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L'Espresso Rassegna Stampa
22.12.2006 Stiamo vendendo ad Ahmadinejad il suo genocidio
componenti dual-use dall'Occidente all'Iran:pezzo per pezzo, la bomba si sta facendo

Testata: L'Espresso
Data: 22 dicembre 2006
Pagina: 0
Autore: Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi - Stefania Maurizi
Titolo: «Iran la pista atomica - Da Modena a Teheran»

L' ESPRESSO di venerdì 22 dicembre 2006 pubblica un'inchiesta di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi sulle forniture di materiali "dual use" (vale a dire utilizzabili per scopi civili, ma anche per costruire armi nucleari) all'Iran, da parte di aziende occidentali.
Ecco il testo:

Una fabbrichetta emiliana che commercia in metalli; un'affermata ditta nella periferia di Parigi. Ma anche la succursale magiara di un colosso Usa e la filiale olandese di una multinazionale. Tutti dedicati a raccogliere affari in patria e all'estero, tutti a loro insaputa coinvolti nella rete che cerca di costruire la più grande minaccia alla pace mondiale: il programma bellico del presidente Ahmadinejad. Sì, gli ingranaggi per la macchina di morte iraniana vengono dall'Occidente: da Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Canada, ma anche dall'Italia e persino dagli Stati Uniti. Piccoli contratti, importi limitati e alto valore strategico: tante gocce che passano attraverso le frontiere e alimentano i sogni nucleari e missilistici di Teheran.

La catena di aziende non si occupa di forniture militari: produce manufatti che hanno quasi esclusivamente usi civili ma che in alcuni casi possono diventare determinanti per sperimentare e assemblare armi di distruzione di massa. In cattive mani le barre di alluminio speciale che servono per la scocca delle Ferrari si trasformano in componenti delle centrifughe che 'arricchiscono' l'uranio. O i cuscinetti a sfera venduti per fare la tac negli ospedali diventano congegni per migliorare il tiro di un missile intercontinentale. La formula magica degli alchimisti dell'apocalisse è tutta in due parole e un trattino: 'Dual-use'. Doppio uso, appunto: pezzi innocui fino al momento in cui diventano parte di un sistema bellico.

Si può esportare materiale dual-use in un Paese accusato di volere costruire la bomba atomica senza correre rischi? In Italia sì. In Italia è possibile vendere all'Iran leghe speciali che richiederebbero un'autorizzazione ministeriale e non subire nessuna sanzione. Si possono cedere metalli ad alta resistenza, utili anche per missili intercontinentali e centrifughe nucleari, e non pagare nemmeno una multa. Perché queste sono le conclusioni della magistratura di Modena alla fine dell'inchiesta sulla Commerciale Fond, l'azienda emiliana che per quattro volte dal 2002 ha venduto alluminio 'a doppio uso'alla Step della famiglia Jafari: materiale che potrebbe essere finito tutto a Teheran, salvo l'ultimo container sequestrato alla dogana turco-iraniana di Gurbuluk.

Un anno fa, quando dalla Turchia è arrivata la notizia del sequestro e il primo rapporto sugli intrighi italiani dei procacciatori di Teheran si mosse persino il Sismi. I massimi responsabili dell'intelligence nella lotta al traffico di apparati strategici si presentarono nella Procura di Modena e negli uffici della fabbrichetta sotto accusa. Poi invece gli accertamenti sono stati affidati al personale delle Dogane: una squadra con pochi mezzi investigativi. Mentre la Procura non ordina nessuna perquisizione, nessuna rogatoria, nessuna perizia tecnica sul materiale sequestrato in Turchia. I reparti specializzati di carabinieri e Fiamme Gialle che in genere indagano su queste trame non sono nemmeno stati interpellati. Eppure la vicenda era a dir poco inquietante.

Perché quando i tecnici dell'Agenzia turca per l'energia atomica hanno esaminato le barre provenienti dall'Italia si sono pronunciati senza dubbi: quello che stava finendo in Iran è alluminio T6-7075. Ossia materiale dual-use, esportabile al di fuori dell'Europa solo dietro licenza.

Alla stampa locale, poi, un anonimo esperto dell'Agenzia turca indica quel carico di T6-7075 come un potenziale componente per le centrifughe destinate ad arricchire l'uranio: elementi fondamentali per costruire la bomba. "Le parti rotanti delle centrifughe P-1 sono tubi di alluminio T6-7075 di dimensioni determinate", spiega a 'L'espresso' l'ex ispettore dell'Onu David Albright, aggiungendo che i cilindri di questo tipo di alluminio possono servire per costruire un elemento delle centrifughe chiamato 'end caps'. Trovare T6 sul mercato non è difficile: l'azienda di Modena l'aveva in magazzino "per rifornire l'indotto Ferrari". Ma è un materiale sotto stretto controllo: tutti i paesi membri del Nuclear Suppliers Group applicano restrizioni all'esportazione proprio perché ha impieghi nel campo nucleare. In Italia chi le viola rischia almeno due anni di carcere. Qualunque azienda che voglia vendere al di fuori dell'Unione europea tubi e cilindri di T6 deve chiedere un permesso all'autorità nazionale che vigila sul dual-use: la Direzione generale del ministero del Commercio estero. Dove un funzionario ci spiega: "Noi valutiamo in che paese l'azienda intenda esportare il bene dual-use, valutiamo il tipo di prodotto e soprattutto chi sarà l'utilizzatore finale. Poi decidiamo se concedere o meno l'autorizzazione, avvalendoci della consulenza di tecnici nucleari, chimici. Molte aziende, però, non sanno nemmeno di produrre beni dual-use".

È quello che hanno sostenuto i dirigenti della Commerciale Fond. Si sono presentati davanti al pm Pasquale Mazzei fornendo i documenti dei contratti con la Step: in tre anni quattro spedizioni. Totale: 6 tonnellate per un importo fatturato di 30 mila euro. "Ma siamo in buona fede, ignoravamo di dovere chiedere autorizzazioni", hanno dichiarato. Il sostituto procuratore gli ha dato ragione, chiedendo di archiviare le accuse penali. Perché? Scrive il magistrato: "Non c'è azione volontaria: non conoscevano la normativa, l'importo è modesto, c'è carenza di elementi indiziari ulteriori". Il gip accoglie questa impostazione con un modulo prestampato: tutto archiviato un mese fa. Tanto, bisogna aggiungere, il reato penale sarebbe stato cancellato dall'indulto.

Sorprende però quella 'carenza di elementi indiziari ulteriori'. Le prove sono state cercate? E qual è stato il ruolo del Sismi in questo intrigo internazionale? All'inizio gli 007 si sono scatenati, poi sono scomparsi. "È tutto in mano al generale Gruner", avevano risposto dall'Agenzia delle Dogane alla nostra richiesta di parlare col dottor Antonio Fusco, il funzionario di Modena che ha condotto le indagini per conto della magistratura. Un maresciallo del Sismi si è presentato nella sede dell'azienda modenese: senza mostrare tesserini ha chiesto di esaminare i contratti turco-iraniani. "Tenetemi informato su eventuali altre commesse di T-6", ha ordinato fornendo solo un indirizzo e-mail di quelli che si scaricano da Internet. Il misterioso maresciallo ha poi dato indicazioni, sempre via e-mail, per frenare le ulteriori richieste di alluminio speciale ricevute dalla ditta all'indomani del sequestro turco. Anche lui, però, non contribuisce alle indagini.

Ricorda un'altra fonte: "Arrivarono a Modena due pezzi grossi dell'intelligence, un civile e un militare, il civile era il capo della sezione contro-proliferazione del Sismi e il militare era, credo, un generale della Finanza. I due dissero che avevano la possibilità di recuperare il materiale sequestrato in Turchia e chiesero agli inquirenti se potevano essere interessati". Ovviamente, ci assicura la fonte, gli inquirenti erano interessati. "Ma per attivare una rogatoria internazionale e recuperare il metallo, occorreva una comunicazione ufficiale e invece, dopo la prima visita, gli uomini del Sismi si dileguarono: spariti completamente".

Nessun sequestro, nessuna perizia. Le indagini della Procura si sono basate su fatture, bolle doganali ed email fornite dall'azienda: tutte carte in cui la descrizione delle barre di alluminio è riportata in modo a dir poco sommario. Nelle pratiche presentate alla dogana, per esempio, si omettono le caratteristiche speciali T6 del metallo. Ma senza perizia non si riesce ad avere indicazioni sull'impiego finale del metallo. "Per capirlo", spiega a 'L'espresso' un esperto che ha condotto ispezioni per conto dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), "serve una descrizione accurata del materiale sequestrato. Ma sulla base dei dati disponibili, mi sembra più probabile che venga usato nel settore missilistico". 'L'espresso' ha poi sottoposto gli elementi tecnici raccolti dalla magistratura di Modena a un analista internazionale. Che ha concluso: queste informazioni non bastano per ricostruire l'impiego finale. "Il materiale potrebbe servire per tanti usi aeronautici, militari o civili. I diametri sembrano troppo grandi per coincidere con i primi modelli di centrifughe inglesi, olandesi, pachistane o russe", tutti modelli che, si presume, gli iraniani potrebbero aver copiato o ottenuto clandestinamente.

Di sicuro, a Teheran c'è fame di T6: è indispensabile per costruire i nuovi missili intercontinentali, il vanto dell'arsenale della repubblica islamica che vuole annientare Israele. Ma è anche fondamentale per arrivare all'atomica. Alle delegazioni internazionali il governo Ahmadinejad ha dichiarato di non avere bisogno di importare il T6: "Lo produciamo in patria". Ma Albright è scettico su questa affermazione. È possibile che l'Iran stia comprando in Italia e in Europa alluminio speciale per il programma di centrifughe nucleari? "È senz'altro possibile", dice l'ex ispettore Onu a 'L'espresso'. Acquistare barre grezze permette più facilmente di superare i controlli: tubi e dischi già tagliati possono essere identificati. La magia del dual-use si dissolverebbe, lasciando solo l'ipotesi dell'utilizzo atomico. Ed esponendo venditori e broker a rischi alti. Invece con le barre, come dimostra il caso di Modena, non ci sono pericoli legali. Anche quando il carico viene spedito a un'azienda fantasma.

L'alluminio venduto dalla Fond alla ditta della famiglia Jafari era destinato alla Shadi Oil Industries di Teheran. Il nome sembra indicare una compagnia del settore petrolifero, ma nessuno degli operatori specializzati l'ha mai sentita nominare e non compare nei database disponibili nella capitale iraniana. A quanto risulta a 'L'espresso', all'indirizzo della Shadi Oil c'è soltanto un negozio di alimentari. Dunque Shadi, che in farsi significa 'felicità', è probabilmente una compagnia di facciata: a Teheran il metallo partito da Modena avrebbe fatto di sicuro la felicità di qualcuno. Ma il nome non è negli atti dell'inchiesta penale e non ci sarà mai. Perché per la legge italiana basta la buona fede. E anche il più diabolico dei componenti dual-use diventa candido.

Il dual-use è la grande falla. Fa sfuggire dai confini di Europa e Stati Uniti elementi preziosi per la corsa agli arsenali di sterminio. È questa la tecnologia che ha permesso a Saddam Hussein di fabbricare gli ordigni chimici per massacrare i curdi; quella che ha consegnato a Gheddafi la capacità di distillare gas tossici; quella che ha permesso al misterioso fisico pachistano Khan di lavorare indisturbato per anni all'atomica. Ora un'inchiesta condotta dalle autorità turche mostra come anche l'Iran che invoca l'annientamento di Israele si stia abbeverando alla stessa sorgente di materiali dalla doppia vita. Con una grande triangolazione che 'L'espresso' è in grado di ricostruire.

Tutto nasce in Turchia. Ma parte da molto lontano. E finisce sempre a Teheran. Come spesso accade, la prima scintilla viene dagli Usa: ufficialmente l'allarme porta la firma degli investigatori doganali, in realtà l'informazione arriva dritta dritta dal quartiere generale della Cia. Nel mirino c'è l'Alcoa, il colosso mondiale dell'alluminio con capitale a Pittsburgh. Che segnala ad Ankara: "Le nostre filiali magiara e russa stanno vendendo metalli a una società turca amministrata da cittadini iraniani. Sospettiamo che, contrariamente alle dichiarazioni, questi materiali poi finiscano a Teheran".

In Turchia la segnalazione viene presa molto sul serio. Nel segreto vengono avviate le indagini: formalmente l'inchiesta è condotta dall'ufficio delle dogane, ma ad investigare è la brigata speciale della polizia antidroga. L'azienda indicata nel documento americano si chiama Step Standard e appartiene alla famiglia Jafari, iraniani che fanno la spola tra Turchia e repubblica islamica. Gente con buone disponibilità economiche, attiva nei cinque continenti e che in fatto di documentazione doganale sembra saperne una più del diavolo. I fratelli Jafari e il loro padre comprano di tutto, per poi mandarlo in Iran. Violando più di una norma. Quando le autorità turche fanno scattare i controlli, evidenziano subito una serie di operazioni misteriose: materiali dual-use importati per venire utilizzati in Turchia, un paese della Nato che quindi non genera sospetti, e invece fatti arrivare nella capitale iraniana.

Nella lista nera dell'export sotto inchiesta ci sono pezzi arrivati dall'Unione europea, dal Canada e dagli Stati Uniti. Si tratta di forniture di alluminio ad alta resistenza, di equipaggiamenti per test elettronici, di componenti che possono servire per guidare i missili a lungo raggio o elaborare esplosivi. Tutti materiali che al momento del blitz turco hanno già preso il volo. Solo nella dogana di Gurbuluk si riesce a fermare un container con dei grandi cilindri di metallo. Nei documenti sono indicati come alluminio standard, invece hanno subìto una lavorazione speciale per impieghi particolari. La Step li ha acquistati da una ditta di Modena per venderli a una società petrolifera di Teheran chiamata Shadi Oil. Una sigla che secondo gli esperti petroliferi interpellati da 'L'espresso' non esiste: all'indirizzo della Shadi Oil c'è soltanto un negozio di alimentari. I tecnici dell'Ente turco per l'energia atomica hanno esaminato le barre di alluminio. Nel rapporto ufficiale scrivono: "È T6, un materiale dual use incluso nella lista del nuclear supply group", ossia un elenco di prodotti 'sorvegliati speciali' perché utili nel campo nucleare. Per commerciarli è necessaria una serie di autorizzazioni ministeriali, che non sono mai state richieste. Né in Italia, né in Turchia.

Ancora più inquietante è la vicenda dei cuscinetti a sfera arrivati dalla Francia via Italia. Li produce l'Adr, uno stabilimento a 60 chilometri da Parigi specializzato in 'strumenti di precisione per l'industria aeronautica, spaziale, militare e medica'. L'acquisto è stato effettuato dalla solita famiglia Jafari, ma invece di contattare direttamente la fabbrica francese, si sono rivolti alla Frusca attrezzature industriali di Milano. La Frusca rispetta le regole e scrive ai mediatori turco-iraniani: "Se i pezzi servono per dei giroscopi, allora è necessario un certificato che indichi chi sarà l'utilizzatore finale". Anche la Adr ribadisce: "Queste componenti possono servire per scopi militari: è necessaria una dichiarazione dell'acquirente turco sull'uso civile e l'impegno a non rivenderli". Nessun problema: dalla Step di Istanbul arrivano i documenti richiesti. I 250 pezzi arrivano in Turchia e ripartono subito per l'Iran. Tutto in regola? No. Sorpresa: lungo la strada le carte cambiano. E quelli che erano usciti dalla Francia come 'cuscinetti a sfera per uso civile' per un valore di 27.300 euro diventano 'cuscinetti a sfera per giroscopi' con un prezzo di 56.300. Gli investigatori di Ankara scoprono che rispetto alla copia dei certificati mandati a Parigi in Francia è stato aggiunto con caratteri diversi 'beni destinati all'Iran'. Roba da Totò e Peppino, che però sortisce risultati da guerre stellari. I giroscopi infatti sono elementi decisivi per il sistema di guida dei missili a lunghissimo raggio. Senza giroscopi modelli come lo Shahab 3 e l'ancor più potente modello 4 che Teheran sta sperimentando possono sbagliare bersaglio di decine di chilometri: un apparato del genere invece può pilotarli fino a poche decine di metri dal bersaglio dopo un volo di 2 mila chilometri.

Ma a leggere il dossier dell'inchiesta di Ankara il gioco dei certificati ritoccati è stato ripetuto parecchie volte: 17 solo nel 2005. Gli agenti turchi nella sede della Step hanno trovato un foglietto bianco con un timbro: è il timbro che serve proprio per questi documenti. Sì, il sospetto degli inquirenti è che alla Step disponessero di un timbro contraffatto, che era stato provato sul pezzetto di carta prima di metterlo sotto uno dei certificati fasulli. Trucchi da 'I soliti ignoti' per contrabbandare tecnologia da distruzione totale.

Ma setacciando la contabilità della Step i sospetti si sono moltiplicati. Sono finiti sotto esame contratti con la Fluke company, la filiale olandese della multinazionale specializzata nei sistemi per test elettronici. Altre commesse provengono dalla Flowserve britannica, che fornisce pompe e ogni genere di valvole per l'industria petrolifera e per le centrali nucleari. Il percorso dei prodotti della Flowserve va dall'Olanda a Istanbul e da lì viene girato alla Carvana di Teheran. Ma chi è l'agente della Carvana? 'L'espresso' ha scoperto che si tratta di Mohammed Javad Jafari, il patriarca della Step. Non è una coincidenza, ma un tassello decisivo. Che chiude il cerchio.

Nell'ottobre 2005, all'indomani del sequestro in Turchia delle barre di alluminio speciale, l'azienda di Modena che le aveva vendute alla Step viene contattata da una società iraniana che cerca lo stesso tipo di metallo. Il nome? Carvana, appunto. Un'altra sigla, gli stessi acquirenti: sempre la famiglia Jafari. E cosa dichiarano: l'alluminio serve per costruire camion su licenza Daimler Chrysler. Sapete a cosa doveva servire l'alluminio speciale commissionato all'Alcoa, quello che ha fatto scattare il primo intervento americano e nascere tutta l'inchiesta? Camion su licenza Daimler Chrysler.

Stessa scusa, stessi sospetti. Che crescono se si va a studiare la storia della Carvana. Una ditta che risulta privatizzata da poco: prima era posseduta Bank Saderat of Iran, un istituto statale che un anno fa ha ceduto le azioni ai manager. E l'8 settembre scorso il governo di Washington ha vietato ogni rapporto con la banca degli ayatollah: "Finanziano il terrorismo".

Il contratto tra la fabbrichetta modenese e la Carvana è saltato poi per l'intervento del Sismi. Fine del gioco? No. Si troverà un'altro buco nella rete, un'altra azienda europea che non fa troppe domande, un altro timbro falso. E l'Iran di Ahmadinejad potrà recuperare altri materiali strategici. Avanti. Sfruttando la falla del dual-use. E le crepe nella collaborazione internazionale. Le autorità turche, per esempio, hanno chiesto informazioni ai paesi europei coinvolti nei commerci della famiglia Jafari. Senza quelle notizie, non sarà possibile chiudere l'inchiesta. Ma molte delle risposte non risultano mai essere arrivate ad Ankara. Neppure quella dell'Italia.

Di seguito, un articolo di Stefania Maurizi sul caso di un'azienda modenese:

Si può esportare materiale dual-use in un Paese accusato di volere costruire la bomba atomica senza correre rischi? In Italia sì. In Italia è possibile vendere all'Iran leghe speciali che richiederebbero un'autorizzazione ministeriale e non subire nessuna sanzione. Si possono cedere metalli ad alta resistenza, utili anche per missili intercontinentali e centrifughe nucleari, e non pagare nemmeno una multa. Perché queste sono le conclusioni della magistratura di Modena alla fine dell'inchiesta sulla Commerciale Fond, l'azienda emiliana che per quattro volte dal 2002 ha venduto alluminio 'a doppio uso'alla Step della famiglia Jafari: materiale che potrebbe essere finito tutto a Teheran, salvo l'ultimo container sequestrato alla dogana turco-iraniana di Gurbuluk.

Un anno fa, quando dalla Turchia è arrivata la notizia del sequestro e il primo rapporto sugli intrighi italiani dei procacciatori di Teheran si mosse persino il Sismi. I massimi responsabili dell'intelligence nella lotta al traffico di apparati strategici si presentarono nella Procura di Modena e negli uffici della fabbrichetta sotto accusa. Poi invece gli accertamenti sono stati affidati al personale delle Dogane: una squadra con pochi mezzi investigativi. Mentre la Procura non ordina nessuna perquisizione, nessuna rogatoria, nessuna perizia tecnica sul materiale sequestrato in Turchia. I reparti specializzati di carabinieri e Fiamme Gialle che in genere indagano su queste trame non sono nemmeno stati interpellati. Eppure la vicenda era a dir poco inquietante.

Perché quando i tecnici dell'Agenzia turca per l'energia atomica hanno esaminato le barre provenienti dall'Italia si sono pronunciati senza dubbi: quello che stava finendo in Iran è alluminio T6-7075. Ossia materiale dual-use, esportabile al di fuori dell'Europa solo dietro licenza.

Alla stampa locale, poi, un anonimo esperto dell'Agenzia turca indica quel carico di T6-7075 come un potenziale componente per le centrifughe destinate ad arricchire l'uranio: elementi fondamentali per costruire la bomba. "Le parti rotanti delle centrifughe P-1 sono tubi di alluminio T6-7075 di dimensioni determinate", spiega a 'L'espresso' l'ex ispettore dell'Onu David Albright, aggiungendo che i cilindri di questo tipo di alluminio possono servire per costruire un elemento delle centrifughe chiamato 'end caps'. Trovare T6 sul mercato non è difficile: l'azienda di Modena l'aveva in magazzino "per rifornire l'indotto Ferrari". Ma è un materiale sotto stretto controllo: tutti i paesi membri del Nuclear Suppliers Group applicano restrizioni all'esportazione proprio perché ha impieghi nel campo nucleare. In Italia chi le viola rischia almeno due anni di carcere. Qualunque azienda che voglia vendere al di fuori dell'Unione europea tubi e cilindri di T6 deve chiedere un permesso all'autorità nazionale che vigila sul dual-use: la Direzione generale del ministero del Commercio estero. Dove un funzionario ci spiega: "Noi valutiamo in che paese l'azienda intenda esportare il bene dual-use, valutiamo il tipo di prodotto e soprattutto chi sarà l'utilizzatore finale. Poi decidiamo se concedere o meno l'autorizzazione, avvalendoci della consulenza di tecnici nucleari, chimici. Molte aziende, però, non sanno nemmeno di produrre beni dual-use".

È quello che hanno sostenuto i dirigenti della Commerciale Fond. Si sono presentati davanti al pm Pasquale Mazzei fornendo i documenti dei contratti con la Step: in tre anni quattro spedizioni. Totale: 6 tonnellate per un importo fatturato di 30 mila euro. "Ma siamo in buona fede, ignoravamo di dovere chiedere autorizzazioni", hanno dichiarato. Il sostituto procuratore gli ha dato ragione, chiedendo di archiviare le accuse penali. Perché? Scrive il magistrato: "Non c'è azione volontaria: non conoscevano la normativa, l'importo è modesto, c'è carenza di elementi indiziari ulteriori". Il gip accoglie questa impostazione con un modulo prestampato: tutto archiviato un mese fa. Tanto, bisogna aggiungere, il reato penale sarebbe stato cancellato dall'indulto.

Sorprende però quella 'carenza di elementi indiziari ulteriori'. Le prove sono state cercate? E qual è stato il ruolo del Sismi in questo intrigo internazionale? All'inizio gli 007 si sono scatenati, poi sono scomparsi. "È tutto in mano al generale Gruner", avevano risposto dall'Agenzia delle Dogane alla nostra richiesta di parlare col dottor Antonio Fusco, il funzionario di Modena che ha condotto le indagini per conto della magistratura. Un maresciallo del Sismi si è presentato nella sede dell'azienda modenese: senza mostrare tesserini ha chiesto di esaminare i contratti turco-iraniani. "Tenetemi informato su eventuali altre commesse di T-6", ha ordinato fornendo solo un indirizzo e-mail di quelli che si scaricano da Internet. Il misterioso maresciallo ha poi dato indicazioni, sempre via e-mail, per frenare le ulteriori richieste di alluminio speciale ricevute dalla ditta all'indomani del sequestro turco. Anche lui, però, non contribuisce alle indagini.

Ricorda un'altra fonte: "Arrivarono a Modena due pezzi grossi dell'intelligence, un civile e un militare, il civile era il capo della sezione contro-proliferazione del Sismi e il militare era, credo, un generale della Finanza. I due dissero che avevano la possibilità di recuperare il materiale sequestrato in Turchia e chiesero agli inquirenti se potevano essere interessati". Ovviamente, ci assicura la fonte, gli inquirenti erano interessati. "Ma per attivare una rogatoria internazionale e recuperare il metallo, occorreva una comunicazione ufficiale e invece, dopo la prima visita, gli uomini del Sismi si dileguarono: spariti completamente".

Nessun sequestro, nessuna perizia. Le indagini della Procura si sono basate su fatture, bolle doganali ed email fornite dall'azienda: tutte carte in cui la descrizione delle barre di alluminio è riportata in modo a dir poco sommario. Nelle pratiche presentate alla dogana, per esempio, si omettono le caratteristiche speciali T6 del metallo. Ma senza perizia non si riesce ad avere indicazioni sull'impiego finale del metallo. "Per capirlo", spiega a 'L'espresso' un esperto che ha condotto ispezioni per conto dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), "serve una descrizione accurata del materiale sequestrato. Ma sulla base dei dati disponibili, mi sembra più probabile che venga usato nel settore missilistico". 'L'espresso' ha poi sottoposto gli elementi tecnici raccolti dalla magistratura di Modena a un analista internazionale. Che ha concluso: queste informazioni non bastano per ricostruire l'impiego finale. "Il materiale potrebbe servire per tanti usi aeronautici, militari o civili. I diametri sembrano troppo grandi per coincidere con i primi modelli di centrifughe inglesi, olandesi, pachistane o russe", tutti modelli che, si presume, gli iraniani potrebbero aver copiato o ottenuto clandestinamente.

Di sicuro, a Teheran c'è fame di T6: è indispensabile per costruire i nuovi missili intercontinentali, il vanto dell'arsenale della repubblica islamica che vuole annientare Israele. Ma è anche fondamentale per arrivare all'atomica. Alle delegazioni internazionali il governo Ahmadinejad ha dichiarato di non avere bisogno di importare il T6: "Lo produciamo in patria". Ma Albright è scettico su questa affermazione. È possibile che l'Iran stia comprando in Italia e in Europa alluminio speciale per il programma di centrifughe nucleari? "È senz'altro possibile", dice l'ex ispettore Onu a 'L'espresso'. Acquistare barre grezze permette più facilmente di superare i controlli: tubi e dischi già tagliati possono essere identificati. La magia del dual-use si dissolverebbe, lasciando solo l'ipotesi dell'utilizzo atomico. Ed esponendo venditori e broker a rischi alti. Invece con le barre, come dimostra il caso di Modena, non ci sono pericoli legali. Anche quando il carico viene spedito a un'azienda fantasma.

L'alluminio venduto dalla Fond alla ditta della famiglia Jafari era destinato alla Shadi Oil Industries di Teheran. Il nome sembra indicare una compagnia del settore petrolifero, ma nessuno degli operatori specializzati l'ha mai sentita nominare e non compare nei database disponibili nella capitale iraniana. A quanto risulta a 'L'espresso', all'indirizzo della Shadi Oil c'è soltanto un negozio di alimentari. Dunque Shadi, che in farsi significa 'felicità', è probabilmente una compagnia di facciata: a Teheran il metallo partito da Modena avrebbe fatto di sicuro la felicità di qualcuno. Ma il nome non è negli atti dell'inchiesta penale e non ci sarà mai. Perché per la legge italiana basta la buona fede. E anche il più diabolico dei componenti dual-use diventa candido.

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