Sul CORRIERE della SERA di oggi, 05/01/2007, a pag.14, Guido Olimpio rettifica la bufala di Michele Giorgio uscita sul MANIFESTO di ieri (si veda IC). Tra taccuini segreti introvabili e i ritagli di giornale spiegazzati nelle tasche, di Arafat si sa con certezza una cosa sola, che ha rubato nella sua vita politica centinaia di milioni di dollari. E che chi ne sa qualcosa se ne sta ben zitto, dalla moglie all'ultimo dei collaboratori, chi ad Amman, chi a Mosca, appunto, a goderseli.
Ecco l'articolo:
Quante volte durante l'intifada ci è capitato di assistere ad uno dei colpi preferiti di Yasser Arafat. Nel mezzo di un incontro infilava la mano bianca e tremante in una delle tasche della divisa. Poi tirava fuori, come una reliquia, un foglio dattiloscritto, un ritaglio di giornale, un appunto. E leggeva ad alta voce o lo agitava per aria. Quindi lo riponeva nella tasca battendo con la mano e dicendo: «Qui c'è il mio archivio». Sembrava una trovata del raìs-giocoliere. Ma non era così. La giacca verde militare era davvero «l'armadio dei segreti». Quattro tasche esterne, più almeno due interne. Per decenni Arafat le ha riempite di note confidenziali, documenti e taccuini su cui scriveva informazioni riservate. Una volta riempito, il libricino finiva in scatoloni ben custoditi nella Mukata, il vecchio fortino britannico trasformato in residenza a Ramallah.
Ora a qualcuno è venuto in mente di cercarli. L'autorevole quotidiano saudita
Asharq Alawsat ha condotto un'inchiesta per scoprire che fine abbiano fatte le carte. L'unica indicazione è venuta dall'ex segretario generale del Fatah Ahmad Abdul Rahman: «Sono al sicuro». Il funzionario palestinese ha confermato l'esistenza dell'archivio e la mania di Arafat di tenere i documenti nella giacca. Qualcuno sostiene che abbia iniziato a farlo dai giorni della fuga da Beirut — estate 1982 — e non abbia più smesso. I suoi uomini affermano anche che non aveva mai tenuto un diario: «Sarebbe stato troppo rischioso».
Il colonnello Mohammed Al Daya, per 18 anni guardia del corpo di Arafat, racconta che il presidente usava un libricino blu (10 cm per 15 cm) e una penna rossa infilata nelle tasche insieme a molte altre. «Quando lo aiutavo a cambiare giacca (ne aveva diverse della stessa foggia e colore), passavo i documenti da una tasca all'altra. Destra con destra, sinistra con sinistra». Una volta che il libricino era pieno, Arafat lo consegnava al suo segretario, il dottor Ramzi Khouri. Lui lo prendeva e lo infilava in apposite scatole, custodite in un armadio. Dicono che sia andata così fino ai giorni del drammatico ricovero a Parigi, nell'ottobre 2004. Ed è probabile che in questa occasione il materiale sia stato fatto sparire. Forse per prevenire la divulgazione di segreti. Oppure perché c'erano indicazioni che potevano portare al tesoro dell'Olp, centinaia di milioni di dollari mai più tornati nelle casse. Intisar Al Wazir, vedova di Abu Jihad, uno tra i più importanti capi del Fatah, giura che «era stato formato un comitato ad hoc per analizzare i documenti». Circostanza negata però da Abdul Rahman: «Era solo un' idea».
Al Daya ha suggerito di chiedere a Khouri, ma questi ha lasciato da tempo i territori e vive ad Amman, dove è presidente del Fondo palestinese. Dalla morte di Arafat non ha mai parlato con la stampa. Silenzioso anche l'ex direttore generale della Mukata, Fayez Hammad. Ha lasciato la Palestina in fretta e furia dopo i funerali del presidente. Una partenza vista con sospetto da molti. Risiede invece a Mosca Youssef Abdullah, capo della sicurezza personale di Arafat. Non c'è solo una curiosità giornalistica da soddisfare. Gli storici farebbero carte false per vedere quelle di Arafat, personaggio istrionico che diceva una cosa e ne faceva un'altra. Mettere le mani sui documenti della giacca sarebbe come scoprire un pezzo della vera storia della Palestina.
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