Più truppe, ma per fare cosa? analisi sulla strategia di Bush in Iraq
Testata: Il Foglio Data: 09 gennaio 2007 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca - Giulio Meotti - Victor Davis Hanson - la redazion Titolo: «Bush vuole fare la guerra e ricostruire Baghdad. Democratici in panne - Mark Steyn denuncia il pessimismo sull'Iraq e il penoso spettacolo di un paese che non usa la propria potenza militare - Da Demostene a Bush. ecco quando serve aumentare le truppe»
Dalla prima pagina del FOGLIO del 9 gennaio 2006, un articolo di Christian Rocca:
Milano. Cominciano a circolare le prime indiscrezioni sulla nuova strategia globale sull’Iraq che nelle intenzioni della Casa Bianca dovrebbe segnare una svolta militare, ma anche politica, economica e diplomatica già nelle prossime settimane. George W. Bush presenterà il nuovo piano agli americani con un discorso di venticinque minuti in diretta televisiva mercoledì alle nove di sera, le tre del mattino in Italia. La situazione è molto delicata, non soltanto dal punto di vista strategico-militare. Non è, infatti, una semplice questione di aumento del numero dei soldati americani in Iraq. Il punto è se Bush annuncerà – come è probabile visto il ribaltone di militari e di civili al Pentagono e al dipartimento di stato – un cambiamento radicale di strategia e se riuscirà poi, una volta presentato il nuovo piano, a ottenere il necessario consenso dell’opinione pubblica e del sistema politico americano. Le anticipazioni parlano di un invio in Iraq di ulteriori ventimila uomini, principalmente a Baghdad, con l’obiettivo di rendere sicura la città. Un tentativo simile, ma senza l’aumento delle truppe e soltanto nelle zone sunnite, era stato già provato l’anno scorso, ma l’operazione congiunta americana e irachena era fallita, perché una volta liberate le zone dai guerriglieri l’esercito americano rientrava nelle basi. Dopo pochi giorni i gruppi paramilitari riprendevano il controllo, perché le forze di sicurezza irachene non erano in grado di mantenere la sicurezza del quartiere. La nuova strategia di Bush punta a liberare le zone occupate e a restare in loco, garantendo la sicurezza ai cittadini e avviando seduta stante la ricostruzione, come è accaduto in altre province. Alla Casa Bianca parlano di un vero e proprio Piano Marshall per l’Iraq, per il quale Bush chiederà al Congresso il raddoppio dei fondi e un miliardo di dollari per un immediato piano di coinvolgimento della popolazione nella ricostruzione dei quartieri appena liberati. Ai comandanti americani sarà data la facoltà di spesa e di assunzione, mentre Bush chiederà al governo iracheno di impegnarsi in modo preciso a rispettare una serie di impegni politici (partecipazione dei sunniti, allentamento della de-baathificazione ed elezioni provinciali), economici (la legge sulla redistribuzione dei proventi del petrolio), e di sicurezza (fermare le milizie di Moqtada Sadr). Bush dovrà affrontare tre diversi ostacoli. Il primo, ovviamente, è il nemico da sconfiggere militarmente in Iraq, cioè i terroristi di al Qaida, i nostalgici sunniti del dittatore, le violente milizie sciite di Moqtada al Sadr e gli agenti di influenza iraniani. A Baghdad, però, c’è anche il problema di Nour al Maliki, il cui governo – secondo molti osservatori – è animato da un eccessivo pregiudizio antisunnita, oltre che simpatetico con le squadracce di Moqtada. Infine c’è il fronte interno con i democratici alla guida del Congresso e con una buona fetta di senatori repubblicani scettici sulle nuove proposte.
La linea di Joe Biden Il consenso alla nuova strategia è necessario, hanno fatto notare quei commentatori che in questi anni hanno criticato l’approccio “leggero” ideato da Donald Rumsfeld e dai suoi generali. Le esperienze passate dimostrano che un’escalation politica e militare può avere successo soltanto se accompagnata da una leadership capace di cambiare strategia e di saperla difendere di fronte alle avversità. I democratici sono divisi. Hillary Clinton ha detto che non si pronuncia fino a quando non avrà ascoltato Bush. Barack Obama sostiene che un piccolo aumento delle truppe non cambierà nulla. Il deputato Dennis Kucinich ha presentato a New York il suo piano per porre fine alla guerra, così come farà Ted Kennedy domani a Washington. La leader alla Camera, Nancy Pelosi, ha detto che Bush dovrà motivare per bene la sua richiesta e ha proposto alla Casa Bianca di presentare le domande di finanziamento della nuova strategia tenendole separate dai costi dell’attuale presenza in Iraq. In questo modo i democratici potrebbero votare no all’aumento delle truppe senza essere costretti a togliere i finanziamenti ai soldati già impegnati in Iraq e passare per antipatriottici. E’ stato uno dei leader del suo stesso partito, il senatore Joe Biden, a dire che la proposta non ha alcun senso e che, una volta autorizzato il presidente a fare la guerra, il Congresso non ha alcun potere costituzionale di gestire l’intervento dicendo questo sì e questo no, né di imporre a Bush di fermarsi. L’arma a loro disposizione resta quella delle audizioni al Congresso e, infatti, da mercoledì sfileranno Condi Rice, il boss del Pentagono Bob Gates e il capo di stato maggiore Peter Pace. Sono soltanto due i pezzi da novanta schierati con l’idea di intraprendere una strategia più offensiva: il repubblicano John McCain e il democratico-indipendente Joe Lieberman, i quali però avvertono che un piccolo aumento di truppe sarebbe l’errore più grande che il presidente possa fare. Entrambi, venerdì, hanno parlato all’American Enterprise Institute dove è stato presentato il piano “Choosing Victory”, scritto dall’analista Frederick Kagan e dall’ex generale Jack Keane e che sembra essere alla base della nuova strategia irachena che Bush si appresta a presentare mercoledì. Due analisti militari come Bing West e Eliot Cohen suggeriscono a Bush di minacciare il disimpegno, nel caso il governo iracheno non rispettasse i patti. I due esperti ricordano inoltre che l’ottanta per cento dei miliziani catturati dagli americani – e poi consegnati alle autorità irachene – viene rilasciati dopo un paio di giorni. Il risultato paradossale è che nelle carceri di Baghdad c’è un numero di detenuti otto volte inferiore rispetto a quello di New York. Il governo Maliki ha annunciato un suo piano per la sicurezza, coordinato con quello americano. E’ probabile che una delle richieste sarà quella di appaiare nuove truppe irachene ai ventimilia soldati americani. Il premier di Baghdad già altre volte si era impegnato a disarmare le milizie di Moqtada, ma non l’ha mai fatto. Stavolta sembra essersi deciso, anche perché c’è il rischio che il successivo piano di Washington, nel caso questo fallisca, possa essere il ritiro immediato. Nel frattempo, a Najaf, l’ayatollah Ali al Sistani ha chiesto al ribelle Moqtada di rientrare al governo e di sostenere l’impegno di Maliki. Le nuove e più decise regole d’ingaggio americane in Iraq – preannunciate da Bush a un gruppo di senatori dei due partiti, venerdì alla Casa Bianca – sono il risultato della riscrittura del manuale antiguerriglia preparato dal generale David Petraeus, il prossimo capo delle operazioni militari in Iraq. Petraeus è considerato una delle menti più brillanti del Pentagono e tutti esaltano le sue capacità militari e anche il modo in cui sopravvisse a un proiettile di un M-16 che una recluta gli aveva sparato per errore sul petto (fu salvato da un’operazione di cinque ore condotta dall’ex leader repubblicano al Senato Bill Frist). Il vice di Petraeus a Baghdad sarà Raymond Odierno, il tenente-generale che catturò Saddam Hussein e il cui figlio ha perso un braccio a Baghdad. Odierno ha detto ai giornalisti che i primi effetti del nuovo piano di sicurezza si potranno valutare tra agosto e settembre, ma che per vincere saranno necessari “due o tre anni”.
Da pagina 2 dell'inserto, un'intervista di Giulio Meotti a Mark Steyn:
Nel giugno del 2003, lo scrittore canadese Mark Steyn va in Iraq per conto dello Spectator. Trascorre una serata a Tikrit, la città natale di Saddam Hussein: “Ho percepito un brivido di minaccia, ma certo meno forte di quello che provo, per esempio, nel sud di Londra o nei sobborghi di Parigi. Indossavo giacca e cravatta e avevo con me molti soldi in contanti, cose che non faccio mai a Londra dopo che è calata la notte”. Cosa è andato storto? Secondo Steyn è successo che gli Stati Uniti non sono stati più percepiti come il “cavallo forte”, per usare la definizione di Osama bin Laden. Autore del best seller “America alone” e stuntman letterario di una decina fra quotidiani e magazine in lingua inglese, Mark Steyn è stato uno dei più accesi fautori dell’invasione dell’Iraq. “Ero seduto alla Casa Bianca con un’altra manciata di editorialisti – racconta Steyn al Foglio – Non ero il solo straniero, c’era anche un busto di Winston Churchill. Bush disse che in Iraq è in corso una ‘battaglia ideologica’. Dopo quattro anni, la mia unica recriminazione è non aver invaso prima il paese. Saddam era il simbolo del mondo prima dell’11 settembre e una sua permanenza al potere avrebbe decretato la nostra debolezza. Nelle parole di Donald Rumsfeld, la debolezza è una provocazione. Lev Trotskij diceva che ‘puoi non essere interessato alla guerra, ma è la guerra che si interessa a te’”. Steyn non accetta l’espressione “guerra civile” per l’Iraq: “Un simile quadro prevede movimenti di popolazione su larga scala, ammutinamenti nell’esercito e ribelli che assumono il controllo della radio. Non vediamo niente di tutto questo. I curdi hanno siglato un grande accordo e gli sciiti hanno accettato. I sunniti no, è triste ma non fatale. Non sono mai stato a favore di ‘conquistare i cuori e le menti’ degli iracheni. Se la cavano meglio dei Democratici americani. Se aspetti l’unanimità, aspetti in eterno. I Padri Fondatori stabilirono che tredici stati erano sufficienti per procedere con l’indipendenza e il Rhode Island e il North Carolina non erano della partita all’inaugurazione di George Washington. Oggi in 14 su 18 province dell’Iraq si vive meglio che durante qualunque altro periodo di cui gli iracheni si ricordino. A dicembre il 70 per cento ha detto che la vita è buona e che il prossimo anno andrà meglio. Contro il 29 per cento dei francesi e il 15 dei tedeschi. 16 su 18 province, comprese alcune a maggioranza sunnita, hanno votato per la costituzione più liberale, democratica, federale e pluralista del medio oriente. A volte la guerra ne vale la pena: l’Iraq ha il potenziale di una società libera in una parte del mondo in cui una cosa simile non è mai esistita”. Ciò che fa più sperare è la nuova carta dei diritti che inizia così: “Noi figli della Mesopotamia, terra dei profeti”. “La costituzione irachena è migliore di quella dell’Unione europea. Dice che l’Iraq è ‘parte del mondo islamico’, non una ‘repubblica islamica’ come l’Iran. E a differenza di Giscard d’Estaing, i ragazzi di Baghdad hanno capito che una costituzione prevede divisione e limitazione dei poteri. Le immagini televisive di Baghdad raccontano di un disastro e confusione. Ma la storia è quella di una nazione che si muove. Il Triangolo sunnita è come l’Irlanda del nord, il Kurdistan è la Scozia e il sud sciita l’Inghilterra. Quando Dominique de Villepin, la Bbc e il New York Times concordano che la polveriera irachena sta per scoppiare, si può scommettere che sta andando a gonfie vele. Nel 2002 Arm Moussa, (segretario della Lega araba, ndr) disse che l’invasione avrebbe ‘minacciato la stabilità del medio oriente’. Che scoperta!”. Il numero dei marine caduti non è disastroso: “E’ pari alle vittime in Vietnam nel solo maggio del 1968. Bush ha realizzato l’intervento occidentale più straordinario nella regione da quando Allenby entrò a Gerusalemme. Il presidente americano è impegnato nella riforma di quarant’anni di disastrosa politica del Dipartimento di stato, una ambiziosa riscrittura della regione a cui nessuna potenza europea ha mai ambito, neanche al culmine dell’impero”. E’ inconsistente il paragone con il Vietnam. “Di solito si dice che il Vietnam è stato perso in televisione. La guerra irachena è stata persa solo in tv. In Iraq si tratta di una vittoria storica. L’unico paragone con il Vietnam è che allora come oggi, per l’America si tratta di scegliere tra la vittoria e la sconfitta autoinflitta”. Veniamo all’impiccagione di Saddam Hussein. “Ero a favore dell’esecuzione di Saddam, ma avrei preferito che gli sparassero un colpo in fronte non appena catturato. Aveva ragione Churchill, persone come lui non hanno diritto di difendersi in tribunale. Fucilarlo subito sarebbe stato più facile per voltare pagina e guardare avanti. Che figura ha fatto la cosiddetta giustizia con Slobo Milosevic?”. Non potrà mai esserci autentica giustizia per chi ha sterminato tanto. “Ci può essere solo retribuzione. Il grido ‘Moqtada Moqtada Moqtada’ mi ha fatto vomitare, Saddam meritava una morte onorevole. Ma il fatto che non ci sia più l’uomo che si era promosso come il nuovo Saladino e che pagava 25 mila dollari i kamikaze palestinesi, beh questo mi rende felice”. Sulla reazione pietista dell’Europa Steyn aggiunge: “Tim Hames del Times ha scritto che ‘il sentimento della middle class in Europa oggi vede la pena di morte eticamente corrotta quanto i crimini che hanno prodotto la sentenza’. ‘Sentimenti della middle class’ significa ‘persone che incontro nei party serali’. Le dittature sono psicologicamente difficili da liberare. In tutto il mondo i thugs genocidi islamici avranno pensato: ‘Il cowboy sionista lo ha fatto davvero’. Saddam è morto a causa di Bush che lo ha catturato e del sistema di giustizia iracheno che lo ha processato, non c’entra Moqtada al Sadr. ‘Gioite gioite’ diceva Margaret Thatcher dopo la liberazione delle Falkland. La postura dell’Europa è decadente e indulgente, un sintomo del suo pseudo potere narcisistico. Il re è morto, il prossimo dovrebbe essere Moqtada. Avremmo fatto meglio a giustiziarlo due anni fa”. Un incremento di truppe non sarà decisivo. “L’America è responsabile del quaranta per cento della spesa militare del pianeta. Non è in grado di controllare trenta miglia nel deserto? Puoi avere i migliori tank del mondo, ma se non sei disposto a usarli non vai da nessuna parte. Tre anni fa, quando era chiaro che Siria e Iran stavano violando i confini impunemente, gli americani dovevamo fare quello che hanno fatto gli inglesi in Indonesia quarant’anni fa: uccidere il nemico, casa per casa. Non sono mai stato fra coloro che pensavano che mandare più truppe avrebbe risolto i problemi dell’Iraq, non è mai stata una questione di numeri e fondi. Se deve proprio esistere una zona verde, deve trovarsi al confine con la Siria. Poche settimane dopo la caduta di Saddam, ero al confine siro-iracheno con la terza divisione della fanteria e scherzavamo su quanto dovessero essere nervose le guardie di Assad. L’umiliazione degli Stati Uniti si concluderebbe con l’America trasformata in zona verde. Siamo solo noi a parlare di ‘exit strategy’ sull’Iraq, l’Iran no. Bill Clinton ha detto: ‘Qualcuno all’epoca della mia presidenza diceva: ‘Se non vi muovete contro queste persone penseranno che sei debole’. Ho sempre chiesto per otto anni: possiamo ucciderli domani? Dobbiamo cercare una alternativa’. Il problema è che domani non arriva mai”. L’Iraq è dunque un test sulla volontà dell’America. “Il problema non è Baghdad, ma Washington. La mia preoccupazione è un’alleanza fra la resa democratica e il realismo repubblicano. I repubblicani alla James Baker sono meno razionali di Ahmadinejad, sono la perfetta reductio ad absurdum dell’adulazione diplomatica. Negli ultimi giorni abbiamo scoperto che l’Iran ha interesse a sostenere milizie sciite e sunnite. Persone come Jim Baker e Lee Hamilton non riescono a capire e domandano: ‘Ma perché l’Iran dovrebbe farlo?’. La risposta è perché l’Iran ha capito che la guerra non è sull’Iraq, ma sull’America. E finanziare la morte è il miglior modo che Teheran ha per rendere debole gli Stati Uniti. Negli ultimi due anni abbiamo assistito al penoso spettacolo di un paese che non ha intenzione di usare la propria potenza militare. Il 12 settembre 2001 Richard Armitage chiamò il presidente pakistano Musharraf e disse: ‘O stai con noi, o sei finito’. Musharraf non ci pensò due volte. Gli ultimi due anni di guerra sono stati un ritorno al 10 settembre”. La guerra ha decretato il fallimento del Dipartimento di stato. “Un problema dell’Iraq sono state persone come Paul Bremer, non sarebbe mai dovuto andare a Baghdad, al massimo Ginevra e Parigi. L’America non è il Belgio con il Congo, non abbiamo istituzioni pronte per una invasione. E il Dipartimento di stato ha fallito in tutto con l’Iraq, ha coinvolto i Dipartimenti dell’agricoltura ed educazione americani, che avevano già fallito negli Stati Uniti. Se pensiamo di finire il lavoro in anticipo, allora è meglio se torniamo a casa a guardare la tv”. All’Iraq servirebbe un Pinochet. “Il generale Augusto Pinochet ha fatto per la democrazia cilena, i diritti umani e la democrazia mondiale più di tutto il corpo giuridico internazionale. Non amo i dittatori, vorrei che ogni essere umano godesse della libertà di cui beneficio io nel New Hampshire. Ma il mondo ideale non esiste e in quello reale ci sono due tipi di dittatori. Tipi come Saddam e Kim Jong Il, satrapi che vogliono distruggere il proprio paese e renderlo una glorificazione vivente della propria persona. E tipi come Pinochet e Franco, che hanno lavorato per trasformare la dittatura in democrazia”. In un’intervista al quotidiano belga De Standaard, l’umanista gay olandese Oscar van den Boogaard, riflettendo sull’islamizzazione dell’Europa, ha detto: “Non ho mai imparato a battermi per la mia libertà, sono stato capace solo di goderne”. “Troppi di noi sono solo capaci di godere della libertà. Il secolarismo europeo è esausto. La demografia è tutto ed è il motivo per cui gente come Baker e Hamilton, feticisti della ‘stabilità’, sono anziani signori che si illudono di contenere i problemi. ‘Contenimento’ è una parola che doveva morire con la Guerra fredda. L’islam non è il comunismo, il medio oriente non ha stabilità, solo la bomba demografica. La storia dell’occidente dal 1945 è che, costretti a scegliere fra libertà e sicurezza, un numero enorme di persone ha scelto di tradire la libertà. Amo Bush quando dice ‘la libertà è il desiderio di ogni cuore umano’. E se necessario, applichiamola a Ramadi e Tikrit. Ci sono stati più iracheni che americani ad aver partecipato al processo democratico. E ci sono più donne elette in Afghanistan che in Canada. Il vero pericolo dell’Iraq sono gli eserciti delle Ong, perlustrano le strade in cerca di affari come spacciatori a caccia di drogati. Le Nazioni Unite non risolvono problemi, li trasformano in ‘Les Misérables’. Torni indietro vent’anni dopo e sono ancora lì”. A cinque anni dal crollo delle torri gemelle, Steyn pensa che la dottrina Bush sia l’unica soluzione realista alla regione che ha creato Mohammed Atta. “L’identità panislamista è in crescita. L’approccio di Bush può fallire, ma sicuramente fallirà quello ‘gestionale’ dell’Unione europea. La stabilità è il nostro nemico, la stabilità ci ha dato l’11 settembre, l’Iran nucleare e l’invasione del Kuwait. La fetida stabilità del medio oriente è stato un disastro per il mondo”. Iraq e Israele sono legate dal tema del disimpegno. “Ero a favore del ritiro da Gaza per questioni demografiche. Ma ogni volta che Israele si è ritirato, gli islamisti hanno distrutto i simboli della vita ebraica. Negli ultimi settant’anni l’islam è diventato sempre più antiebraico. Prendi Baghdad, la città dei Profeti ebrei, per secoli la seconda città del mondo ebraico. Oggi non ci sono più ebrei. Quando quarant’anni fa si iniziò a parlare di ‘questione palestinese’, nessuno la pose in termini religiosi, ma come una lotta di liberazione postcoloniale. Israele non è al centro di una guerra nazionalistica, ma religiosa. Così come l’ultima guerra con Hezbollah è stata la prima guerra sciita contro lo stato ebraico. Hezbollah ha ucciso decine di ebrei a Buenos Aires. Stiamo assistendo alla palestinizzazione del conflitto, pensiamo a Beslan, Bali, Madrid e Londra e l’11 settembre. Hezbollah e Iran non vogliono solo vincere e dominare: vogliono uccidere ogni singolo ebreo. Quando ero alla Casa Bianca Bush ha detto: ‘Prima dell’Iraq c’è stato Israele’”. La vicenda più triste dell’Iraq è la memoria dei marines uccisi. “Cindy Sheehan, la madre pacifista di Casey, un uomo coraggioso caduto nel 2005 in una missione di salvataggio a Sadr City, ha detto che ‘Casey era nato il giorno del compleanno di JFK. Due persone assassinate dalla macchina bellica’. Martin Terrazas, il padre di un marine di El Paso, ucciso da una bomba ad Haditha, ha invece commentato: ‘Non ho sentito le news’. C’è più verità nelle cinque parole di Martin Terrazas. Una superpotenza che decade nella paranoia non può e non merita di durare. Non parliamo mai delle famiglie, delle mogli e dei figli fieri di quegli americani che sono morti per una causa nobile. Spero che fra vent’anni questi giovani saranno giudicati per ciò che sono: eroi. L’America non è rappresentata dall’élite di New York, i cui figli non sono stati in Iraq. L’infantilizzazione dell’esercito da parte dei liberal è un insulto ai combattenti americani”. Steyn non riserva speranze sui conservatori europei. “David Cameron è un disastro, un conservatore alla Michael Moore. Chirac non è stato Carlo Martello, ma neanche Sarkozy sarà il Reagan francese, non ha accettato che il vecchio ordine sia kaput. Il giorno dopo il carnaio di Zarkawi in Giordania, i giordani hanno gridato ‘morte a Zarkawi’ e ‘brucia all’inferno’. Abdallah ha denunciato il ‘perverso’ terrorismo e ha chiamato a una ‘guerra globale’. Poi prendi le bombe di Madrid. Anche gli spagnoli sono scesi per strada, ma anziché denunciare i colpevoli, hanno esclamato ‘Basta!’. E invece di un leader a favore di una ‘guerra globale’ contro il terrore, hanno eletto un governo che si è ritirato da ogni ruolo globale”. Per il Pangloss degli umoristi repubblicani c’è ancora speranza. “E’ più facile essere ottimisti sul futuro dell’Iraq che dell’Olanda. Come ha detto Jean-Francois Revel, ‘a una civiltà che si vergogna di tutto mancherà l’energia per difendere se stessa’. Ma a differenza degli europei depressi, gli americani non sono dei pessimisti. Ho tre figli che vorrei visitassero Parigi, Roma, Berlino e Londra non come città islamizzate, ma monumenti alla civiltà occidentale”.
Da pagina 3, un intervento dello storico militare Victor Davis Hanson:
Nella storia militare l’aumento delle truppe ha assunto significati diversi. In alcuni casi, ha modificato radicalmente il campo di battaglia, in altri ha soltanto contribuito alla stasi e a un senso di confusione, finendo con il rappresentare un preludio alla sconfitta. Le offensive lanciate dagli alleati nell’agosto e nel settembre del 1918, con il conseguente annientamento degli eserciti del Kaiser, arrivarono dopo un incremento di migliaia di nuove truppe americane sul fronte occidentale. Ma la vittoria non fu possibile soltanto grazie a questo incremento. Durante la primavera precedente i tedeschi avevano tentato di aprirsi un varco tra le trincee alleate con migliaia di soldati d’assalto supplementari sottratti al fronte russo. La differenza stava nel fatto che gli alleati avevano creato una nuova struttura di comando unificato sotto il generale Foch, facevano ricorso a un maggiore uso combinato di carri armati, sfruttavano l’elemento sorpresa con bombardamenti di minore durata e si affidavano a una migliore logistica a sostegno degli sfondamenti iniziali. Nei primi mesi bui della guerra coreana, il generale MacArthur aumentò il contingente statunitense in vista dell’assalto sferrato a Inchon nel settembre 1950. Ma quel formidabile sfondamento e la riconquista di Seul furono il risultato di rischiose operazioni anfibie, non semplicemente di un maggior numero di scarponi a terra. L’esercito dell’occidente di William Tecumseh Sherman raggiunse quasi le centomila unità nella tarda estate del 1864. Eppure il suo successo non dipese tanto dall’aumento delle forze in sé, quanto piuttosto da un cambiamento radicale apportato alla tattica, con l’abbandono del supporto ferroviario e il ricorso alla terra. Mettendosi in marcia verso il mare, Sherman ridusse i propri effettivi. Si potrebbe sostenere a ragione che Lee finì per cedere non perché gli aumenti apportati da Grant avessero sgominato le sue linee, ma per le diserzioni e il morale basso che si diffusero tra i sudisti quando si apprese che un enorme esercito dell’Unione si stava avvicinando alle retrovie confederate. Al contrario, gli aumenti degli effettivi ateniesi sotto Demostene in Sicilia nel 414 a.C., i costanti rafforzamenti nell’esercito del Potomac dell’Unione in Virginia dal 1862 al 1864, gli incrementi britannici nelle Fiandre dal 1914 al 1917, l’aumento dell’esercito francese a quasi 400 mila soldati in Algeria nel 1956 o l’escalation americana dal 1964 al 1967 in Vietnam non ebbero quasi effetto sulle dinamiche di quelle guerre. In tutti questi casi, la tattica rimase sostanzialmente invariata, partendo dalla prospettiva sbagliata che un precedente fallimento fosse dovuto soprattutto alla carenza di forze. Se gli Stati Uniti invieranno più soldati in Iraq, soprattutto a Baghdad, sarà necessario espandere i parametri delle operazioni. In caso contrario, migliaia di forze americane fresche finiranno soltanto per rafforzare i quattro problemi che si cerca di evitare in Iraq: più obiettivi convenzionali esposti ai dispositivi esplosivi improvvisati; più truppe di supporto dietro i passaggi fortificati, con un allargamento del profilo degli infedeli americani; maggiori garanzie agli iracheni sul fatto che truppe straniere proteggeranno il paese per loro; e il prestigio americano messo sempre più a rischio. Se nel giro di pochi mesi le condizioni sul campo non miglioreranno, saranno destinate a peggiorare. I jihadisti capiranno di essere sopravvissuti alle ultime riserve delle forze americane e i detrattori della guerra dichiareranno che il conflitto non potrà essere vinto, nonostante il sangue e il denaro americani sprecati. Che cosa potremmo fare per garantire il successo di questa operazione, finora la più grande scommessa di questa guerra per proteggere la democrazia postbellica del popolo iracheno? Primo: definire chiaramente la vittoria come l’insediamento di un governo democratico iracheno stabile, privo di violenza settaria e terroristica. Lasciare che i jihadisti sunniti e sciiti si uccidano reciprocamente potrà anche esercitare un fascino morboso, ma una simile violenza endemica finirà solo per distruggere il paese. Il ruolo dell’esercito statunitense sarà quello di garantire un monopolio sulla violenza per il governo iracheno, scevro da infiltrazioni di milizie, lottando per reprimere l’insurrezione e la lotta tra fazioni. Secondo: definire in anticipo con il governo iracheno nuovi protocolli, in base ai quali offensive e operazioni abbiano la possibilità di essere portate a termine. Sarà un disastro se i capi delle milizie saranno catturati per poi essere lasciati andare, come è già avvenuto in passato, quando fu braccato Moqtada al Sadr. Terzo: garantire che tutte le nostre operazioni siano sotto copertura irachena. Tali operazioni non hanno soltanto lo scopo di disarmare le milizie e uccidere i terroristi, ma anche di promuovere la fiducia del popolo iracheno sul fatto che la responsabilità di tali successi sia da attribuire ai propri soldati. Quattro: i sostenitori dell’incremento delle truppe possono definirlo uno “scossone” oppure essere dell’idea che, in realtà, non provocherà grossi cambiamenti. Ma in un modo o nell’altro, sarà considerato un’escalation con tutti i rischi connessi. Quindi bisognerà avvertire il popolo americano che la caccia ai terroristi, la relativa uccisione e il disarmo delle milizie da parte delle forze statunitensi e irachene scatenerà un nuovo livello di violenza, una tempesta prima della quiete, che sarà tanto necessaria quanto orribile, soprattutto quando bisognerà espandere le regole d’ingaggio. Cinque: l’Amministrazione americana dovrà spiegare la nuova mossa in termini di idealismo democratico, l’unico modo per garantire che i milioni di coraggiosi iracheni che hanno votato per un governo ricevano il supporto necessario per stabilizzare quanto ottenuto. La guerra non sarà giudicata soltanto a Baghdad, ma anche a New York, Washington, Il Cairo, Londra e Parigi. Feroci critici americani e stranieri contrari alla guerra hanno scommesso il proprio prestigio e la propria carriera sul fallimento americano e non si augurano di vedere le truppe irachene e quelle statunitensi sbaragliare gli islamici come hanno fatto gli etiopi. Sarà necessario opporsi continuamente alle loro argomentazioni. Sei: occorre enfatizzare l’aspetto offensivo. Le nostre nuove forze non vanno a “pattugliare” o “stabilizzare” con la loro “presenza” o “rassicurazione”, ma sono piuttosto inviate in Iraq per uno scopo: dare la caccia ai terroristi e ucciderli o catturarli, in modo da alimentare nel popolo la fiducia in una vittoria degli americani e del nuovo governo iracheno. E gli indecisi dovrebbero prendere posizione. Sette: sarà necessario chiudere i confini con la Siria e, nei limiti del possibile, con l’Iran, e bisognerà aspettarsi più “feste nuziali” funestate da attentati e varie vittorie del nemico, quando cominceremo a colpire le incursioni transfrontaliere. E’ un prezzo inevitabile da pagare in questo rush finale per la vittoria. Otto: occorre prepararsi a livello locale per gli imprevisti, aumentando le truppe e le forze aeree. Se più soldati della coalizione cominceranno ad arrestare e uccidere terroristi, bisognerà prevedere che Siria e Iran fomenteranno difficoltà altrove o avanzeranno fronti in Libano o Israele o accelereranno la corsa al nucleare. Dovremmo presumere che un incremento delle truppe alzerà la posta in tutto il medio oriente. I nostri nemici non possono permettersi di essere testimoni di un nostro predominio. Questa guerra è stata caratterizzata da diverse anomalie, dal momento che una brillante vittoria tattica americana, culminata con l’eliminazione di Saddam, non si è trasformata in un rapido successo strategico. Ma uno degli sviluppi più preoccupanti è la concentrazione del recente dibattito sulla singola questione dell’aumento delle truppe, come se finora le difficoltà fossero dipese soltanto da un problema di forze. Non è così. Il dilemma riguarda la necessità di combattere una guerra asimmetrica di controinsurrezione, che dipende da come i soldati agiscono, piuttosto che da quanti sono. Da una vittoria di tipo tradizionale su Saddam, attraverso una battaglia asimmetrica contro ribelli jihadisti, siamo arrivati a un’approssimativa sorveglianza esterna sulla violenza casuale tra sunniti e sciiti. In passato abbiamo sbagliato non tanto nel disperdere un esercito iracheno sparpagliato e nemmeno nell’eliminare la direzione del partito Baath, ma piuttosto nel dare un’impressione di impotenza, permettendo che i saccheggi continuassero o ritirandoci da Fallujah oppure offrendo una sospensione della pena alle milizie Sadr. Quindi, che vengano inviate pure altre truppe in Iraq, ma soltanto se avranno il permesso di stanare e uccidere i violenti e i settari come mai è avvenuto in precedenza. Questo aumento non dovrebbe essere considerato unicamente in termini di forze, ma andrebbe pianificato come una misura correttiva per l’incauto lassismo passato, con l’obiettivo di assicurare che – nella corsa per la vittoria, e non per una migliore vigilanza – nessun quartiere rimanga nelle mani di tenaci jihadisti. Lo dobbiamo garantire alle migliaia di altri giovani americani le cui vite saranno messe a rischio.
Infine, un trafiletto della rubrica militaria. Abbiamo sottolineato una notizia sul coinvolgimento iraniano nel terrorismo iracheno e in quello contro Israele :
I contingenti stranieri a Baghdad La Slovacchia ha deciso di ritirare entro gennaio il contingente dislocato in Iraq, in tutto 103 militari schierati a Hillah, nel settore assegnato alla Divisione multinazionale centro-sud a comando polacco. Come già ha fatto il governo di Roma, anche Bratislava lascerà a Baghdad undici istruttori nell’ambito del programma messo a punto dalla Nato per l’addestramento del personale militare iracheno. Nello stesso settore è stata riconfermata la presenza del contingente dell’El Salvador. Il presidente Tony Saca ha annunciato l’estensione della missione militare in Iraq per altri sei mesi, precisando che a febbraio ci sarà l’ottavo avvicendamento del contingente schierato in Iraq già dal 2003. Intanto, il piano d’incremento delle truppe americane in Iraq sarà ufficializzato mercoledì dal presidente George W. Bush e godrebbe del sostegno del governo iracheno, preoccupato della sempre più difficile situazione della sicurezza a Baghdad e nella provincia di al Anbar. Ad aumentare lo stato d’allerta hanno contribuito anche i documenti trovati a fine dicembre a quattro iraniani fermati a Baghdad dalle forze statunitensi: in questi rapporti l’intelligence avrebbe trovato conferma delle iniziative di Teheran per sostenere non soltanto i gruppi estremisti sciiti che orbitano intorno all’esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr ma anche i gruppi jihadisti sunniti attivi nel centro-nord del paese affiliati ad al Qaida. I documenti – che secondo gli americani sono autentici – confermano quindi la strategia di Teheran tesa a scatenare il caos e la guerra civile in Iraq. I pasdaran della Divisione al Quds, responsabile delle attività all’estero del corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, operano con lo stesso schema anche contro Israele, fornendo il principale supporto sia ai sunniti di Hamas sia agli sciiti di Hezbollah. Del resto già nel 2004 erano emerse – proprio dai vertici dei pasdaran iraniani – le conferme degli aiuti che le Guardie Rivoluzionarie fornivano all’allora leader dell rete di bin Laden in Iraq, Musab al Zarqawi, e ai suoi combattenti.
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