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La Stampa Rassegna Stampa
06.01.2007 Due obiettivi per Israele
l'opinione di Avraham B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 06 gennaio 2007
Pagina: 33
Autore: Avraham B. Yehoshua
Titolo: «Una mano alla speranza in Israele»
Riportiamo dalla STAMPA del 6 gennaio 2006 un intervento di Avraham B. Yehoshua:

NEL corso dell’ultimo anno si è diffuso in Israele un nuovo senso di pessimismo. Da più di un secolo l’indice dell’umore nazionale è soggetto a fluttuazioni ma noi israeliani siamo sempre riusciti a superare lo scoramento e a sfidare previsioni molto più fosche di quelle avanzate di recente. Nell’anno appena trascorso, però, fattori nuovi, assolutamente da non sottovalutare, ci hanno provocato una vera e propria ansia e da qui la necessità di collocarli in un contesto storico appropriato per poter capire come affrontarli su un piano mentale oltre che su uno pratico.
Noi ebrei siamo orgogliosi di aver ripristinato la nostra sovranità nell’antica madrepatria dopo duemila anni di diaspora (la quale, a dispetto dell’opinione diffusa, era volontaria!) e consideriamo questo evento un esempio unico nella storia umana. Dobbiamo tuttavia capire che ciò che chiediamo ai palestinesi - direttamente coinvolti in questo evento - e alla nazione araba in generale - indirettamente coinvolta in questo evento - e cioè legittimare e accettare la nostra rinnovata sovranità, è difficile per loro come lo sarebbe per qualsiasi altro popolo. Quindi, a prescindere dagli aspetti concreti del conflitto tra israeliani e palestinesi, sta a noi riconoscere che la legittimazione stessa di un evento tanto peculiare e raro implica necessariamente un processo lento e complesso, un cammino accidentato e con molte regressioni. Nell’ultimo anno sono venuti alla luce due fattori nuovi e pericolosi che rappresentano ulteriori regressioni in questo complesso cammino:
1. Un crescente numero di palestinesi ha la sensazione che se nei prossimi decenni persevererà con pazienza e meticolosità nel rifiuto di riconoscere la legittimità di uno Stato ebraico a fianco di uno palestinese potrà, senza separarsi o disgiungersi da noi, trasformare Israele in uno Stato bi-nazionale e, in un futuro ancor più lontano, in uno Stato palestinese con all’interno una minoranza ebraica.
2. L’Iran è intervenuto in modo attivo e violento nel conflitto mediorientale, invocando l’annientamento di Israele e minandone la legittimità in nome di una solidarietà religiosa islamica. Un intervento non basato su controversie politiche né su rivendicazioni territoriali. Occorre anche ricordare che la posizione dell’Iran contrasta drasticamente con la sua politica in passato, quando, per più di trent’anni, ha mantenuto relazioni diplomatiche corrette, se non addirittura amichevoli, con lo Stato ebraico.
Questi due fattori risvegliano in noi israeliani una sensazione di pessimismo nei confronti del cammino che percorriamo ormai da molti anni. E affinché tale pessimismo non paralizzi il nostro buon senso o la nostra presenza di spirito occorre che Israele si ponga due chiari obiettivi.
1. Innanzi tutto l’ampliamento della sua legittimazione tra le nazioni del mondo arabo e musulmano grazie a un negoziato di pace con la Siria. Non dimentichiamo che anche durante l’ultima guerra del Libano, quando l’aviazione israeliana bombardava interi quartieri di Beirut, l’Egitto e la Giordania non solo non hanno sospeso le relazioni diplomatiche col governo Olmert, ma non hanno nemmeno simbolicamente richiamato i loro ambasciatori a Tel Aviv per consultazioni. Ciò significa che nel mondo arabo, nonostante le crisi ricorrenti, il rancore verso Israele, l’occupazione dei territori e le guerre più o meno giuste, la legittimazione dello Stato ebraico poggia ancora su basi solide che occorre ampliare e rafforzare con costanza grazie, appunto, a una pace con la Siria, e possibilmente anche col Libano. Una pace che rinsaldi altresì gli impegni internazionali ed europei nei confronti della regione.
2. In secondo luogo l’indebolimento del sogno palestinese di una «grande Palestina», obiettivo perseguibile mediante il proseguimento della divisione dei territori della Cisgiordania tra i due popoli. Sebbene al momento un accordo tra palestinesi e israeliani non appaia vicino né vi sia la volontà di duplicare il modello di ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza, è possibile iniziare uno sgombero di avamposti e di insediamenti isolati, senza tuttavia disimpegnare l’esercito. In questo modo si potrà mantenere la sicurezza fino al momento di un accordo definitivo (se e quando questo sarà raggiunto). Noi israeliani possiamo fermare o circoscrivere il processo di compenetrazione tra i due popoli. Lo sgombero di colonie, senza il ritiro dell’esercito, limiterà le tortuosità malvage della barriera di separazione e il numero dei posti di blocco.
Questa volta non potremo dissipare con la consueta ventata di ottimismo la sensazione di pessimismo che ci ha assalito durante l’ultimo anno (anche in seguito alla debolezza mostrata dal nostro esercito nella recente guerra in Libano). Potremo farlo però grazie a iniziative ponderate, mirate, ma soprattutto realistiche, e dare così una mano alla speranza.

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