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Il Foglio Rassegna Stampa
11.01.2007 Come (e perché) vincere in Iraq
la strategia dell'America

Testata: Il Foglio
Data: 11 gennaio 2007
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca - Giulio Meotti - Amy Rosenthal
Titolo: «Soldi, soldati e sicurezza La guerra sui poteri di guerra alla prova Iraq - A Baghdad riarrivano i nostri -America e islam, per Oren una storia iniziata coi Padri fondatori»

Dal FOGLIO dell'11 gennaio 2007, una rticolo di Christian Rocca sul piano Bush sull'Iraq e sulle prerogative presidenziali che ne rendono politicamente e giuridicamente possibile la messa in pratica:

Milano. La notte scorsa, dallo studio nella biblioteca della Casa Bianca, George W. Bush ha presentato il suo nuovo piano strategico per l’Iraq che prevede l’invio di altri ventunmila e cinquecento soldati (17.500 a Baghdad, 4 mila nella provincia sunnita di Anbar), il sostegno all’esercito iracheno nella conduzione delle operazioni di sicurezza e l’avvio immediato della ricostruzione delle zone liberate coinvolgendo la popolazione locale. Per il suo piano Bush ha chiesto al Congresso altri 6 miliardi e ottocento milioni di dollari. I democratici sono contrari all’idea di inviare più truppe e di aumentare la spesa per l’Iraq, ma per ora hanno deciso di non opporsi al progetto bushiano malgrado una buona parte dei loro senatori e deputati, a cominciare da Ted Kennedy e Dennis Kucinich, spinga per negare i fondi necessari ad attuare la nuova strategia. Lo strumento scelto dalla leadership democratica per dire di no, ma senza scalfire il potere presidenziale di condurre la guerra, è quello di una risoluzione non vincolante che si limiti a esprimere un parere contrario alla decisione di Bush.
Ad occhi estranei al sistema costituzionale americano appare quasi incredibile che una nuova maggioranza parlamentare contraria alla guerra in Iraq, uscita di recente dalle urne, non riesca a imporsi sul presidente, anzi che addirittura debba assistere impotente a un rilancio dell’impegno statunitense in Iraq, sia in termini di uomini sia di denaro. La chiave di questa stranezza sta in un ampio dibattito politico e giuridico che dura da oltre duecento anni e risiede in due articoli della Costituzione americana, il primo e il secondo, rispettivamente comma 8 e comma 2. L’articolo 1 stabilisce che il Congresso, tra gli altri, ha “il potere di dichiarare guerra”. L’articolo 2, invece, recita: “Il presidente è Comandante in Capo dell’Esercito, della Marina degli Stati Uniti e della Milizia dei diversi Stati”. In sintesi, come ha spiegato il senatore democratico Joe Biden a “Meet the Press” domenica mattina, avendo già autorizzato l’uso della forza nell’ottobre 2002 ora il Congresso può fare poco per impedire a Bush di ampliare la missione americana in Iraq: “Costituzionalmente, se vuole, il presidente può tenere le truppe lì per sempre”. Il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, ha ribadito al New York Times, con un esempio assai chiaro, l’importanza, in tempo di guerra, del potere esecutivo affidato al presidente: “Non si può far gestire una guerra a un comitato composto da 435 persone alla Camera e 100 al Senato”.

I fondi necessari
A grandi linee il Congresso ha un solo strumento a disposizione per porre fine a una guerra, quello di negare i fondi necessari al suo svolgimento, una misura raramente adottata perché in un paese serio non è semplice togliere i fondi ai connazionali impegnati in zone di combattimento. L’ultimo caso è quello del 1972, quando l’allora Congresso repubblicano decise, ma non in disaccordo con la presidenza Richard Nixon, di non finanziare più l’intervento militare in Vietnam. Spiega Gary Schmitt, esperto dell’American Enterprise Institute, che “una volta che la guerra comincia, il presidente ha la più completa discrezione sulla disposizione delle truppe, mentre il Congresso ha l’autorità di fermare la guerra, negandone il finanziamento”. Il conflitto costituzionale, di cui si avvertono ora le avvisaglie, comincia nel momento in cui il Congresso usa il suo potere di spesa per cercare di influenzare la discrezione presidenziale nella gestione della guerra: “In base alla Costituzione – spiega Schmitt – il Congresso può dire sì o no, fornire le risorse o negarle, ma una volta che il conflitto è iniziato non può usare questi poteri per dire al presidente come dovrà usare queste risorse”. Ovviamente non tutti sono d’accordo con questa interpretazione, tanto che l’istituto liberal Center for American Progress, proprio in questi giorni, ha distribuito un paper per ricordare tutti i casi in cui il Congresso ha chiesto limiti, modi e condizioni degli interventi militari americani all’estero. Su questi precedenti si basano sia il progetto di legge di Ted Kennedy sia le accuse che la parte più radicale del Partito democratico fa ai suoi leader, convinti invece di dover restare entro i canoni condivisi dell’interpretazione costituzionale. C’è addirittura chi sostiene che il presidente, da comandante in capo, non abbia nemmeno l’obbligo di cercare l’autorizzazione del Congresso quando deve difendere la sicurezza nazionale. Uno dei presidenti ad aver seguito questa dottrina è Bush, un altro Abramo Lincoln.
(segue dalla prima pagina) Anche Bill Clinton ha condotto una guerra, quella del Kosovo del 1999, senza una formale dichiarazione né una semplice autorizzazione del Congresso, anzi con la palese contrarietà dell’allora maggioranza repubblicana. Gli esempi sono decine e decine, spiega John Yoo, l’ex consigliere giuridico di Bush. Il più eclatante è quello della guerra in Corea degli anni 50, ma anche l’intervento in Iraq è stato soltanto autorizzato, senza la formale dichiarazione di guerra del Congresso. La guerra sui poteri di guerra risale ai tempi dell’indipendenza dalla Corona britannica (1776). I federalisti avrebbero voluto limitare i poteri esecutivi del presidente, compresi quelli di guerra, proprio per allontanarsi dal modello inglese. Le costituzioni dei singoli stati americani affidarono infatti blandi poteri di guerra ai governatori, mentre gli articoli della Confederazione non prevedevano una sola persona a capo della politica estera e di difesa. Pochi ricordano, però, che la Costituzione americana (1787) è stata scritta dieci anni dopo l’indipendenza e che, in quei dieci anni, i Padri fondatori hanno intuito la necessità di avere un potere esecutivo energico e indipendente rispetto a quello legislativo. Da pragmatici, in soli dieci anni, gli americani si sono liberati del loro pregiudizio anti potere esecutivo, dovuto alla guerra contro il re d’Inghilterra e hanno creato un modello di separazione dei poteri volto a liberare il potere esecutivo, non a reprimerlo. I Padri fondatori, su questo punto, sono stati influenzati dalle teorie di John Locke e Montesquieu, convinti che il potere di guerra e di pace fosse di natura esecutiva. Alla Convenzione di Filadelfia si arrivò con l’articolo della Costituzione che dava al Congresso il potere di “fare la guerra”, ma su proposta di James Madison, fu ridotto a semplice potere di “dichiarare guerra”. “Separazione dei poteri e pesi e contrappesi sono due cose diverse – spiega Schmitt – I pesi e i contrappesi sono bilanciamenti alla separazione dei poteri volti ad assicurare che ciascun ramo istituzionale resti nel proprio confine di competenze, non per rendere impossibile l’efficacia di governo. Questo è un mito creato tra il 1890 e gli inizi del Novecento dai progressisti che volevano introdurre elementi del sistema parlamentare”. La tendenza è stata, invece, opposta, peraltro già dai tempi di Lincoln, il quale nel 1861 sospese l’habeas corpus senza autorizzazione del Congresso per combattere la guerra civile. Ma è stato Franklin Delano Roosevelt a trasformare la Casa Bianca in quella che, nel 1960, il politologo liberal Arthur Schlesinger ha chiamato “presidenza imperiale”.

Da pagina 1 dell'inserto, un'intervista di Giulio Meotti sulla nacessità di una vittoria in Iraq:

Fouad Ajami arrivò a Musayyb, quaranta miglia a sud di Baghdad, due giorni dopo che i qaidisti avevano massacrato un centinaio di sciiti vicino alla moschea di Ahali. Era l’estate del 2005 e Ajami sarebbe ritornato in Iraq. “Le madri avevano gettato i neonati dai balconi per sfuggire alle fiamme”. Attraversò il “triangolo della morte” con il convoglio dell’allora primo ministro iracheno, Ahmad Chalabi, che lì aveva perso quattro guardie del corpo. Le testimonianze sull’eccidio di Musayyb avevano fatto capire ad Ajami quanto fosse importante “finire il lavoro” iniziato con l’invasione del 2003. Fra i massimi studiosi al mondo di medio oriente, già consulente della Casa Bianca sull’Iraq e storico della Johns Hopkins University, lo sciita libanese Ajami è stato uno dei fautori della guerra, su cui ha scritto “The Foreigner’s Gift”. La condanna di Saddam Hussein è stata un momento fondativo del nuovo corso. “In tutto il mondo arabo è stato espresso orrore per la morte di Saddam, in Libia hanno indetto tre giorni di lutto per quest’uomo”, racconta Ajami al Foglio. “E il melodramma ha raggiunto l’Italia. In Palestina lo si onora come il martire della nazione islamica. Sono stato molte volte in Iraq e posso assicurarle che nessun iracheno partecipa mai alle proteste della piazza araba. Perché nessuno, Giordania, Egitto o Lega araba, protestò contro gli iracheni uccisi da Saddam. L’Unione degli scrittori arabi che ha sede a Damasco si è rifiutata di accogliere gli autori iracheni. Il pretesto è che non possono essere ‘accreditati’ perché il paese è sotto occupazione americana. Ma per trent’anni la vita dell’Iraq è stata di terrore e l’Unione degli scrittori arabi non ha detto una parola. Gli iracheni ricordano il grande silenzio arabo dopo la morte di Zarkawi. La pena di morte non è mai bella, da Baghdad al Texas. Ma perché i liberal non protestarono quando Clinton giustiziò un ritardato mentale?”. Il premier iracheno Nouri al Maliki si è assunto una grande responsabilità. “Non dovevano esserci cellulari all’esecuzione, ma gli uomini non sono angeli e Saddam ha raccolto ciò che ha seminato. E’ stata una retribuzione onorevole. E una questione irachena. Avrei voluto che un tribunale giudicasse i crimini contro i curdi nella campagna Ansal, non solo l’eccidio sciita di Dujail. Maliki non è molto stimato dagli americani reggenti, non parla una parola di inglese. Ma è stata l’America a chiedergli di essere leader. Un memo di novembre di Stephen Headley lamentava che era un premier debole. Ora ha dimostrato di non esserlo. Non un solo sunnita che ho incontrato in Iraq mi ha detto di combattere per Saddam. Non era un tiranno sunnita, solo un tiranno. I popoli della regione sono invidiosi, è chi detta le regole nella regione a essere nervoso sull’Iraq”. La guerra ha messo a dura prova la tenuta americana. “In arabo esiste una bella espressione per distinguere fra errori e crimini. Forse non tutto quanto ha fatto Bush è stato assennato, non saremo stati brillanti. Ma è una guerra nobile e giusta. E’ orfana dell’opinione pubblica, ma all’apice il 70 per cento degli americani era a favore. Abbiamo decapitato un regime sanguinario e dato agli iracheni nuova vita. Non c’è niente di meglio di quanto ha detto Bernard Lewis, che è cautamente ottimista sul medio oriente. L’ottimismo è sull’Iraq, la cautela su Washington. Bush deve tornare a Baghdad, rafforzare il governo, addestrare le truppe e far finta che non ci siano persone come Nancy Pelosi. Maliki ha detto che non può fare niente senza gli americani. Diamogli più potere. Sono contento che abbiano mandato David Petraeus, mio amico, l’uomo che ha liberato Mosul. Ma sono d’accordo con John McCain: venticinquemila uomini non sono sufficienti”. Per capire cosa fosse l’Iraq sotto Saddam Hussein, Fouad Ajami si è recato ad Halabja, dove nel 1988 i baathisti usarono le armi chimiche. “Non ero preparato a quest’abbandono. Avevo visto la povertà in altre parti del medio oriente, ma era troppo perfino per quegli standard. In una radura ai piedi della collina era stato eretto un monumento alle vittime di Halabja. Ho fatto visita al cimitero, dove un appezzamento era stato riservato a una famiglia di ventiquattro persone massacrate quel giorno. Era il fardello della storia del Kurdistan e dell’Iraq”. L’Afghanistan è stato il primo campo di battaglia contro il radicalismo arabo. “Quella terra impoverita e disperata era stata sequestrata dai jihadisti arabi, mentre l’Iraq era stato avvelenato da un arabismo razzista. La campagna americana non ha rovesciato solo un uomo, ma una setta etnica religiosa, gli arabi sunniti. La guerra andava portata nel mondo arabo”. Per Ajami sono pretestuose le accuse al governo di non aver fatto abbastanza per coinvolgere i sunniti. “Gli Stati Uniti hanno trascorso il 2006 a rincorrere i sunniti, nonostante le bombe nei mercati, le stragi dei poliziotti e i jihadisti arabi provenienti dai paesi vicini che colpiscono gli sciiti solo per la loro fede. Per tre anni, il terrorista giordano Abu Musab al Zarkawi ha portato morte e macerie in Iraq. Un wahabita saudita pensa che gli sciiti siano ‘eretici’, i curdi ‘traditori’ e gli americani ‘crociati’. Ho fatto parte del team americano che ha incontrato l’ayatollah Ali al Sistani, un grande uomo contrario al governo teologico- politico. Sistani ha fatto di tutto perché gli sciiti non entrassero in guerra con i sunniti. Ma al Qaida ha colpito Samarra e sgozzato migliaia di sciiti. Quando le bombe di massa non hanno funzionato, ha portato la morte a Sadr City. I risultati erano prevedibili: le squadre della morte del Mahdi. Zalman Khalilzad è stato sempre in prima linea e ha investito tutto sui sunniti. Non è andata, pazienza. Abbiamo liberato milioni di persone e il popolo arabo ha il suo miglior amico in Bush, non in monsieur Chirac e nel signor Prodi. Se sei in Iraq e hai sognato per anni la libertà, la libertà di respirare e scrivere e votare, non chiami Parigi, ma Washington e Londra, Tony Blair e Mr. Berlusconi. Un presidente americano che non sapeva fare la guerra ha proclamato la libertà nelle terre islamiche e ha detto che gli arabi non hanno la dittatura nel Dna. L’America ha liberato il Kuwait dalla tirannia saddamita. Poi ha salvato i musulmani bosniaci dalla morsa di Slobo. E’ passata ai kosovari e ai venti milioni di afghani”. Ajami prova pena per l’antagonismo islamico verso gli Stati Uniti. “C’è gratitudine per loro in Iraq, ma non è stata espressa nel modo che gli americani volevano. Zuhair Chalabi, ministro dei Diritti umani, mi ha detto che questo paese è orgoglioso della guerra ma ci vorrà tempo perché la gratitudine venga alla luce. Winston Churchill nel 1922 parlò dell’Iraq come di un ‘vulcano ingrato’”. Il disfattismo non è concesso. “La libertà non è mai gratuita e dopo una lunga tirannia, la democrazia non funziona facilmente. E’ in corso una grande guerra in Iraq. E’ positiva la situazione? No. E’ bello vivere oggi a Baghdad? No. Il Parlamento e il processo politico sono stati inondati dalla violenza. Ma c’è la luce e ci sono le tenebre in Iraq. Prova a paragonare l’Iraq con gli stati che lo circondano, despoti, corrotti e satrapi. La democrazia è stata un ‘dono’ di redenzione all’intero mondo arabo. L’Iraq è una promessa del medio oriente, intorno c’è stagnazione e tirannia”. Ne è un esempio Jalal Talabani. “Dovrebbe essere un uomo cinico per quanto hanno sofferto i curdi. Invece la gioia che mette nei rapporti umani e la fede che riserva per il futuro dell’Iraq, credimi, è quasi contagiosa. Trasuda ottimismo. Una delle cose che ammiro di più dell’esperimento iracheno è che c’è un curdo come capo di stato. Un assistente di Talabani, Aram Yarwaessi, un giovane elegante dall’accento british, aveva iniziato un’attività commerciale in Inghilterra prima di entrare nello staff di Talabani. Suo padre era stato collega di Talabani e uno dei fondatori dell’Unione patriottica del Kurdistan. Nel 2003 è stato assassinato da un gruppo associato ad al Qaida, Ansar al Sunna. Le colline del Kurdistan sono lontane da Londra, ma quest’uomo non aveva dubbi sul suo scopo: lavorare per una repubblica laica che garantisse ai curdi ciò che spettava loro. Il vice primo ministro Barham Salih non vive nelle montagne del Kurdistan, ma a Baghdad”. L’Iraq è un vulcano della guerra di civiltà fra libertà e terrore. “E’ un magnete per i jihadisti giordani e siriani, libanesi, sauditi, palestinesi e iraniani. Non era un mistero che i jihadisti sarebbero arrivati in Iraq. Ricordiamo l’incontro fra Mohammed Atta e l’agente dell’intelligence irachena Ahmad al Ani a Praga. C’erano americani da uccidere e montagne di denaro per i mercenari. Gli arabi che entrano in Iraq sono muli che portano denaro all’insorgenza”. Il tracollo del potere a Baghdad conteneva la promessa di un nuovo ordine. “Sarebbe sorto in Mesopotamia uno stato laico, democratico e certamente più ricco dei suoi vicini. Gli americani hanno annunciato l’obsolescenza dell’ordine che dettava legge nelle terre confinanti. Ma la pazienza non è una virtù americana e i nostri nemici hanno trovato questo tallone di Achille”. La libertà “americana” ha oggi due confini con i regimi siriano e iraniano. “Non dobbiamo farci illusioni sui vicini arabi dell’Iraq, sono felici di vedere umiliata l’America. Per questo le élite arabe stanno investendo nei jihadisti. Abbiamo dimenticato che il terrore in America è stato portato da diciannove islamisti sunniti, non sciiti, e che è stato un giordano di Zarka ad aver diffuso la morte nelle strade dell’Iraq. Dobbiamo accettare che gli sciiti siano forti perché i numeri contano. Gli arabi sciiti non hanno mai guidato nel mondo islamico, tranne un breve periodo nel X secolo. A Baghdad però non c’è un governo sciita: Talabani è curdo, sunnita è il vicepresidente al Hashimi e il ministro degli Esteri Zebari è curdo. Anche lo speaker del Parlamento è sunnita”. Sarebbe fatale rivolgerci a Siria e Iran. “Dimentichiamoci di entrare nel loro bazaar, sono loro che non vogliono discutere con il nuovo Iraq. Ahmadinejad si è convinto che la storia è dalla sua parte e che l’America è una ‘bestia ferita’ in Iraq. Se una branca moderata dello sciismo assumesse il controllo dell’Iraq, ci sarebbero ripercussioni per i guardiani della teocrazia iraniana. Sono stato a Najaf e nessuno parla di stato teocratico. L’Iraq non è il Libano, dove la repubblica iraniana si è assicurata una presenza sul mediterraneo. L’Iraq è un grande paese con le proprie risorse e Najaf è il sole intorno a cui ruotano tutti i pianeti sciiti. Talabani mi ha detto: ‘Sono preoccupato sì e no dell’Iran. Dipende da noi iracheni. Possiamo avere relazioni con gli iraniani se facciamo ordine in casa’”. Un mito fondatore della controinformazione è l’insistenza sulla laicità del vecchio regime. “Negli anni finali del regime, intorno al 2000, la tirannia baathista si era reinventata come uno stato islamico conservatore. In quel periodo furono decapitate alcune prostitute e venne allestito uno show contro il consumo pubblico di alcolici. Saddam lanciò una campagna di costruzione delle moschee, le moschee non finite che trovi per tutta Baghdad. Non è stata una sorpresa che i baathisti si siano reincarnati negli islamisti. Per i nemici dell’America era ovviamente importante che la potenza straniera venisse costretta a fare le valigie e ad andarsene”. I migliori giovani d’America si trovano in Mesopotamia. “Conosco generali, soldati semplici, capitani e sergenti e non ci sono mai telecamere per loro. Né per gli iracheni ordinari. Gli americani sono lì da quattro anni e rischiano di saltare su una bomba in ogni strada che imboccano. Stanno svolgendo un lavoro monumentale. Mi sento orgoglioso, ho visto con i miei occhi come lavorano sul campo. In un compound fortificato a Kirkuk ho incontrato due ispanici, Robby Gonzales e Mario Fernandez. Mario, padre di tre bambini, mi ha detto: ‘Sono cresciuto in una piccola città del Texas occidentale. Scuola pubblica, college, facoltà di legge. Pensavo di dover dare qualcosa in cambio. Questo popolo meritava una rottura significativa’. Era a Kirkuk, la città più ‘complicata’ dell’Iraq. Ma Mario e Robby mostravano profonda serenità”. La leadership europea non ha capito che la guerra non è solo sull’Iraq. “E’ una battaglia molto più profonda fra le forze della libertà e quelle dell’islamismo. E’ stato Israele il primo campo di battaglia di questa guerra fra la vita e il terrore: lì le discoteche e le pizzerie e gli autobus sono diventati obiettivi del terrore. Lì i cultori della morte hanno perfezionato i loro rituali dell’omicidio di massa, videotape e poster dei ‘martiri’. L’Europa presto capirà che non poteva permettersi di guardare dalla finestra il carnaio iracheno. Il pacifismo europeo è una forma di nichilismo, un falso mondo in cui Aznar viene sostituito da Zapatero e Berlusconi da Prodi. Gli europei non hanno idea di quale inferno ci sia al fondo del mondo islamico. E non c’è bisogno di essere Oriana Fallaci per capire che è un’illusione pensare che se non attacchiamo gli islamisti loro saranno gentili con noi. E’ una pericolosa utopia e una falsa pace. Allora dico: good luck to them!”.

Infine, un'intervista di Amy Rosenthal allo storico Michael Oren a proposito del suo nuovo libro sulle le relazioni tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente dal 700 ad oggi:

Nel suo nuovo libro – “Power, Faith & Fantasy: American in the Middle East: 1776 to the Present” (W.W. Norton, 2007) – Michael Oren ricostruisce i tre principali temi che hanno caratterizzato le relazioni degli Stati Uniti con il medio oriente dal Settecento a oggi. Il libro è in uscita in questi giorni negli Stati Uniti, dove Oren è impegnato in un tour di promozione, e segue un bestseller dedicato alla Guerra dei Sei giorni. Ma sono 25 anni che lo storico israeliano vuole scrivere un libro come questo. “L’idea mi è venuta quando ero ancora studente a Princeton – racconta al Foglio – Nel corso dei miei studi avevo scoperto un certo numero di fatti poco noti sulla storia dell’America in medio oriente nei secoli XVIII e XIX; e ricordo che avevo cercato un libro dedicato a questo tema, ma invano”. Oren beve un sorso di caffè e aggiunge: “E dopo venticinque anni un libro di questo tipo ancora non c’è! E’ una cosa davvero stupefacente visto che l’America oggi è profondamente coinvolta in medio oriente e nessuno sembra avere la minima idea di questa storia. Così, quando il mio editore mi ha chiesto: ‘Qual è il libro sulla regione che non è ancora stato scritto e che deve esserlo assolutamente?’, ho risposto senza esitare: ‘La storia del coinvolgimento americano in medio oriente’”. Cercando di smontare la tesi superficiale secondo cui Washington è legata al medio oriente soltanto per gli interessi petroliferi o la difesa di Israele, Oren intende approfondire la comprensione di questo coinvolgimento inserendolo in un contesto storico più vasto. A questo scopo, dimostra come esso sia iniziato negli anni immediamente successivi alla conquista dell’indipendenza, il 4 luglio 1776. La prima guerra combattuta dall’America fu infatti proprio contro il medio oriente: “Dal 1783 al 1815 gli Stati Uniti hanno combattuto contro i pirati nordafricani provenienti da Libia, Marocco, Algeria e Tunisia. Fu una guerra spietata, in cui l’America subì parecchi rovesci, ma fu anche di estrema importanza perché i pirati stavano distruggendo il commercio estero americano e quindi minacciavano di annientarla sul piano economico”. Oltre ai pirati, Oren ci racconta la sua più affascinante scoperta: l’influenza che il medio oriente ha avuto sulla Costituzione americana e sulla formazione della marina statunitense, che fu creata per combattere contro gli arabi. Con l’entusiasmo di un ragazzo, spiega: “Quando, nel 1787, i delegati dei tredici stati si riunirono a Filadelfia per discutere la trasformazione degli articoli della federazione in una vera e propria Costituzione, gli Stati Uniti non avevano ancora un presidente e una capitale, e il governo non aveva la capacità di imporre tasse. Tuttavia, nel maggio del 1787 c’erano 127 americani tenuti prigionieri in medio oriente dai pirati nordafricani. Perciò molti delegati dissero: ‘Non possiamo difenderci da questi pirati se non abbiamo una flotta’; ma, ovviamente, non si può avere una flotta se non si ha un governo centrale capace di imporre tasse: e questo richiedeva una Costituzione. Così, quel conflitto contribuì a rafforzare la posizione dei Federalisti, che volevano la Costituzione e dicevano: ‘Se non ci dotiamo di una Costituzione, non potremo avere una flotta e ben presto gli algerini e i libici si abbatterano sulle nostre coste e ci porteranno via le nostre donne e i nostri bambini’. Era una motivazione convincente”. Passando al XIX secolo, Oren sottolinea il ruolo dei missionari americani, che “contribuirono a creare le prime scuole e università moderne, come le American University del Cairo e di Beirut, nonché il Roberts College in Turchia, grazie alle quali si sviluppò il concetto di nazionalismo. Infatti, molti giovani laureati di queste università diventarono giornalisti ed editori, attivamente impegnati nella promozione dei movimenti nazionalisti, soprattutto in Egitto”. Un altro episodio poco noto raccontatoci da Oren riguarda la Statua della Libertà, “che è stata una conseguenza diretta del coinvolgimento dell’America in medio oriente”. La statua doveva essere collocata all’entrata del Canale di Suez, “avrebbe dovuto rappresentare una donna araba con in mano una torcia; ma quando, nel 1869, l’Egitto finì in bancarotta e non poté più permettersi di acquistarla, lo scultore francese Frédéric Auguste Bartholdi la vendette agli americani. Tutto quello che fece fu trasformare la donna da araba in americana”. Poi ci furono i viaggi. Nel XIX secolo gli americani furono i principali turisti del medio oriente. Andavano letteralmente pazzi per quella regione, “Mark Twain divenne Mark Twain proprio grazie al suo viaggio in medio oriente”. Oren fa anche una critica a Edward Said e alla sua teoria dell’orientalismo. L’intellettuale palestinese che ha guidato il dipartimento di studi mediorientali della Columbia University “ha scritto che in ‘quattrocento anni di orientalismo’ non è riuscito a trovare un solo esempio ‘di letteratura scientifica sulla regione che non fosse colma di intolleranza, bigottismo, pregiudizio e odio nei confronti dell’islam e degli arabi’. Nel mio libro dimostro che questo non è vero. Edward Salisbury, il primo professore di arabo a Yale, era affascinato dall’islam. Salisbury cercò di costruire un ponte di comprensione tra l’America cristiana e l’area mediorientale. Detto questo, nel libro non nego affatto che vi siano pregiudizi nei confronti di questa regione”. Oren smette di parlare, scuote la testa e poi aggiunge: “No, non lo nego, ma voglio dimostrare che il quadro è molto più articolato”. Perché “non si tratta soltanto di accaparrarsi il petrolio e di dominare i popoli, né tantomeno esclusivamente di offrire libertà e democrazia, ma di una combinazione di entrambe le cose. Comunque, la bilancia pende molto più verso l’aiuto per gli altri popoli che verso il loro dominio”. Bevendo l’ultimo sorso del suo caffè, Oren ribadisce: “Molto di più”.

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