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La Stampa Rassegna Stampa
27.12.2006 Quando l'economia punta sul lancio dei missili
succede a Gaza, ma al giornale torinese interessa solo il colore

Testata: La Stampa
Data: 27 dicembre 2006
Pagina: 13
Autore: Ulrike Puntz
Titolo: «Gaza, l'ordinaria povertà della generazione perduta»

Su LA STAMPA di oggi, 27/12/2006, a pag.13, un articolo di Ulrike Putz, tratto dal settimanale tedesco DER SPIEGEL. Un esempio classico di come si scrive un pezzo si Gaza, descrivendone, gli errori e gli orrori, senza che mai venga in mente a chi scrive di cercare dove stiano le responsabilità. Per scrivere articoli simili la STAMPA poteva risparmiare i soldi dati allo SPIEGEL, bastava un qualunque Igor Man della propria scuderia. Nella cronaca della Putz, non viene mai detto come mai ci siano ancora a Gaza campi profughi, dopo un anno e mezzo che è governata dall'Autorità palestinese, si dà gran spazio al direttore dell'UNRWA, al quale si dovrebbe chiedere come mai la sua agenzia abbia mantenuto per decenni i profughi palestinesi in campi invece di integrarli (con tutti i miliardi di $ spesi ne avrebbero integrati dieci vlote tanto !) se non in funzione antisraeliana. La cronista tedesca dovrebbe aver sentito la curiosità di informarsi meglio sul confine egiziano prima di stupirsi dei controlli che ne rendono difficile il valico. Mai sentito parlare di tunnel per il trasporto di armi e droga ? Altro che "espandere l'economia", come si lamentano gli intervistati dallo SPIEGEL, il problema vero è che l'unico settore che ha destato l'interesse dei governanti di Gaza è stato quello missilistico, cioè i Kassam da lanciare su Israele. Invitiamo i nostri lettori a leggere con occhio critico la pagina della STAMPA, da lì si capira come si crea e diffonde disinformazione.

Ecco il pezzo:

A piedi nudi; vestito solo con una lunga e ingrigita camicia da notte; il sonno negli occhi: se suo zio non avesse bussato con violenza alla porta, Ahmed Kahlout molto probabilmente starebbe ancora dormendo. Invece si trascina fuori dal letto alle 11.30, apre la porta e invita i suoi ospiti.
Poi, come un vecchio uomo, si ributta nei due materassi che fanno da sofà nella casa dei suoi genitori - l’unico arredo nel soggiorno a parte un falso tappeto persiano. Si siede e inizia a raccontare stancamente la sua storia, la stessa di molte che si sentono nella Striscia di Gaza: una buona formazione ricevuta in una scuola sostenuta da un’organizzazione di aiuti, quindi una laurea. Dopo di ché, la realtà della vita a Gaza City ha distrutto tutti i suoi sogni.
«Mi sono laureato in pedagogia, e volevo diventare un professore», spiega il 23enne. Invece è disoccupato e passa il tempo dormendo. «Non posso sposarmi, perché non ho soldi da dare alla famiglia. Quindi ho molto tempo da ammazzare».
E lo fa stando seduto nella semi-oscurità. Le strade del campo profughi di Shati nel nord di Gaza City sono così strette che difficilmente entra un raggio di luce nell'appartamento di due stanze della sua famiglia. Un anziano è appollaiato fuori mentre vende il suo pane ammuffito come cibo per polli e capre. Il primo ministro palestinese Ismail Haniyeh vive a poche vie da qui. Il leader di Hamas non si è mosso fuori dai bassifondi una volta divenuto primo ministro - cosa che gli ha dato grande rispetto fra i suoi seguaci.
Ma Ahmed Kahlout è troppo apatico per diventare un radicale, malgrado le cose, per lui, vadano così male. Ahmed è nella stessa situazione della maggior parte della popolazione di Gaza: vanno avanti con vite marcate dalla povertà e dalla disperazione. Vivono un'esistenza dove i conflitti di sangue tra la radicale Hamas e l'apparente corrotta Fatah sono solo una sfortuna in più.
La striscia di Gaza è lunga appena 40 chilometri e profonda 10 - e per anni è stata proverbiale per la sua povertà che quest'anno è stata molto più dura da sopportare. Per capire il livello, bisogna andare a trovare John Ging. E' il direttore del United NAtions Refugees e Works Agency (UNRWA), il corpo chesi occupa dei palestinesi dopo la fondazione dello stato di Israele nel 1948.
Le statistiche che l'irlandese fornisce parlano da sole: l'89% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. Più del 60% è disoccupata, e dall'elezione del governo di Hamas gli aiuti internazionali si sono prosciugati. La somma era usata per pagare gli stipendi della pubblica amministrazione. Ora, anche chi ha un lavoro è diventato povero: sono più di 860 mila gli abitanti della striscia di Gaza che stanno vivendo con le razioni di cibo distribuite dall'UNRWA. Oltre la metà della popolazione.
Ma il vero dramma, dice Ging, è che i palestinesi stanno «effettivamente vivendo in una grande prigione». L’ottimismo che era subentrato dopo la ritirata delle truppe israeliane l'anno scorso, altrettanto rapidamente si è trasformato in disperazione. «Una volta che fossero stati aperti i confini con l'Egitto, contavamo di espandere la nostra economia», dice Ging.
Invece, il commercio è bloccato a una fermata virtuale, così come il confine è rimasto per lo più chiuso. Israele ha accertato che a Rafah lil confine è valicabile per un misero14% del tempo. E appena 14 autocarri passano attraverso Kareni ogni giorno - invece dei 400 previsti. Questo è l'unico attraversamento per i beni che devono essere importati da Israele.
«In accordo con i trattati del 5 dicembre sulla libertà di movimento, il confine di Rafah rimane aperto se ci sono gli osservatori europei», dice Ging. Il fatto è che, questi ultimi vivono in Israele e Israele può, a sua discrezione, impedire loro di attraversare la striscia di Gaza. «Che è come chiudere un confine».
Anche gli agricoltori che erano soliti esportare i loro prodotti a Israele sono bloccati. Questa è la quotidiana follia della Striscia di Gaza: abbondanza di pomodori nei mercatie neanche un pesce. Il pezzo di terra corre lungo la costa, ma i pescatori raramente sono autorizzati a uscire in mare dagli israeliani. E il pesce congelato raramente oltrepassa il confine di Israele.
Mahmoud Abu Djayeb lavora in un negozio di riparazioni per le merci elettriche nel mercato centrale. Oggie ha più lavoro che mai. La gente non può permettersi nessun nuovo apparecchio, quindi ha bisogno di riparare anche il più usurato dei fornelli. «Ma questa non è una mia abitudine» protesta il 51enne. «Tutto quello che ho guadagnato è un libro pieno di promesse. Tutti stanno vivendo a credito. Nessuno ha soldi per pagarmi».
Ging non dà la colpa a Israeleper tutto. Quando parla di Hamas nella sua voce si sente un filo di rabbia: « Sapevano che il flusso di soldi sarebbe stato interrotto se non avessero mantenuto le relazioni con la comunità internazionale» dice. «Ma non lo fa in nessun modo. Questo è irresponsabile. Il partito ha ignorato il fatto che la gente avrebbe sofferto». Sostiene che i donatori internazionali hanno il diritto di sospendere gli aiuti economici. «Ma allora non possono stupirsi quando lo sforzo psicologico degenera in violenza». Il fatto che il governo palestinese dipendesse al 70% dagli aiuti internazionali non fu nemmeno considerato. «L'assenza degli aiuti ha creato il caos».
E ancora peggiore è lo sforzo psicologico a cui i palestinesi sono sottoposti. «Nel passato la gente sperava che gli israeliani se ne sarebbero andati. Oggi non c'è più luce alla fine del tunnel», dice Ging. Il morale è terribilmente basso. La gente si sente oppressa. La disperazione conduce alla distruzione, che a sua volta si trasforma in violenza. Che cosa preoccupa Ging è la generazione perduta che sta crescendo. «Appena si prova a stimolare un giovane ad imparare, ecco che subito quello capisce che non c’è assolutamente nulla ad attenderlo dopo la scuola».
Ahmed Kahlout si è finalmente svegliato, e si è anche messo una maglietta e un paio di pantaloni per i suoi ospiti. Ma è rimasto muto. No, non ha la più pallida idea di che cosa potrebbe fare nel prossimi cinque anni. No, non credeva nella politica e non ha nemmeno votato. «La guerra civilesi mangerà tutto quanto in ogni caso», dice. E poi John Ging conclude «lo spirito dei palestinesi non è ancora distrutto, hanno ancora la possibilità di organizzare i loro affari». Ma l'uomo delle Nazioni Unite potrebbe essere un po’ troppo ottimista.

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