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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.01.2006 Reazione a catena
l'Arabia Saudita e i paesi del Golfo, spaventati da un'Iran nucleare, pensano a una loro bomba

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 gennaio 2006
Pagina: 17
Autore: Federico Fubini
Titolo: «I sauditi pensano al nucleare per fermare gli ayatollah»
Dal CORRIERE della SERA del 9 gennaio 2007: 

Tutto è iniziato con tanta studiata modestia da sfuggire o quasi a chi non avesse già i nervi sul filo. A metà dicembre i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo si sono visti poche ore a Riad e hanno fatto partire una dichiarazione pesata alla virgola. I soci del vertice arabo, si legge, «hanno commissionato uno studio degli Stati aderenti al Consiglio di cooperazione del Golfo per mettere in piedi un programma comune nel campo dell'energia nucleare con scopi pacifici e in base a criteri e ai sistemi internazionali». Passano poche settimane, poi alla nuova cordata di aspiranti all'uranio arricchito — Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman e Qatar — chiede di unirsi lo Yemen. E con il trascorrere dei giorni gli stessi analisti sauditi, anche i più vicini ai problemi di sicurezza del regno, non tardano a mettere allo scoperto le contraddizioni. A cosa serva il nucleare civile a un club che regna sulle più vaste riserve di petrolio al mondo non è chiaro, ancor meno visto che il Golfo non soffre dei ritardi nella raffinazione che affliggono l'Iran. Per i signori feudali dell'area, carichi di petrodollari dopo uno choc sui prezzi simile a quello dei primi anni '70, investire nella trasformazione del greggio sembra comunque più agevole.
Subito il principe Saud Al Faisal, ministro degli Esteri di Riad, si è affrettato a dare tutte le giustificazioni non richieste: «Non vogliamo bombe, puntiamo a una regione libera dalle armi di distruzione di massa. Per questo chiediamo a Israele di rinunciarvi». Il Paese che il principe della dinastia sunnita dei Saud ha invece evitato di citare è ovviamente l'Iran sciita. L'altra potenza della regione che insegue il nucleare «a scopi pacifici». Del resto della corsa all'arricchimento ingaggiata da Mahmoud Ahmadinejad aveva parlato settimane prima Abdullah Bishara, ex segretario generale del Consiglio di cooperazione del Golfo. «Il programma nucleare di Teheran sconvolge gli equilibri di potere nell'area e fa dell'Iran la potenza dominante — protesta Bishara —. La nostra posizione dev'essere unitaria, forte e chiara».
Non che il Consiglio di cooperazione del Golfo, da solo, in realtà possa fare granché. Più che un'alleanza, è una vaga assise di cooperazione economica che accarezza l'idea di una moneta comune.
Ma anche una sigla di principati feudali raccolti attorno all'Arabia Saudita può servire a Riad per camuffare la propria determinazione a non lasciarsi schiacciare dall'Iran. Chi conosce da vicino le strategie saudite, assicura che il «programma comune per l'energia atomica» del Golfo nasce come una risposta a Teheran e, nelle intenzioni, va sviluppato nello stesso modo. Civile contro civile ma, se serve, militare contro militare.
La degenerazione della guerra civile in Iraq è stata probabilmente il fattore decisivo. Quello su cui la stessa casa regnante saudita si lacera. Lo ha messo in chiaro un mese fa un commento sul Washington Post di Nawaf Obaid, direttore del «Progetto nazionale di valutazione della sicurezza» di Riad, consigliere del governo e, fino a qualche giorno fa, dell'ambasciatore a Washington Turki al-Faisal. Se gli americani si ritirano, ha avvertito Nawaf Obaid, l'Arabia Saudita sarà spinta a intervenire in Iraq per proteggere la minoranza sunnita e «ridimensionare l'influenza iraniana». Quel commento sul «Post» è bastato perché da Washington Turki al-Faisal, fratello del ministro degli esteri Saud al-Faisal, licenziasse in tronco Obaid. Ma lo stesso ambasciatore ha dovuto lasciare a sua volta una settimana dopo. E in pericolo appare ora persino la poltrona di suo fratello, capo della diplomazia da trent'anni e come lui esponente dei sauditi più moderati in politica estera. Voci insistenti danno proprio in questi giorni il re Abdullah pronto a un rimpasto in cui salterebbe anche Faisal. Con l'Iraq in fiamme e l'Iran (quasi) nucleare, la blanda diplomazia dei petrodollari è forse al crepuscolo. Dietro sgomita quella dell'uranio arricchito.

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