Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Contratti trentennali con compagnie straniere una proposta di legge del parlamento iracheno tenta di rilanciare così l'esportazione di petrolio
Testata: Corriere della Sera Data: 08 gennaio 2007 Pagina: 10 Autore: Lorenzo Cremonesi Titolo: «Iraq, una proposta di legge cede il controllo del petrolio alle multinazionali»
Contratti trentennali con compagnie petrolifere private per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio iracheno. E' la proposta contenuta in un disegno di legge presentato in Parlamento a Bagdad. L'articolo di Lorenzo Cremonesi pubblicato dal CORRIERE della SERA dell'8 gennaio 2007 ne spiega correttamente i contenuti e le finalità. Ne emerge un quadro che non è certo di "rapina" o di spartizione del "bottino di guerra" . Semplicemente, il governo iracheno spero che dall' Occidente vengano i capitali e le tecnologie necessarie al rilancio delle esportazioni e dell'economia del paese. Si tratterebbe comunque di investimenti ad alto rischio: difficile dunque che siano coinvolte le grandi compagnie. Che molti accusano già di aver commissionato la guerra all'Iraq proprio per impadronirsi dei sui pozzi di petrolio.
Ecco il testo;
AMMAN — Ricostruire l'Iraq grazie al suo petrolio. E rilanciare il mercato energetico mondiale con la riapertura degli oltre 2.300 pozzi di greggio della migliore qualità sparsi tra le regioni curde nel nord e quelle sciite al sud. Sembrerebbe il classico uovo di colombo. Se non fosse che il Paese è squassato dalla crescente guerra civile. E le polemiche sui diritti di estrazione e vendita del greggio rischiano di accrescere le tensioni. In ogni caso, il parlamento di Bagdad potrebbe discutere nei prossimi giorni un disegno di legge destinato, per la prima volta dalla fine della guerra nell'aprile 2003, ad appaltare lo sfruttamento degli immensi giacimenti del Paese alle grandi multinazionali straniere. Se così fosse, sarebbe una vera rivoluzione. La prima mossa concreta per cercare di gestire la questione più spinosa dall'ultima guerra e che ha accompagnato tutto il dibattito sull'intervento militare straniero nel Paese sin dai mesi seguenti l'invasione irachena del Kuwait nell'agosto 1990. In poche parole: chi ha diritto a mettere le mani sul terzo giacimento di greggio al mondo (prima vengono Arabia Saudita e Iran)? E come, con quali regole? Il quotidiano britannico The Independent ha ottenuto la copia originale del disegno di legge, le cui prime bozze hanno cominciato ad essere discusse sin dal luglio scorso, e la pubblica nel dettaglio. L'iniziativa mira a incoraggiare i discendenti contemporanei delle «Sette Sorelle», ma oggi anche le compagnie petrolifere minori purché disposte a rischiare, a condizioni difficili da rifiutare. Le offerte sono assolutamente vantaggiose: contratti trentennali per chiunque sia pronto a investire nella costruzione delle infrastrutture, che oltre ai pozzi comprendono strade, terminali marittimi, oleodotti e raffinerie. Il cuore dei contratti si basa sul cosiddetto «Production Sharing Agreement», che contempla la possibilità per le multinazionali di tenere per sé somme pari al 70% dei profitti sino alla copertura degli investimenti iniziali (nei contratti standard non si va oltre il 40%). Una volta coperte le spese, la quota scenderà al 20% sino all'esaurimento del contratto (normalmente è il 10%). Non mancheranno i critici. Per i critici della guerra la nuova legge non può essere altro che la conferma delle previsioni più fosche: l'invasione non aveva nulla a che vedere con il desiderio di «importare» la democrazia in Iraq, quanto piuttosto di impadronirsi delle sue risorse petrolifere. Sin dalla prima settimana dopo l'arrivo dei marines a Bagdad, furono in tanti a notare che mentre l'intero Paese veniva devastato dai saccheggi senza che le truppe americane muovessero un dito, gli edifici del ministero del Petrolio erano stati immediatamente presidiati dal fior fiore delle truppe di invasione. «La nuova legge sull'apertura dei pozzi alle multinazionali senza dubbio nega una buona parte della sovranità irachena», sostengono adesso i parlamentari sunniti dell'opposizione. Ma ci sono anche buone ragioni per fare di tutto pur di rimettere in moto la risorsa economica più importante del Paese. «Questa nuova legge ci permetterà di ricostruire l'industria petrolifera e portarla agli standard moderni. Non abbiamo altra via», dichiara Khaled Salih, portavoce dell'amministrazione curda nelle regioni settentrionali. Le potenzialità sono immense. Lo sapevano bene gli ex dirigenti baathisti, che nel 1972 vollero la completa statalizzazione dei giacimenti. Ora, in controtendenza con tutto il Medio Oriente dai tempi della decolonizzazione, le multinazionali potrebbero tornare alla grande. Anche se non subito. Le compagnie maggiori come Exxon, British Petroleum o Shell resteranno inizialmente in disparte. «Sarebbe una follia andare ad investire in Iraq nelle condizioni attuali», sostiene James Paul, direttore esecutivo del «Global Policy Forum», centro studi di New York che da anni segue il Medio Oriente. Difficile dargli torto. Sin dall'estate 2003 la guerriglia ha metodicamente boicottato con massacri e attentati qualsiasi tentativo di riaprire gli oleodotti. Le vecchie raffinerie sono state bombardate, i loro tecnici assassinati, le autobotti vengono spesso assaltate. Solo il mercato nero ha una qualche prospettiva di successo, anche grazie alla collaborazione di una polizia corrotta e lacerata dalle guerre etnico-religiose interne. Non è ancora escluso oltretutto che il Paese possa spezzarsi in tre cantoni: curdo, sciita e sunnita. Chi è disposto a rischiare? «Forse le compagnie petrolifere minori, attirate dalle prospettive di forti guadagni nel breve-medio periodo», risponde una parte degli analisti. Ma anche questo è un terno al lotto: senza la sicurezza e il controllo del terrorismo, difficilmente l'esportazione del greggio potrà davvero decollare. Lo provano i numeri. Prima del marzo 2003, quando la risoluzione Onu cosiddetta «Oil for Food» permetteva a Saddam Hussein la vendita controllata del greggio, le quote arrivavano a 3,5 milioni di barili esportati al giorno. Quattro anni dopo si sfiorano a malapena i 2. Una perdita enorme per l'Iraq. L'ex ministro del petrolio e vice premier nel governo di Ibrahim Jaafari, lo sciita Ahmed Chalabi, stimava un anno fa che, se funzionasse a pieno ritmo, l'industria estrattiva potrebbe rendere 100 miliardi di dollari all'anno e coprire oltre il 90% del fabbisogno economico del Paese. Cifre da capogiro, con il greggio che attualmente viene venduto a 70 dollari al barile, mentre in Iraq i costi medi di estrazione al barile si aggirano sui 2 dollari. E cifre da sogno. Due mesi fa la televisione privata Al Sharkia riportava che, se fosse stata ripresa massicciamente la vendita dell'«oro nero», il governo pianificava di donare annualmente a ogni cittadino 36.000 dollari. Introiti potenzialmente destinati a durare nel tempo. Si calcola che le riserve irachene ammontino a 115 miliardi di barili, con la possibilità di trovare altri giacimenti nel deserto occidentale, al confine con Arabia Saudita e Giordania, dove le ricerche sono state interrotte sin dal periodo precedente l'embargo economico del 1990.
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