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La Stampa Rassegna Stampa
31.12.2006 E intanto in America, e intanto fra i palestinesi...
le analisi di Maurizio Molinari e Aldo Baquis

Testata: La Stampa
Data: 31 dicembre 2006
Pagina: 3
Autore: Maurizio Molinari-Aldo Baquis
Titolo: «La cartolina di Bush per Assad e Ahmadinejad-Le famiglie dei Kamikaze piangono il loro protettore»

La posizione degli Stati Uniti dopo l'esecuzione di Saddam Hussein, nell'analisi di Maurizio Molinari sulla STAMPA di oggi 31/12/2006 a pag.3.

"La cartolina di Bush per Assad e Ahmadinejad"

L’esecuzione di Saddam Hussein da parte di un governo democraticamente eletto a Baghdad è un evento-spartiacque nella storia del Medio Oriente sul cui impatto la Casa Bianca scommette per intimorire gli ultimi dittatori ed incoraggiare i ripettivi oppositori a deporli. «Finora i despoti arabi e musulmani erano convinti che sarebbero stati obbligati a cedere il potere solo per cause naturali ma il processo e l’esecuzione di Saddam hanno dimostrato che si sbagliavano»: le parole del libanese Fuad Ajami, orientalista di punta della Johns Hopkins University, spiegano perché l’impiccagione dell’ex Raiss costituisce uno shock per gli inquilini dei palazzi di Damasco e Teheran, come di Riad e Il Cairo, da sempre convinti di poter sopravvivere grazie alla capacità di opprimere il proprio popolo, sfruttare le ricchezze nazionali e siglare vantaggiosi compromessi con i Paesi stranieri.
Cambiare questa regola non scritta nel Medio Oriente dal quale si erano originati gli attacchi dell’11 settembre è stata una priorità per il presidente americano George W. Bush tanto nel primo mandato - allorché ordinò gli attacchi militari per deporre i taleban afghani e Saddam in Iraq - quanto nel secondo, iniziato il 20 gennaio del 2005 con il discorso neoconservatore di Washington sulla «rivoluzione democratica globale». Il libro che ha ispirato Bush è “Come liberarsi degli ultimi dittatori entro il 2025” pubblicato nel 2003 da Mark Palmer, noto per essere stato fautore del progetto di una Comunità delle Democrazie poi lanciato dall’amministrazione Clinton nel giugno del 2000. Se Palmer, ex ambasciatore Usa a Budapest durante la Guerra Fredda, teorizza che spetta ai popoli oppressi liberarsi delle dittature - a Bucarest con una fucilazione o a Berlino Est senza sparare un colpo - l’amministrazione Bush ritiene che sia compito delle democrazie esistenti creare le condizioni affinché ciò possa avvenire, proprio come avvenuto a Baghdad, dove Saddam sarebbe ancora al potere senza l’intervento Usa.
Da qui il valore psicologico e strategico delle foto dell’ex Raiss impiccato: in una regione del Pianeta dove a prevalere è ancora la legge della forza Bush scommette che abbiano scosso il siriano Bashar Assad e l’iraniano Mahmud Ahmadinejad quanto basta per fargli cessare le interferenze in Libano ed Iraq ed abbiano colpito l’egiziano Hosni Mubarak ed il saudita Abdullah al punto da fargli accelerare le riforme istituzionali. Se nel 1986 Ronald Reagan mandò 66 jet a bombardare la casa di Muammar Gheddafi a Tripoli per spingerlo a rinunciare al terrorismo, venti anni dopo George W. Bush si affida ad una fotografia terribile e rivoluzionaria per recapitare la stessa richiesta a chi finanzia o sostiene Hamas, Hezbollah, i jihadisti sunniti o le milizie sciite in camicia nera di Moqtada al Sadr.

E quella palestinese nell'analisi di Aldo Baquis. " Le famiglie dei Kamikaze piangono il loro protettore".

Nel suo testamento politico, espresso in poche stringate parole, Saddam Hussein ha reso ieri omaggio all’Islam, alla Nazione irachena e alla «Palestina araba»: la quale ieri ha reagito con un misto di collera e di dolore alla notizia della sua esecuzione sul patibolo, proprio nella apertura della Festa del Sacrificio (Id el-Adha), una ricorrenza che induce in genere alla gioia, al perdono, e alla serenità di spirito.
Facendo forza su questi sentimenti, i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania hanno ieri esposto grandi effigi del deposto presidente iracheno, hanno issato bandiere nere e hanno proclamato alcune giornate di lutto in memoria «di un grande amico del presidente Yasser Arafat e del popolo palestinese».
In Israele, il Paese che Saddam sperava di neutralizzare dotandosi di armi non convenzionali, la reazione è stata pacata. Il viceministro della difesa Efraim Sneh ha parlato di una «giustizia retroattiva» applicata a colui il quale si era macchiato per vent’anni di crimini contro la umanità, ma ha anche notato che anche in futuro l’Iraq rappresenterà una minaccia per la stabilità regionale. Per due ragioni: la prima, secondo Sneh, è che l’Iran sta estendendo la propria influenza nel Sud sciita, dove fra l’altro sono concentrate ingenti riserve petrolifere, e in seno al governo; la seconda consiste nella ribollente attività terroristica che dall’Iraq rischia di estendersi ad Ovest, verso la moderata Giordania e verso lo stesso Israele.
In una giornata di festa religiosa solenne, le reazioni pubbliche dei dirigenti palestinesi sono state scarne. Ismail Radwan, un portavoce di Hamas, ha accusato gli Stati Uniti di aver compiuto un crimine politico eliminando Saddam. Anche i portavoce dei principali partiti palestinesi hanno stigmatizzato il processo e la condanna a morte dell’ex presidente iracheno.
In particolar modo fra le formazione laiche e di sinistra Saddam contava nei Territori molti sostenitori: nel 1991 avevano plaudito ai lanci di razzi iracheni su Tel Aviv e Haifa, in sostegno della prima intifada palestinese. Il dirigente iracheno aveva poi ulteriormente incoraggiato la rivolta armata dei palestinesi versando 25 mila dollari alle famiglie di ogni kamikaze, e 10 mila dollari alle famiglie di ogni combattente palestinesi caduto in battaglia. A Jenin, dove i finanziamenti iracheni sono stati particolarmente generosi, la vita ieri si è fermata per lutto.
Per tutta la giornata si sono attesi, invano, i commenti del presidente Abu Mazen (che pure per decenni è stato al fianco di Yasser Arafat, il grande alleato di Saddam) o del premier islamico Ismail Haniyeh. Possibile che le ultime parole di Saddam Hussein, è stato chiesto, almeno quell’omaggio estremo alla «Palestina araba», non suscitassero in loro alcuna particolare commozione? Secondo un analista politico della agenzia di stampa palestinese Maan, sia Abu Mazen sia Haniyeh hanno scelto in questa occasione le ragioni della real politik. «Dopo aver normalizzato le relazioni con Kuwait - nota l’analista - Abu Mazen non può più pronunciare in pubblico parole di apprezzamento per Saddam Hussein».
Ma anche Haniyeh, secondo Maan, aveva ieri la bocca cucita per via dei suoi legami di grande amicizia con i dirigenti di Teheran, un altro Paese attaccato a suo tempo da Saddam. Per una volta i dirigenti palestinesi hanno preferito dunque che ad esprimere il dolore della loro nazione fossero le immagini riprese nelle strade di Gaza e di Ramallah che dicevano con eloquenza che nei Territori la collera verso gli Stati Uniti è ancora cresciuta ieri: il che rende ancora più ardua la via intrapresa da Abu Mazen quando, assecondando le attese del Quartetto, ha deciso di sfidare il governo di Hamas e di puntare ad elezioni anticipate.

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