebbe al Qaida al suo scopo di abbattere la democrazia irachena, costruire un impero islamico radicale e lanciare nuovi attacchi contro gli Stati Uniti, sia sul territorio nazionale sia all’estero. Le nostre truppe stanziate ad Anbar stanno uccidendo e catturando i leader di al Qaida e proteggendo la popolazione locale. Recentemente, i leader di alcune tribù autoctone hanno iniziato a mostrare la volontà di lottare contro al Qaida. Per questo i nostri comandanti ritengono che esista per noi la possibilità d’infliggere un duro colpo ai terroristi. Ecco perché ho dato ordine di rafforzare il contingente americano nella provincia di Anbar con quattromila uomini. Questi soldati lavoreranno al fianco delle forze irachene e tribali al fine di aumentare la pressione sui terroristi. I soldati e le soldatesse americani hanno distrutto il rifugio di al Qaida in Afghanistan – e noi non permetteremo che ora si vada ad insediare in Iraq. Il successo in Iraq esige anche la difesa della sua integrità territoriale e la stabilizzazione della regione contro la sfida estremista. Tutto ciò inizia con la necessità di affrontare l’Iran e la Siria. Questi due regimi permettono ai terroristi e ai ribelli di utilizzare il proprio territorio per entrare e uscire dall’Iraq. L’Iran fornisce il sostegno materiale per gli attacchi contro i soldati americani. Noi ostacoleremo gli attacchi contro le nostre forze. Interromperemo il flusso di aiuti dall’Iran e dalla Siria. Andremo a stanare e distruggere le reti che forniscono armi avanzate e addestramento ai nostri nemici in Iraq. Stiamo prendendo altre misure al fine di incrementare la sicurezza in Iraq e proteggere gli interessi americani in medio oriente. Recentemente, ho ordinato il dispiegamento di un altro gruppo di portaerei nella zona. Aumenteremo la condivisione dell’intelligence e dispiegheremo sistemi di difesa antiaerea Patriot per tranquillizzare i nostri amici e alleati. Collaboreremo con i governi di Turchia e Iraq al fine di aiutarli a risolvere i problemi lungo le rispettive frontiere. Lavoreremo poi insieme ad altri per impedire che l’Iran acquisisca armamenti nucleari e conquisti il predominio sulla regione. Utilizzeremo tutte le risorse diplomatiche americane per raccogliere sostegno per l’Iraq in tutte le nazioni del medio oriente. Stati quali Arabia Saudita, Egitto, Giordania e i paesi del Golfo devono capire che una sconfitta americana in Iraq porterebbe alla creazione di un nuovo santuario per gli estremisti e a una minaccia strategica alla loro stessa esistenza. Queste nazioni hanno interesse nel successo dell’Iraq, ovvero uno stato in pace con i paesi vicini, e devono aumentare il loro sostegno al governo di unità iracheno. Noi appoggiamo l’appello del governo iracheno a completare l’International Compact che porterà nuovi aiuti economici in cambio di maggiori riforme economiche. Venerdì (oggi, ndr) Rice partirà in missione per esprimere sostegno all’Iraq e continuare l’urgente lavoro di diplomazia necessario per portare la pace in quella regione. La sfida in atto nel grande medio oriente è ben più di un semplice conflitto armato. E’ una battaglia ideologica d’importanza epocale. Da un lato, sono schierati coloro che credono nella libertà e nella moderazione. Dall’altro, sono schierati gli estremisti che uccidono gli innocenti e hanno dichiarato la loro intenzione di distruggere il nostro stile di vita. Nel lungo termine, il modo più realistico di proteggere il popolo americano sarà fornire un’alternativa di speranza all’ideologia carica di odio del nemico: promuovere la libertà in una regione difficile. E’ nell’interesse degli Stati Uniti appoggiare gli uomini e le donne coraggiosi che rischiano la propria vita per rivendicare la libertà, e aiutarli nel loro tentativo di creare società eque e ricche di speranza in tutto il medio oriente. Dall’Afghanistan al Libano ai Territori palestinesi, milioni di persone sono stanche della violenza e vogliono un futuro di pace e opportunità per i propri figli. Tutti costoro hanno gli occhi puntati sull’Iraq. Vogliono sapere: l’America si ritirerà e lascerà il futuro di quel paese nelle mani degli estremisti, oppure rimarrà al fianco degli iracheni che hanno scelto la libertà? Le novità che vi ho presentato questa sera hanno lo scopo di garantire la sopravvivenza di una giovane democrazia che sta lottando per la vita in una regione del mondo importantissima per la sicurezza degli Stati Uniti. Voglio essere franco: i terroristi e i ribelli in Iraq sono persone senza coscienza, tingeranno di rosso e di violenza l’anno che ci sta davanti. Anche se la nostra strategia funzionerà come previsto, dovremo attenderci altre vittime, sia da parte americana sia irachena. Il punto è se la nostra nuova strategia ci porterà più vicini al successo. Io penso di sì. Questa vittoria non sarà come quella conseguita dai nostri padri o nonni. Non vi sarà alcuna cerimonia di resa sul ponte di una corazzata. Tuttavia, la vittoria in Iraq porterà un elemento nuovo nel mondo arabo: una democrazia funzionante, che ha il controllo del proprio territorio, rispetta lo stato di diritto, le libertà fondamentali ed è responsabile nei confronti del popolo. Un Iraq democratico non sarà perfetto. Tuttavia, sarà un paese che lotta contro i terroristi, anziché offrire loro protezione, e contribuirà a creare un futuro di pace e sicurezza per i nostri figli e nipoti. Questa nuova strategia è il risultato di consultazioni con il Congresso in merito alle diverse opzioni che potevamo adottare in Iraq. Molti si sono detti preoccupati del fatto che gli iracheni stiano diventando troppo dipendenti dagli Stati Uniti e, dunque, la nostra politica dovrebbe concentrarsi sulla protezione delle frontiere irachene e sulla lotta ad al Qaida. La loro soluzione sarebbe dunque di ridurre l’impegno americano a Baghdad o annunciare il graduale ritiro del nostro contingente armato. Abbiamo vagliato attentamente queste considerazioni e siamo giunti alla conclusione che ritirarci adesso significherebbe provocare il crollo del governo iracheno, lo smembramento del paese e massacri di massa di proporzioni inimmaginabili. Un simile scenario costringerebbe le nostre truppe a prolungare ancora di più la presenza in Iraq e ad affrontare un nemico che sarebbe ancora più letale. Se, invece, aumentiamo il nostro sostegno adesso e aiutiamo gli iracheni a spezzare il cerchio di violenza, allora le nostre truppe potranno tornare a casa prima. Nei prossimi giorni, il mio team per la sicurezza nazionale informerà il Congresso in merito alla nostra nuova strategia. Se il Congresso avesse suggerimenti applicabili per migliorare la strategia, li applicheremo. Se le circostanze dovessero cambiare, noi ci adatteremo. Persone di tutto rispetto hanno pareri discordanti in materia ed esprimeranno le proprie critiche. Del resto, è giusto che le nostre opinioni siano oggetto di critica. Tutte le parti in causa hanno la responsabilità di spiegare con che modalità intendono garantire alla soluzione proposta le maggiori probabilità di successo. Sulla base di un buon suggerimento del senatore Joe Lieberman e altri eminenti esponenti del Congresso, formeremo un nuovo gruppo di lavoro bipartisan che ci aiuterà a trovare una soluzione comune per vincere la guerra contro il terrore. Questo gruppo s’incontrerà regolarmente con me e la mia Amministrazione. Aiuterà altresì a rafforzare il nostro rapporto con il Congresso. Possiamo iniziare a collaborare insieme aumentando gli effettivi dell’esercito e del corpo dei marine, in modo tale che l’America abbia le forze armate che ci servono per il XXI secolo. Dobbiamo inoltre valutare come mobilitare e impiegare all’estero i cittadini americani di talento, che possono contribuire a costruire istituzioni democratiche in aree e paesi che si stanno riprendendo da conflitti o tirannie. In questi tempi di pericolo, gli Stati Uniti hanno la fortuna di avere uomini e donne straordinari e generosi, disposti a farsi avanti per difenderci. Questi giovani americani capiscono che la nostra causa in Iraq è nobile e necessaria e che diffondere la libertà è la vocazione del nostro tempo. Sono in servizio lontano dalle loro famiglie, che fanno il sacrificio silenzioso di un Natale in solitudine, con delle sedie vuote a tavola. I nostri soldati hanno visto i loro compagni perdere la vita in nome della libertà. Ci addolora la perdita di ogni americano caduto: la costruzione di un futuro che sia degno del loro sacrificio è un atto dovuto nei loro confronti. Cittadini, l’anno che ci sta davanti esigerà ulteriore pazienza, sacrificio e determinazione. Può essere una comoda tentazione pensare che l’America possa mettere da parte il peso della libertà. Tuttavia, il carattere di una nazione emerge durante i momenti di prova. E, nel corso della storia, gli americani hanno sempre sfidato i pessimisti e riscattato la nostra fede nella libertà. Adesso l’America si è impegnata in una nuova lotta che segnerà il corso del nuovo secolo. Noi possiamo vincere. E ce la faremo. Andiamo avanti con la consapevolezza che l’Autore della Libertà ci guiderà in questi difficili momenti. Grazie e buona serata. (traduzione di Mariolina Mapelli)

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT