La STAMPA, traducendolo da Le Monde, ha pubblicato il 3/1/2007 un articolo di Nicolas Sarkozy sull'impiccagione di Saddam Hussein. Lo riproduciamo interamente più avanti. Prima segnaliamo un punto, di particolare interesse dal punto di vista sia lessicale che di contenuto. Le due sottolineature sono nostre. Eccolo:
Il processo a Saddam Hussein è stato difficile, perché l’imputato era colui che aveva sottomesso per più di trent’anni i suoi concittadini con l’assassinio e il terrore, colui a cui si rifanno tuttora i terroristi (per quanto mi riguarda, non posso chiamare «resistenti» coloro che ogni giorno fanno esplodere bombe in mezzo ai civili).
Se qualche lettore vuole scrivere alla STAMPA per invitare i tanti suoi collaboratori che invece usano abitualmente la parola "resistenti", riteniamo che faranno un'opera di bene. Non verrà forse ascoltata, l'elenco di quelli che la usano è lungo, ma una protesta serve sempre.
Ecco il pezzo integrale:
Avrei voluto che il processo a Saddam Hussein fosse diventato un punto di svolta della democratizzazione in Iraq. Purtroppo, l’esecuzione dell’ex dittatore iracheno ha gettato invece un’ombra su un evento che avrebbe dovuto essere positivo per la ricostruzione di questo Paese martirizzato.
Per cominciare, bisogna ammettere, con soddisfazione, che Saddam Hussein è stato giudicato da un tribunale. L’Alta Corte penale è un’istanza irachena, formata esclusivamente da magistrati iracheni, che ha svolto audizioni durante il processo aperte al pubblico. Anche se esperti e osservatori dicono, e certamente hanno titolo per affermarlo, che il dibattimento si è svolto in maniera disordinata, in un’atmosfera cui mancava la serenità. Tre avvocati del collegio della difesa sono stati assassinati durante il processo.
Il fatto che Saddam Hussein sia stato giudicato da un tribunale iracheno è già un successo, nelle circostanze in cui si trova il Paese. Ricordiamoci che l’Iraq ha scoperto solo da pochi mesi le libere elezioni, una Costituzione liberamente approvata, inaugurando soltanto di recente un governo di coalizione, un sistema parlamentare e una giustizia indipendente. Ma soprattutto, in questo Paese è in corso una guerra civile particolarmente sanguinosa.
Il processo a Saddam Hussein è stato difficile, perché l’imputato era colui che aveva sottomesso per più di trent’anni i suoi concittadini con l’assassinio e il terrore, colui a cui si rifanno tuttora i terroristi (per quanto mi riguarda, non posso chiamare «resistenti» coloro che ogni giorno fanno esplodere bombe in mezzo ai civili).
Mi sarebbe piaciuto poter dire che attraverso questo processo altamente simbolico lo Stato iracheno ha fatto un passo verso alcuni elementi essenziali della sovranità, come un sistema giudiziario indipedente e professionale, o una polizia democratica e integra. Ma la condanna capitale e l’esecuzione di Saddam Hussein me lo impediscono.
Sono contrario alla pena di morte. Per me si tratta di una questione di principio. Io credo che il mondo deve progredire verso la sua abolizione totale. E in questo caso, quando si tratta di uno dei grandi criminali della Storia, ritengo che l’Iraq sarebbe diventato più adulto se avesse rinunciato a giustiziare l’uomo che l’ha fatto tanto soffrire.
Spero ardentemente nella stabilizzazione dell’Iraq. Ma per me, la stabilizzazione autentica e profonda di quella regione passa attraverso la promozione dei valori democratici. Detesto l’idea che alcuni popoli siano condannati alla violenza per il solo motivo che essa è entrata a far parte di una tradizione plurisecolare, addirittura millenaria. Io considero una fase indispensabile del processo di democratizzazione dell’Iraq l’abolizione della pena di morte.
Infine, mi rammarico profondamente che Saddam Hussein, il dittatore che aveva più sangue sulle mani di chiunque altro al mondo, non sia stato giudicato per gli altri suoi crimini. Mi rammarico che non sia stato possibile rendere giustizia ai curdi, un popolo le cui sofferenze sono state indicibili, e il cui massacro con i gas, che ha ucciso cinque mila civili ad Halabja nel 1988, non è che uno dei tanti atti atroci che hanno subito. Mi duole che non sia stata resa giustizia agli sciiti, che nel 1991 hanno subito una repressione barbara da parte della Guardia repubblicana irachena, peraltro sotto lo sguardo impassibile della comunità internazionale.
E’ difficile conciliare le differenze che esplodono in un popolo dopo che esso è uscito da una dittatura. Ma questo compito diventa ancora più difficile quando non si è versato luce sul passato.
L’esecuzione di Saddam Hussein, il peggiore degli uomini, è stata un errore.
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