Rispondendo a un lettore , sul CORRIERE della SERA dell'11 gennaio 2007, sui rabbini antisionisti che hanno partecipato al convegno negazionista di Teheran, Sergio Romano li assimila agli ortodossi sionisti che si sono stabiliti in Cisgiordania e, fino al disimpegno deciso da Sharon , a Gaza.
Ma tra i due gruppi ci sono differenze enormi, politiche e teologiche.
I cosidetti "nazional-religiosi" non solo accettano Israele, ma la considerano una realtà messianica, che sta adempiendo le promesse bibliche.
I Neturei Karta (Guardiani della Città, questo il nome del piccolo gruppo presente a Teheran) hanno verso Israele un violento odio teologico, che li spinge a schierarsi dalla parte dei suoi peggiori nemici, da Arafat ad Ahmadinejad.
Un'altra precisazione riguarda la "casta religiosa" immaginata da Romano: nell'ebraismo, dopo la distruzione del Secondo Tempio, in realtà non opera nemmeno un gruppo sacerdotale separato dal resto del popolo.
Gli errori di Romano non sono innocenti. Tutta la sua risposta rivela la sua immagine dell'ebraismo: quella di una religione retriva, settaria e bigotta, secondo la descrizione da lui fornita in "Lettera a un amico ebreo".
A questa immagine Romano associa Israele, che è un fenomeno secolare e uno Stato laico che lui però non ha esitato a paragonare più volte alla teocrazia saudita (la più minuziosamente fanatica del mondo islamico, talebani a parte).
Nel pregiudizio di Romano tutto si tiene: i coloni che in Giudea e Samaria pensano di realizzare le promesse bibliche e quelli che tirano sassi contro le auto che viaggiano di sabato, o, addirittura, quelli che partecipano ai convegni di Ahmadinejad.
Ecco perchè le distinzioni vanno ignorate.
Normalmente Romano è malizioso, ma preciso. Esprime ostilità a Israele attraverso manipolazioni sapienti e abili omissioni, non con conclamate falsità.
In questo caso, invece, sembra essere stato travolto dall'emotività: precisione e abilità sono scomparsi, resta solo il pregiudizio.
La partecipazione di rabbini antisionisti al convegno iraniano sulla Shoah mi ha sorpreso. Il Corriere ha pubblicato la foto dell'abbraccio dei rabbini al presidente iraniano, ma vorrei ora sapere come è possibile l'aberrante sintonia tra rabbini ebrei e negazionisti. Può chiarire la cosa?
Francesco Venanzi
francescovenanzi@ fastwebnet.it
Caro Venanzi, in un articolo pubblicato da La Stampa del 27 dicembre, uno dei migliori scrittori israeliani, Avraham B. Yehoshua, ha spiegato che alla fine dell'Ottocento, quando Theodor Herzl fondò il movimento sionista, la maggior parte dei rabbini dell'Europa centro-orientale fu nettamente ostile alla fondazione di uno Stato ebraico. Erano convinti che la vera patria dell'ebreo fosse la Torah (la dottrina religiosa impartita da Dio agli ebrei nel Pentateuco) e che la creazione di uno Stato avrebbe laicizzato le comunità intollerabilmente diluendo l'essenza religiosa dell'ebraismo. Fu questo potente establishment religioso, secondo Yehoshua, che frenò considerevolmente la partenza degli ebrei per la Terra promessa. Personalmente credo che esistessero altre ragioni: la scelta rivoluzionaria per gli ebrei che credettero nel socialismo e nella rivoluzione d'Ottobre, la scelta dell'integrazione per coloro che adottarono con entusiasmo la patria europea o americana di cui erano cittadini e, perché no, la scelta della pigrizia scettica per coloro che non riponevano grande fiducia nella colonizzazione di una terra lontana, non particolarmente ospitale. Ma lo scrittore israeliano ha certamente ragione quando osserva che la casta religiosa dell'ebraismo fece del suo meglio per impedire la nascita dello Stato. La situazione cambiò naturalmente dopo il genocidio della Seconda guerra mondiale. Le persecuzioni aumentarono considerevolmente le emigrazioni verso la Palestina e conferirono al movimento sionista un'attrazione incomparabilmente superiore a quella dei decenni precedenti. Molti rabbini dovettero ricredersi o mettere la sordina alla loro teologia anti-statale. Ma non tutti si sono convertiti all'idea che l'ebreo possa essere cittadino di uno Stato ebraico e che la sua persona possa avere obblighi e lealtà diversi da quelli dell'assoluta obbedienza alla legge mosaica. Non negano il genocidio e non possono essere definiti negazionisti in senso stretto. Ma rifiutano lo spirito patriottico e civile con cui lo Stato israeliano commemora lo sterminio delle comunità ebraiche europee. Ricordo bene l'arrivo in Israele, un sabato di parecchi anni fa. Quando l'automobile su cui viaggiavo si avvicinò alle mura di Gerusalemme, vidi sui due lati della strada piccoli gruppi di giovani ortodossi barbuti, vestiti di nere palandrane, le ciocche di capelli intrecciati (i cernecchi) che scendevano lungo le guance. Aspettavano gli automobilisti per apostrofarli, insultarli, lanciare contro le loro macchine qualche simbolica pietra. Non sapevano che l'uso dell'automobile nella giornata del sabato era contraria alla legge? I rabbini di Teheran sono soltanto una piccola pattuglia, particolarmente stravagante. Ma è bene ricordare che dietro di loro vi sono molti ebrei che ne condividono la teologia e che si sono insediati nei territori occupati da Israele dopo la Guerra dei sei giorni. Sharon era sionista e laico, ma la politica degli insediamenti, con cui il leader israeliano cercò di creare un fatto compiuto territoriale, ha richiamato in Palestina, dall'America e dall'Europa, decine di migliaia di ebrei profondamente religiosi che hanno scelto di vivere nelle terre bibliche di Giudea e Samaria per essere, quando il Messia verrà sulla terra, al posto giusto, nel momento giusto. Non vi è in questo nulla di tipicamente ed esclusivamente ebraico. Gli evangelici cristiani aspettano con lo stesso fervore la seconda venuta del Cristo e gli sciiti attendono con eguale fede la riapparizione del dodicesimo imam. Tutte le confessioni religiose hanno la loro frangia integralista. Forse la maggiore svista dell'Occidente, negli ultimi trent'anni, fu di non capire che questa frangia, anche se con caratteristiche diverse, si stava allargando in tutte le confessioni monoteiste.
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