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La Stampa Rassegna Stampa
07.01.2007 La New York ebraica
descritta nel nuovo libro di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 07 gennaio 2007
Pagina: 32
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Shalom New York»
Da La STAMPA del 7 gennaio 2006:

Se all'angolo della strada sotto casa incontrate un nonno che va a fare la spesa con il testa il cappello verde dell'esercito israeliano regalatogli dal nipote, se al supermercato acquistate prodotti kosher senza saperlo, se in ascensore vi trovate di fronte al fattorino che porta al 38° piano una piramide di tramezzini di Mr Broadway, se sul marciapiede di fronte alla libreria di quartiere ragazzi con la kippah vendono ai passanti grandi cedri prima di Succot, se alla scuola pubblica sotto casa insegnano a tutti i bambini a cantare Ava Naghila Ava per l'ultimo dell'anno, se quando arriva la festa di Chanukkah il portiere accende nell'atrio il candelabro a nove braccia vicino all'albero di Natale, se ogni sera del 24 dicembre il teatro del centro Y92 si riempie di giovani per il concerto del cantante David Broza e se vi svegliate la mattina scoprendo che l'edificio in costruzione vicino a casa vostra diventerà una sinagoga in pietra di Gerusalemme allora significa che vi trovate in uno dei cinque grandi boroughs di New York, la città con la più numerosa popolazione ebraica del mondo, le cui strade, yeshivot, bancarelle, aziende, riviste, fiere del cibo e rappresentazioni teatrali sommano e sovrappongono tanti e diversi mondi ebraici che si intersecano con la vita di milioni di non-ebrei e si contraddicono fra loro dando vita a un puzzle di identità talmente americano da risultare quasi invisibile al visitatore che mette piede per la prima volta nella Grande Mela. Questo libro si propone di accompagnare il lettore lungo gli itinerari ebraici che attraversano e raccontano New York, sovrapponendo quotidianità e storia.
La 13° Avenue di Borough Park a Brooklyn è una trafficata e rumorosa via commerciale dove insegne, odori e colori sono le stesse della Varsavia di inizio Novecento. Nelle sinagoghe di Williambsurg e Crown Heights si studia come avveniva a Vilna e negli shtetl dei chassidim disseminati dal Mar Baltico al Mar Nero mentre solo poche strade più a sud si vive come un tempo a Damasco e Beirut. La 72° strada nell'Upper West Side è popolata di liberi pensatori di qualsiasi età che votano sempre e comunque democratico indipendemente dal nome del candidato, proprio come hanno fatto i loro genitori socialisti e nonni bundisti: per riconoscenza nei confronti dell'apertura agli immigrati fatta da Franklin Delano Roosevelt ed in odio perenne allo zar di tutte le Russie. Ma i figli cominciano ad essere repubblicani. Lungo la Quinta Strada ogni anno, pochi giorni dopo Yom Ha-Azmaut - il giorno dell'indipendenza di Israele - decine di migliaia di persone di ogni età sfilano per raccontare ognuna a modo proprio il legame indissolubile che unisce la democrazia americana a quella israeliana ricevendo l'omaggio dell'Empire State Building, che si colora per l'occasione di bianco-azzurro. Ed a Times Square il teatro ebraico rinasce, in yiddish come in inglese, a dispetto della storia grazie ad attori e spettatori che hanno meno di 30 anni, proprio come avveniva nella Vienna degli Asburgo.
Alla fine dell'Ottocento il cuore del popolo ebraico era diviso fra Varsavia e Berlino, Vilna e Vienna, Damasco ed Alessandria, Sana'a e Baghdad, e dopo la Shoà e la nascita di Israele è tornato a battere a Gerusalemme e Tel Aviv. Ma all'inizio del XXI secolo i cinque boroughs di New York - Bronx, Brooklyn, Manhattan, Queens, Staten Island - uniti ai sobborghi delle tre contee limitrofe di Westchester, Nassau e Suffolk formano a cavallo dell'Hudson e dell'East River un mosaico dove si ritrova ognuno di questi tasselli d'Israele, spesso confusi negli stessi isolati, se non addirittura nello stesso pianerottolo. Negli oltre 350 anni passati dall'approdo al Seaport del Lower East Side di Manhattan dei primi 23 ebrei provenienti dal Brasile l'antisemitismo è stato costantemente presente in America ma senza riuscire mai, a differenza di quanto avvenuto in Europa, a trasformarsi in persecuzione. Il risultato di questa eccezione lo si vede varcando la soglia di un qualsiasi supermercato di New York. Gran parte dei prodotti alimentari ha stampato in piccolo in un angolo della confezione le lettere «OU» o «K» perché si tratta di un prodotto kosher - confezionato sotto il controllo di organizzazioni rabbiniche che ne garantiscono il rispetto delle regole alimentari ebraiche - ma ciò non implica il fatto che gli acquirenti sono solo ebrei. Entrando nelle case dei newyorkesi di qualsiasi fede ci si accorge che i prodotti con la «OU» o la «K» sono ovunque per il semplice motivo che gran parte dei generi alimentari in commercio hanno oramai questo tipo di etichetta. Il fenomeno è di tale portata che i non ebrei acquistano prodotti kosher senza accorgersene e gli ebrei osservanti non devono quasi più preoccuparsi dove fare la spesa. La vita quotidiana si distingue per il ripetersi della sovrapposizione fra essere ebrei ed americani. Il campione di baseball dei Dodgers, Shaw Green, non è sceso in campo alla fine del 2004 nel super-match contro i Mets perché si giocava di Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, e non lo ha fatto perché è ortodosso - infatti è figlio di matrimonio misto, cresce i figli come ebrei-cristiani e non ha mai fatto la maggiorità religiosa - ma in quanto si sente fino in fondo ebreo-americano.
A Broadway fra gli show di grido c'è Il violinista sul tetto ed anche il meno noto Kabbalah si vanta del tutto esaurito mentre il venerdì pomeriggio nell'Upper West Side i giornali israeliani Maariv e Yediot Hacharonot vendono quasi quanto i tabloid locali e la notte di Natale sono i dipendenti ebrei a far funzionare ospedali e servizi di emergenza nei cinque boroughs per consentire ai colleghi cristiani di festeggiare in famiglia. Entrando in qualsiasi sinagoga si trovano fianco a fianco le bandiere a Stelle e Strisce e quelle con la Stella di David proprio come avviene nella Cattedrale di San Patrizio con il drappo giallo-bianco della Santa Sede. L’integrazione ebraica in America non è differente da quella di cui sono protagonisti irlandesi, polacchi o italiani. «Milioni di ebrei e cattolici arrivati dall'Ottocento - spiega Michael Waltzer, sociologo della Princeton University - hanno progressivamente fatto proprio il modello di comunità protestante, basato sull'associazione volontaria, al punto che a volte è difficile distinguere gli uni dagli altri». Come dimostra il fatto che nessuno sa con certezza quanti siano gli ebrei d'America: le cifre del censo si aggirano sui 5,2 milioni e sono considerate generalmente in discesa demografica ma considerando la galassia di coloro che si avvicinano, aderiscono e partecipano alla vita ebraica - magari senza mai neanche entrare in una sinagoga - si sfiora il raddoppio. L'eccezione ebraico-americana, dopo la Seconda Guerra e lo sterminio degli ebrei d'Europa, si è trasformata in uno dei due poli - assieme ad Israele - della rinascita di un popolo.

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