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Luciano Tas
Le storie raccontate
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Requiem per un dittatore 02/01/2007

A qualche giorno dall’impiccagione di Saddam Hussein si dovrebbe tentare qualche analisi un po’ più approfondita di quelle che in genere hanno accompagnato l’esecuzione del dittatore e che sono state spesso caratterizzate da scontate e virtuose condanne “bipartisan”  della pena capitale, seppure comminata a chi si è macchiato dei più gravi crimini.

 

Va da sé che la pena capitale non può che essere rifiutata da ogni persona civile e pensante, ma l’impressione nel caso di Saddam Hussein è stata di una specie di sovrappiù d’indignazione, con una gara a chi deprecava più forte l’esecuzione, ribadendo che gli Stati Uniti dovevano restare nel banco dei “cattivi” e additando di nuovo George Bush al ludibrio dei “buoni”.

 

Il coro è stato abbastanza compatto e quasi nessuno se ne è voluto sottrarre, a destra come a sinistra, dove qualcuno ha affermato che “se si è fatto il processo a Saddam si doveva farlo anche a Bush”, sottinteso: per le stesse ragioni e con lo stesso esito.

 

In Israele queste manifestazioni così virtuose non ci sono state. Ma si sa, gli ebrei non contemplano il perdono per delega, anzi, respingono l’idea che qualcuno sia autorizzato a perdonare il colpevole di crimini compiuti contro terzi, generalmente innocenti.

 

I missili lanciati da Saddam Hussein nel 1991 contro Israele, che pure si era scrupolosamente tenuto fuori dalla coalizione mondiale che stava reagendo contro l’Iraq dopo la sua aggressione al Kuwait, non hanno lasciato una buona impressione tra gli israeliani, così come le armi e i soldi forniti dall’Iraq di Saddam Hussein ai terroristi palestinesi non hanno disposto gli animi della popolazione d’Israele all’incondizionata clemenza.

 

In questo sono stati più generosi gli europei, con il fervore dei neofiti dell’etica. La loro disposizione alla magnanimità è direttamente proporzionale alla distanza dal pericolo e inversamente proporzionale al loro coinvolgimento diretto.

 

Ciò non toglie che la frettolosa impiccagione di Saddam Hussein (neglio sarebbe forse stata la sua uccisione in uno scontro a fuoco al momento della scoperta del suo nascondiglio sotterraneo) possa essere o apparire un errore politico.

 

Un errore come probabilmente lo sono stati quelli della guerra, della scelta del bersaglio iracheno, dello svolgimento delle operazioni militari e della gestione politica del dopo-Saddam.

 

Ma varrebbe la pena di domandare agli psicologi – o meglio ai meta-psicologi – il perché di tanto rumore mediatico di esecrazione nella vicenda dell’impiccagione. Anche perché è dubbio che quando Saddam Hussein si è presentato davanti a San Pietro, abbia ricevuto subito le chiavi del Paradiso per i suoi meriti.

 

Se poi politicamente l’esecuzione del dittatore iracheno possa essere stata o meno opportuna e “utile” (mi raccomando le virgolette per motivi etici), lo dirà il futuro.

 

Qualcuno, per esempio, ha sostenuto che questa impiccagione costituirà un messaggio preciso a orecchie solitamente disattente, comprese quelle di chi a Gaza e in Cisgiordania ha organizzato grandi manifestazioni di dolore per la morte di un loro protettore e finanziatore, o a quelle di chi da Damasco e da Teheran ha puntato le sue fiches sui numeri neri del terrorismo in Libano e nei Territori palestinesi.

 

Perché se quei numeri non escono, non si perde solo il denaro. Ad ogni  soffitto può dondolare una corda.

 


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