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La Stampa Rassegna Stampa
07.01.2007 Abu Mazen dichiara illegale la "milizia" di Hamas in formazione a Gaza
la cronaca di Aldo Baquis

Testata: La Stampa
Data: 07 gennaio 2007
Pagina: 15
Autore: Aldo Baquis
Titolo: «Abu Mazen “Metto fuorilegge la milizia di Hamas”»
Da La STAMPA del 7 gennaio 2006, una cronaca di Aldo Baquis:

La lotta di potere fra il presidente palestinese Abu Mazen (al Fatah) e il governo di Hamas ha subito ieri una impennata che rischia di aggravare le violenze sul terreno: dopo aver sconvolto la striscia di Gaza, il confronto si sta estendendo anche alla Cisgiordania.
Ad una settimana da una nuova spola diplomatica di Condoleezza Rice e dopo aver appreso che gli Stati Uniti gli verseranno 86 milioni di dollari per potenziare le forze di sicurezza a lui vicine (Forza 17 e la Sicurezza preventiva) Abu Mazen ha cercato di sferrare ieri un colpo a sorpresa contro la milizia di Hamas in fase di organizzazione a Gaza, dichiarandola «illegale». Il pomo della discordia è la «Forza di pronto intervento» del ministero degli Interni, concepita, finanziata ed addestrata da Said Siam, un «falco» di Hamas che beneficia di aiuti iraniani. Quando fu costituita, ad aprile, era stata incaricata di aiutare la polizia a mantenere l'ordine pubblico nella caotica Gaza. La ossatura era composta da tremila miliziani, in buona parte provenienti dalle Brigate Ezzedin al-Qassam (Hamas) e da miliziani dei Comitati di resistenza popolare.
Gradualmente i miliziani sono divenuti seimila. I loro addestramenti sono apparsi sempre più di carattere militare. Nelle ultime settimane, quando gli scontri fra Hamas ed al-Fatah sono infuriati a Gaza, i membri di quella forza hanno fatto ricorso a mortai e a lanciarazzi. Venerdì una Commissione sopra le parti, ha stabilito che la «Forza di pronto intervento» non solo non garantisce la sicurezza, ma anzi andrebbe del tutto dissolta.
Ieri dunque Abu Mazen ha fatto sapere a Hamas che quegli agenti devono adesso essere inquadrati nelle forze di sicurezza nazionale. Allo stato attuale sono «illegali». Hamas si è riavuto in fretta dalla sorpresa. Quando il portavoce della «Forza di pronto intervento» Ismail Shahwan ha incontrato i giornalisti aveva solo un messaggio per il Presidente: l’unità non si scioglie affatto, anzi prosegue i preparativi per raggiungere la cifra di 12 mila agenti.
A rendere più aspra la reazione di Hamas - oltre alle informazioni sui finanziamenti Usa ad Abu Mazen - è stata anche la netta sensazione che il presidente abbia affidato la supervisione alle forze di sicurezza palestinesi all'ex capo della sicurezza preventiva Mohammed Dahlan, un dirigente di al-Fatah. Nella stampa di Hamas viene indicato come «un miscredente, al servizio di Stati Uniti ed Israele» e «il famigerato comandante delle squadre della morte». La prospettiva che proprio a Dahlan debbano rendere conto i membri della «Forza di pronto intervento» è apparsa a Hamas quasi eretica.
Nelle stesse ore inoltre sono stati presi di mira diversi esponenti di Hamas. A Jabalya (Gaza), un parlamentare ha avuto la casa distrutta da un incendio doloso. A Sabra (Gaza) quattro miliziani islamici sono stati rapiti. A Nablus (Cisgiordania) il vicensindaco, un dirigente di Hamas, è stato rapito da miliziani. Nella stessa città un club islamico è stato distrutto. A Ramallah un collaboratore del ministro Siam è stato rapito dal suo ufficio, ferito alle gambe e infine abbandonato per strada. A Jenin miliziani delle Brigate al-Aqsa hanno indirizzato il fuoco su miliziani di Hamas. In serata il centro di Gaza è stato sconvolto dalla battaglia fra due clan rivali (tre morti, diversi feriti) uno dei quali, i Daghmush, ha motivo di risentimento verso la «Forza di pronto intervento».
[FIRMA]DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI
E' come sbobinare un film già visto, nel 1993, erano i tempi di «Restore Hope». Donne e bambini scivolano come un rivolo colorato tra i calcinacci sudici di Mogadiscio, si aggrumano, fanno folla, gruppi di uomini si muovono alle loro spalle: miliziani armati? Parenti timorosi? Chissà, certo istigatori, burattinai, registi di una subdola guerriglia urbana. Si intonano cori di protesta sempre più fieri e aggressivi, cominciano a partire le prime pietre. Questa è l'intifada somala; poi basta cambiare le divise di chi sta dall'altra parte, con le armi in pugno. Gli americani quattordici anni fa, adesso ci sono le divise verde oliva dei soldati etiopici, anche loro venuti a portare una pace che molti non vogliono, pensano assomigli troppo a una invasione.
E' il nuovo capitolo, ieri, della guerra, l'ennesima, che non ha risolto niente. Alcune centinaia di somali hanno cominciato a manifestare nel quartiere di Tarbunka, nella zona sud della città, dove stava passando un convoglio di soldati di Addis Abeba mescolati ai governativi. Espliciti gli slogan: «non abbiamo bisogno di voi», «non vogliamo il disarmo a Mogadiscio». Ancor più esplicite le pietre. I soldati hanno sparato. Nella polvere è rimasto un ragazzo, Abdul Fatah Omar. «Gli hanno sparato alla schiena e il proiettile ha attraversato il cuore - raccontava il padre - è una cosa inumana, noi non vogliamo gli etiopici e i soldati del governo se ammazzano i nostri bambini».
Nella versione governativa della tragedia sono rimasti i lanci di pietre, la provocazione, sono scomparsi i soldati etiopici che devono restare buoni e liberatori. Ma non è bastato perchè la voce del ragazzo ucciso non si spargesse in quella caldaia che ribolle di umori, di odi, di congiure e voci che è Mogadiscio «liberata» dagli islamisti. Altre manifestazioni sono nate in vari quartieri, anche qui in strada soprattutto donne e bambini. Davanti all'edificio dove gli etiopici sono accasermati le strade sono state bloccate con barricate fatte di detriti e immondizie, vecchi copertoni incediati creavano una spessa coltre di fumo nero. Gli etiopici per liberarsi hanno di nuovo sparato, stavolta senza vittime.
E' purtroppo solo l'inizio. Sugli umori sempre più antietiopici lavorano incendiari indaffaratissimi: forse gli islamici nascosti in città, forse i capi tribali. Gli «hawiye» sono il grande clan di Mogadiscio, quello che ha sempre comandato in città e che forniva reclute alle Corti. Nei quartieri attorno a quello che un tempo era il ministero della difesa dove ci sono ancora le carcasse dei blindati dell'Unosom, vicino alla piazza dove Siad Barre faceva sfilare le sue truppe, attorno alla Posta dove oggi ci sono le luride tendopoli degli sfollati da Jowar, Abdullah Yusuf non è affatto il presidente, ma solo un nemico «darod» da cacciare. Qui nessuno accetta di restare senza armi. Impossibile procedere al disarmo delle milizie con la forza, sarebbe il segnale d'inizio di una furiosa battaglia urbana che fu già fatale ai ben più armati marines. Addis Abeba e i suoi alleati stanno sperimentando che nella ex colonia italiana la espressione «missione compiuta» è impronunciabile. Il parallelo con l'Iraq è allarmante. Solo che qui Washington ha impiegato i soldati di Meles Zenawi, fanteria che si può gettare nella mischia a piene mani e senza rimorsi. Ma ci sono lo stesso ossessivo insistere sulla guerra al terrorismo, lo stesso semplicismo, la stessa ignoranza di uomini e cose, lo stesso trionfalismo cieco.

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