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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Maurizio Molinari Gli ebrei di New York 09/01/2007
Maurizio Molinari
Gli ebrei di New York
Laterza


Ritrovare le insegne, i colori, gli odori, i canti e perfino i sapori della Varsavia di inizio Novecento, di Odessa, e di Budapest, la vita dei mille villaggi scomparsi che erano disseminati in un immenso spazio tra il Baltico e il Mar Nero. Rintracciarli nel percorso di un´ora di metropolitana, in quella sintesi di storia e tradizione che sono gli ebrei di New York, un milione e mezzo di persone, più del diciassette per cento degli abitanti della città.
Un viaggio che si può fare partendo da un piccolo negozio di pesce affumicato dell´Upper West Side di Manhattan, che serve ai tavoli di formica piatti di uova strapazzate con le cipolle caramellate e il salmone, per i quali si sperticava in lodi Groucho Marx, e il migliore storione di Manhattan. Talmente morbido e particolare da trasformarsi in una mania per lo scrittore premio Nobel Isaac Bashevis Singer. Per approdare di fronte all´Oceano, nelle sale da tè che parlano russo a Brighton Beach, passando per quel Lower East Side che ha accolto tutte le ondate migratorie d´America e per le grandi enclave ortodosse di Brooklyn. Utilizzando come guida un libro in uscita questa settimana da Laterza, Gli ebrei di New York, del corrispondente della Stampa Maurizio Molinari. Un lavoro concepito con metodo e passione, che ci racconta come all´inizio del secolo scorso il cuore del popolo ebraico fosse diviso fra Varsavia e Berlino, Vilna e Vienna, Damasco e Alessandria, Sana´a e Bagdad. Dopo la Shoah e la nascita di Israele è tornato a battere a Gerusalemme e Tel Aviv.
Ma all´inizio del Ventunesimo secolo, New York rappresenta la più grande comunità ebraica del mondo. È impressionante quanto di quello che è New York sia figlio dell´influenza ebraica: i bagels con la crema di formaggio e il salmone, il pastrami, il cheesecake, la psicoanalisi, il distretto dei diamanti sotto Times Square, i suoi scrittori, la comicità e perfino la maratona. Le tradizioni degli ebrei arrivati qui soprattutto dall´Europa centrale e orientale si sono impastate con l´essenza stessa della città, fino a diventarne uno degli elementi costitutivi.
Il viaggio di Molinari parte dal cuore ortodosso di Brooklyn, noi ci arriveremo alla fine del percorso, usando le sue pagine per illuminare di fascino edifici altrimenti anonimi, capire come votano e pregano gli ebrei newyorkesi, dove mangiano e studiano. E scoprire la loro influenza perfino sugli angoli delle scatole dei corn flakes o del caffè al supermercato, nei simboli «k» oppure «Ou» stampigliati per segnalare i prodotti kosher.
All´angolo tra la 84esima strada e Amsterdam Avenue c´è Barney Greengrass, dal 1908 vendono salmoni, storioni, trote arcobaleno, merluzzi affumicati, aringhe sott´aceto e servono scodelle di borscht per una clientela per due terzi ebraica, che riconosce tra questi muri, coperti da improbabili paesaggi ottocenteschi, uno spirito che va ben oltre il cibo. Quando Moe Greengrass, figlio di Barney, morì, il primo gennaio di quattro anni fa, i giornali parlarono della scomparsa di un´icona culturale. «Le sue mani curate - scrisse il New York Times - affettavano il salmone con la precisione di un neurochirurgo». «È vero, era portatore di un´arte - racconta Gary, parlando del padre - che si è perduta: l´arte del tagliare il pesce affumicato. Ma c´era altro: le battute, le storielle, i ricordi, una tradizione ebraica che non è mai venuta meno».
In questo viaggio però non ci sono memorie stantie, tutto è vivo e pulsante. Se negli ultimi anni della sua vita qui veniva sempre Singer con una giovanissima ragazza di cui nessuno conosceva il nome, alla quale, dopo aver mangiato storione di lago, teneva una lunga lezione privata, oggi c´è Philip Roth. L´autore di Pastorale americana non manca mai, arriva in tarda mattinata il martedì o il mercoledì, i giorni migliori per evitare la lunga coda che occupa il marciapiede all´ora del brunch nel fine settimana.
Ma nonostante poco più a sud, in quella 72esima strada dove l´edicola vende i quotidiani israeliani, si possano mangiare le knishes, ravioli di patate e farina ripieni identici a quelli che si potevano acquistare a Lodz negli anni Venti, in tutto l´Upper West Side, così come nell´East, dall´altro lato di Central Park, le identità risultano quasi indistinguibili, tanto sono amalgamate. Bisogna osservare con attenzione i caratteri dei giornali, le insegne che indicano il cibo kosher, prodotto nel rispetto delle regole rabbiniche, fare attenzione alle sinagoghe, per riconoscere la presenza ebraica.
Gary Greengrass, che dopo la morte di Singer si definisce scherzosamente «il nuovo sindaco dell´Ottantaseiesima strada» - sono quarantasette anni che ci vive nonostante quattro traslochi, tutti nel giro di due isolati - ci dà la chiave di lettura: «I quartieri di Manhattan non sono shtetl, per trovare i villaggi etnici bisogna passare il fiume, di là dall´East River, e arrivare a Brooklyn. Là non solo ci sono quartieri interamente ebraici, ma come gli antichi villaggi dell´Europa orientale, i russi stanno con i russi e così gli ungheresi, i polacchi, i lituani o gli ucraini».
Per trovarli, prima bisogna scendere a sud dell´Isola delle colline, questo il significato della parola Manhattan, e arrivare al serbatoio dove tutte le tribù di Israele erano tenute insieme, compresse, in un crogiolo incredibile: il Lower East Side. Con l´inaugurazione del ponte nel 1883 comincia la diaspora verso Brooklyn, ma non tutti si muoveranno verso Est. I tedeschi, più ricchi e colti, scelgono di andare a Nord, seguendo la Quinta strada, sempre più su, dove trovano spazio, case ampie, giardini.
Fino ad Harlem, che però abbandoneranno già negli anni Venti. Fino a Washington Heights, la piccola collina all´estremità settentrionale dell´isola, chiamata così perché il primo presidente americano stabilì qui il suo quartier generale durante la rivoluzione. Nel 1906, con la metropolitana, giungono i più ricchi dei nuovi immigrati, gli ebrei tedeschi, la colonizzano tanto da ribattezzarla la Francoforte sull´Hudson. Qui è nato Alan Greenspan, l´uomo che ha guidato la Federal Reserve fino all´anno scorso. Qui è cresciuto Henry Kissinger, arrivato dalla Germania nel 1938 a 15 anni, il primo ebreo ad essere segretario di Stato.
Il Lower East Side oggi è un museo dell´immigrazione ebraica, non c´è più vita reale. In Rivington Street, dove cent´anni fa batteva il cuore dell´affollatissima "Little Romania", sono rimasti molti segni ma solo una sopravvissuta, la fabbrica di matzot, di pane azzimo, Streits. Dal 1916 i quattro edifici di mattoni rossi continuano a sfornare milioni di matzot ogni anno, ma fuori il mondo è cambiato. Qui oggi non si viene più a cercare il manzo affumicato ma si fa la fila per il cibo vegano di Teany, il bar salutista e molto di tendenza del musicista Moby, o per una birra da Schiller´s. Due isolati più in là, al numero 126, ha chiuso i battenti la rivendita di vino kosher Schapiro´s, sopravvive però ancora la sua immagine, alzando gli occhi uno splendido e immenso murales pubblicitario testimonia un secolo di attività. Certo resterebbe Katz´s Delicatessen: fin dal 1888 serve giganteschi piatti di carne rossa affumicata, il tradizionale pastrami, ma questa specie di supermensa ha il torto di aver abbandonato la tradizione kosher e Molinari la stronca: oggi a fare la fila sono solo curiosi e turisti che vogliono sedere al tavolo dove Meg Ryan simulava l´orgasmo in Harry ti presento Sally.
Ironia della sorte, il manager di maggior successo nella ristorazione ebraica newyorkese è un musulmano marocchino. Tutti lo chiamano solo Zeggy e ha inventato i ristoranti che spopolano nell´East Side, a partire da quel Prime Grill sulla 49esima strada dietro Park Avenue dove impazza la nuova moda: una cena con sushi e carne, meglio ancora se quella tenerissima di bisonte.
Passato l´East River si apre la pianura che correva dal Baltico al Mar Nero, racchiusa in una sola delle municipalità di New York: Brooklyn. Comincia la sequenza mozzafiato degli shtetl, i villaggi etnici. A Williamsburg ecco gli ungheresi, soprattutto i Satmar, gli ortodossi che i nazisti cercarono di sterminare nell´ultimo anno di guerra. Ogni isolato una sinagoga, negozi di delicatessen con incredibili dolci e bagels, le ciambelle salate farcite di crema di formaggio e salmone, e un tasso di crescita spaventoso: in dieci anni il numero degli ebrei nel quartiere è passato dall´8 al 38 per cento della popolazione. A pochi passi gli artisti, i fotografi e le gallerie d´arte di Dumbo.
Ma siamo solo a metà strada. Molinari si appassiona, racconta i dettagli di ogni confessione religiosa, come un entomologo è capace di segnare i confini tra i villaggi, di raccogliere le voci più rappresentative, e il suo viaggio si trasforma in un film, dove ogni fotogramma è un personaggio che ha segnato l´evoluzione dell´ebraismo americano. Ci consiglia di scendere dal treno D, che corre verso Coney Island, alla fermata "55esima strada". La metropolitana corre sopraelevata, basta affacciarsi dalla banchina sulla Tredicesima Avenue per capire che siamo nel posto giusto. Le insegne parlano yiddish e polacco, le teste delle donne sono coperte di parrucche, quelle degli uomini dalla kippah e dal cappello a falde larghe, sarete gli unici a capo scoperto. I rari turisti sono gli ebrei stranieri che sostengono di venire da queste parti per ritrovare le atmosfere della Varsavia descritta dalle foto di Roman Vishniac prima dello sterminio nazista.
L´abbigliamento è quello dei polacchi del Sedicesimo secolo: pastrani neri, camicie bianche, pantaloni poco sotto il ginocchio e scarpe nere. Gli ortodossi hanno le peot, le trecce che scendono sulle guance. Ogni uomo ha sotto il braccio ripiegato il tallit, il grande scialle che si indossa per la preghiera del mattino, molti continuano a stringerne tra le dita le frange e i nodi, in un movimento che sta a metà strada tra il rito e il gioco. Ovunque ci sono piccole sinagoghe e luoghi di preghiera, molte hanno i nomi dei villaggi perduti dell´Est. In un´area lunga venti isolati e larga sei, a Borough Park, vivono più ebrei ortodossi di quanti ce ne siano nel quartiere di Mea Shearim a Gerusalemme. E il loro tasso di fertilità è più del doppio di quello di Manhattan, così la metà degli abitanti ha meno di 17 anni.
Affacciatevi sulla Quattordicesima strada, occupata quasi interamente dagli scuolabus gialli con le scritte in caratteri ebraici sulle fiancate, che ogni mattina portano i bambini alle 65 scuole religiose del quartiere, rigorosamente chiuse il sabato e aperte la domenica. L´edicola relega in un angolo il New York Times, per fare spazio a testate in ebraico, russo, polacco e yiddish, una lingua, quest´ultima, a cui si sono adeguati perfino i bancomat. Alla fine del sabato di preghiera e ogni domenica la folla si riversa per strada, i negozianti pubblicizzano la loro merce, cappotti, cappelli e parrucche rigorosamente non shatnez, cioè confezionati secondo i precetti, non mescolando mai lana e lino, urlando in piccoli megafoni, mentre nei negozi, perfino in quello di vino, dove anche lo champagne è kosher, le voci sono coperte dai cantanti ortodossi.
Se corriamo al capolinea della metropolitana, superando la ruota panoramica di Coney Island e le montagne russe che "rovinarono" l´infanzia del Woody Allen di Io e Annie e che oggi sono a rischio demolizione, a Brighton Beach troviamo la patria dei caratteri cirillici e dei 400mila ebrei che parlano russo. Sono gli ultimi arrivati, dopo il crollo del muro di Berlino. Ripartiamo da loro, usando il libro per fare il viaggio al contrario, questa volta nelle loro idee politiche. Qui si vota a destra, in tutta Brooklyn crescono gli ebrei repubblicani, soprattutto dopo l´11 settembre. L´East River ancora una volta fa da confine. A Manhattan il partito del presidente invece non riesce ad avere fortuna, almeno da settant´anni. Il West Side è l´area più democratica d´America, si continua a votare contro lo zar, a identificarsi con Roosevelt, le idee liberal, la vittoria sul nazismo e i principi di solidarietà sociale.
Quasi tutto il percorso si può fare anche a piedi, anzi di corsa, ogni anno a novembre. La maratona di New York, così come la conosciamo oggi, è figlia di Fred Lebow, un ebreo romeno scampato all´Olocausto che le dedicò tutta la vita. Poco prima di morire, nel 1994, scherzosamente spiegò il perché: «Dimmi un po´: quando mai gli ebrei hanno smesso di correre?».

Mario Calabresi

da La Repubblica del 7 gennaio 2007

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