La notte negazionista in Iran un'intervista a Claude Lanzmann, le manifestazioni per sapere "dove sono finiti" gli studenti dissidenti
Testata: Il Foglio Data: 22 dicembre 2006 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti - la redazione Titolo: «Viaggio nella notte negazionista - Da Londra a Roma si protesta per sapere»
Dal FOGLIO del 22 dicembre 2006, un'intervista di Giulio Meotti a Calude Lanzmann, regista del film Shoah e direttore di "Les Temps Modernes". Ecco il testo:
Roma. Due mesi fa è morta una parte di Claude Lanzmann. Si chiamava Simon Srebnik. Nella Polonia centrale, adiacente al borgo di Chelmno, 40 miglia a ovest di Lodz, i nazisti costruirono il primo campo di sterminio. Fra il dicembre 1941 e il gennaio 1945, 400 mila ebrei furono gassati e bruciati nei prati della ridente Kulmnhof, come la ribattezzarono i nazisti dopo averla annessa e trasformata in una ciminiera della presenza ebraica in Galizia. Solo due ebrei si salvarono a Chelmno. L’ultimo di loro, Simon Srebnik, è morto a Gerusalemme lo scorso settembre. Dove non era riuscito Hitler, ha avuto successo il cancro. I tedeschi spararono anche a lui nella fossa comune, ma mancarono i centri vitali e Simon fu salvato da un contadino polacco. Il regista francese Claude Lanzmann riuscì nell’impresa miracolosa di riportarlo, quarant’anni dopo l’Olocausto, dove la muta ariana aveva seppellito i suoi genitori e costretto lui, tredicenne intonato, a canticchiare musiche polacche ai sicari delle SS che lo portavano in paese. Lanzmann riuscì a consegnare quell’incontro nella sua epica pellicola “Shoah”, un monumentale capolavoro di nove ore. Chi ha visto il film ricorderà Lanzmann assieme a Srebnik su una barchetta che costeggia il campo. “Persone come Simon Srebnik non dovrebbero morire mai – racconta al Foglio Claude Lanzmann – Ma purtroppo se ne vanno, come tutti noi”. C’è una storia meravigliosa dietro a ogni incontro del regista e scrittore francese con i sopravvissuti. “Quando ho visto Simon Srebnik non ero mai stato a Chelmno. Lì trovi un villaggio, la chiesa, il cosiddetto castello, la foresta. E nella foresta ci sono le fosse. Era semplicemente impossibile capire. Quando andai lì, cominciai a vederci più chiaro. Tornai da Srebnik in Israele e lo aiutai a raccontarmi. Ci vollero molti viaggi, non so come abbia fatto”. Da quando è uscito “Shoah”, oltre 170 pellicole sono state girate sull’Olocausto. Aggiungiamo innumerevoli musei, riviste, centri studi, simposi e cattedre. Troppe, secondo Claude Lanzmann, che da vent’anni dirige la celebre rivista francese “Les temps modernes”, fondata dagli amici J. P. Sartre e dalla compagna Simon de Beauvoir. L’iconoclasta adorniano Claude Lanzmann non ama i giornalisti, l’ultima intervista che ha rilasciato a un giornale non francofono è stata nel 2001 al Guardian, in occasione dell’uscita di un altro suo film, “Sobibor. October 14, 1943, 4 p.m.”, dedicato alla rivolta ebraica nel lager polacco, il giorno in cui “gli ebrei impararono a uccidere i nazisti”. Perché a Sobibor “al di là della morte un ebreo lì non ha niente da guadagnarci”. Antifascista decorato e combattente nella Seconda guerra mondiale, Claude Lanzmann è un uomo tragico, geniale e caustico che ha scritto la storia orale dello sterminio degli ebrei. Figlio di un resistente antinazista, il giovane Claude entrò nel Partito comunista e dopo la guerra studiò filosofia in Germania. Venne poi ingaggiato dal quotidiano Le Monde per coprire la Germania orientale. Claude Lanzmann è convinto che l’unico modo per parlare dello sterminio sia narrarlo, raccontare il come, mai il perché. Così di “Schindler’s list” pensa che sia “una distorsione assoluta della verità storica. Non è ciò che accadde alla maggioranza degli ebrei. La verità è il genocisdio, la morte vinse”. La morte vinse, l’unica scrittura ammissibile è quella del disastro e solo la voce consegna il dolore di quanto è successo alla teca della memoria. “Il confronto con il sole nero della morte, solo ‘Shoah’ lo ha fatto, senza mostrare un solo cadavere”. E se a quel sole avesse dovuto dare un nome, Lanzmann l’avrebbe chiamato “la cosa”. “Occorreva trovare un nome per un evento senza precedenti nella storia degli uomini. In ebraico ‘shoah’ designa una catastrofe naturale. Non parlo ebraico e ho scelto un nome che non intendevo, bruscamente, opaco. Era un atto di nomina radicale”. Altro zolfo Lanzmann ne getta sulla “Vita è bella” di Roberto Benigni, che secondo lui ha reso “digestibile” l’Olocausto. Per il suo capolavoro commovente e disperante, Lanzmann non ha usato una sola foto o filmato di repertorio, non le cataste umane riprese dai cineasti americani né la cloaca di cenere ed escrementi che rigava la terra a Birkenau. “L’immagine uccide l’immaginazione”, dice Lanzmann. “Shoah” è un film orizzontale, espiazione magica e terribile di “un evento che non ha trovato la sua fine”. “Ricordo che volevo mostrare il villaggio di Chelmno e il cameramen disse che c’era un solo modo: l’elicottero. Dissi ‘mai. Non c’erano elicotteri per gli ebrei’. Sarebbe stato un crimine, morale ed estetico. Quello è il punto di vista di Dio, non il mio”. Poi si lascia andare a un lamento. “Il pubblico italiano purtroppo non ha visto ‘Shoah’, non è stato trasmesso nel vostro paese”. Quegli 11 anni trascorsi a girare e montare ore di interviste, Claude Lanzmann se li trascina dietro, anche ora che ha 81 anni e la sua voce è impastata da un timore appartato. “Non finisce mai, è inesauribile. Durante la preparazione del progetto, avevo la sensazione di vivere in mezzo ai morti”. Non ama la parola “sopravvissuto”: “Ognuno era morto, di solito dico che gli scampati sono dei resuscitati, come dei fantasmi. I sopravvissuti non dicevano mai ‘io’, ma sempre ‘noi’. Parlavano a nome dei morti”. Dopo “Shoah” ha realizzato “Tsahal”, un film di quattro ore dedicato all’esercito israeliano, raccontato magistralmente dall’interno, con i volti dei giovani sabra consapevoli di vivere in una frontiera e l’eroismo mite e fiero dei comandanti alla Ariel Sharon. Un film la cui proiezione fu accompagnata in Francia da bombe molotov e censure a sinistra. Lanzmann sarebbe colpevole di eccessivo sionismo, accusa che gli viene mossa anche per la direzione della rivista resa celebre nella campagna anticolonialista d’Algeria. E per il suo primo film, “Pourquoi Israël”. “La lezione che ho tratto dalla rivolta di Sobibor è la necessità della riappropriazione della forza da parte degli ebrei – ci spiega Lanzmann – Yehuda Lerner, un uomo non violento, si scoprì violento. L’Olocausto non fu solo un massacro di uomini innocenti, ma di esseri umani indifesi. Non ho mai pensato che gli ebrei si fossero lasciati condurre come pecore al mattatoio. Hanno fatto ciò che hanno potuto. Che una persona come Lerner che prima di allora non aveva mai pensato di porre mano alle armi, ha molto a che fare con le radici dello stato ebraico odierno”. Lerner è l’ebreo sopravvissuto alla rivolta interna al campo scatenata da un ufficiale russo. Il suo eroismo divenne la soluzione all’errore tragico commesso dai “consigli ebrei” nell’Europa dell’est: “Credere che i nazisti avrebbero salvato gli ebrei perché non avrebbero potuto fare a meno del loro lavoro e delle loro competenze: avranno bisogno, pensavano, di pellicciai, di odontoiatri… A Vilna tutti gli odontoiatri erano ebrei e tutti furono uccisi fin dal primo giorno”. Questo braccio teso fra i regni della morte e i soldati ebrei di Tsahal induce Lanzmann a spiegarci: “Sono più spaventato dalla debolezza che dalla forza dello stato d’Israele, perché resta uno stato circondato da nemici. E i nemici di Israele hanno la possibilità di armarsi fino ai denti e farlo liberamente. Quando i ‘martiri’ si fanno esplodere a Gerusalemme, Tel Aviv, Netanya, Haifa, nelle discoteche, nei mercati, nei bus, nelle sale dei matrimoni e comunioni, nelle sinagoghe, rapidamente l’evento diventa routine. Gli israeliani devono pagare con le loro vite per il semplice fatto di vivere in Israele”. Prima del 1948, l’Europa era diposta a concedere agli ebrei solo un fazzoletto di terra per costruirvi un cimitero con le tombe e i cippi assiepati. Gli ebrei se la sono dovuta prendere, una terra. “Israele non ha patroni, nessun soldato americano ha versato il suo sangue al posto di un soldato israeliano”, spiega Lanzmann. In lui troviamo la riflessione di un altro grande maestro dell’ebraismo, Emmanuel Levinas, per il quale il dolore delle vittime era legato al coraggio dei figli che presero le armi. Tre mesi prima di Srebnik se ne era andato un altro “fantasma”, un altro ebreo a cui Lanzmann aveva dato una voce, Rudolf Vrba. “Non poteva, non doveva morire. La mia reazione fu di disperazione, di rabbia anche contro la pretesa ‘condizione umana’, alla quale un simile eroe avrebbe dovuto sfuggire. Per me era immortale. Lo è sempre”. Lanzmann incontrò Vrba nell’inverno del 1979, nella hall di un hotel di Manhattan, durante la lavorazione di “Shoah”. “Avevo di fronte a me l’uomo che aveva attuato con successo l’incredibile: evadere, il 7 aprile del 1944, dall’inferno di Auschwitz-Birkenau, per far sapere al mondo, nella relazione straordinariamente dettagliata e precisa che redasse immediatamente dopo la sua evasione, il funzionamento del macchinario di distruzione”. Durante tre giorni e tre notti, Lanzmann e Vrba ripercorsero il ritorno alla vita. “Il suo humour nero e sardonico gli permise di sopravvivere prima due anni a Maïdanek e in seguito ad Auschwitz, prima di attuare con successo l’evasione impossibile”. La relazione di Vrba fece il giro del mondo: dal nunzio apostolico al presidente Roosevelt, tutti la ebbero in mano. Rudi riprese i suoi studi dopo la guerra, diventò uno specialista di fama mondiale in neurochimica, insegnò e proseguì le sue ricerche in Gran Bretagna, Francia, Danimarca, Israele, Austria e Unione Sovietica. “Mi ricordo ancora della sua gioia profonda quando vive ‘Shoah’ a Parigi, nel 1985. Un grande uomo non è più. Ma è immortale e, anche se ciò non attenua affatto il dolore della perdita”. Lanzmann è da molti anni il direttore di Robert Redeker nella rivista Les temps modernes, l’insegnante di filosofia francese minacciato di morte dagli islamisti e costretto a rifugiarsi nell’oscurità. Lanzmann ci racconta il rapporto con Redeker e i motivi che l’hanno spinto e firmare appelli in sua difesa e a dedicare al suo caso il prossimo numero di Les temps modernes. C’è un invisibile legame d’acciaio che annoda la salvaguardia della parola ebraica scampata alla morte con la tenace difesa, nel cuore della Francia, della libera parola intimidita dall’islamismo. “Questa rivista, che dirigo da oltre vent’anni, non ha mai reclutato gli idioti come collaboratori. I rari cretini che sono riusciti a entrare sono stati immediatamente scoperti. Robert Redeker è entrato dodici anni fa nel comitato di redazione de Les temps modernes, dopo averci dato il primo folgorante articolo ‘La catastrophe du révisionnisme’. Da allora è membro (del comitato editoriale della rivista, ndr) e lo rimarrà fino a quando vorrà”. Anche se gli chiedono di scrivere altrove, Lanzmann conferma che Les temps modernes resterà la casa letteraria di Redeker. “Aggiungo che Robert è amico di tutti e a me infinitamente caro. Sul sostegno, la sua incondizionalità, Catherine Kintzler dice perfettamente, in uno degli articoli che pubblichiamo, che la rettitudine filosofica comanda di pensare e io non la parafraserò. Ma troppe anime belle si dichiaravano pronte a rafforzare la libertà d’espressione in astratto, pur deplorando l’‘ignoranza’ e la ‘nullità’ di Redeker. I sostegni che ha ricevuto dopo essere stato condannato a morte, tre mesi fa, dopo aver visto la sua vita personale e quella dei suoi parenti letteralmente saccheggiata, assomigliano alla corda che sostiene l’impiccato e fa venire più voglia di vomitare che conforto”. In particolare Lanzmann detesta il codardo espertismo francese. “Un ricercatore, uno specialista dell’islam’, ha accusato ignobilmente Redeker di ‘cercare la condanna a morte’. Solo i colti sarebbero legittimati a parlare di islam e se Robert si ponesse interrogativi, dalla tribuna incriminata del Figaro, sulle ragioni che avevano spinto il sindaco di Parigi a proibire il bagno nella Paris Plages, allora è come se firmasse il proprio grave ritardo mentale”. Veniamo all’uomo. “Né sinottico né benpensante, Redeker appartiene più di chiunque altro alla destra sartriana, autore e filosofo impegnato, capace di usare la sua penna come una spada, sul modello del nostro fondatore, senza lasciarsi fermare da un ‘dovere di riserva’ che, se fosse stato osservato nei secoli, come sembrerebbe desiderare il ministro dell’Istruzione, avrebbe seriamente amputato la letteratura francese”. Nel prossimo numero di Les temps modernes, Lanzmann ripubblica il testo autobiografico di Redeker, “Le compagnon inattendu”, che aveva una prima volta pubblicato per il cinquantenario della rivista. “E’ un testo ammirevole. Robert è un pensatore vero, un professore vecchio stile, come Alain o Lagneau. E la stampa francese, alla lettura dei suoi articoli, si è rapidamenta accorta di queste virtù: il campo dei suoi interessi è vasto, è in grado di pensare in mille aspetti dell’attualità in modo originale, profondo, filosofico. Ulteriore vantaggio, il dispregiatore dell’islam’ lavora velocemente. E’ unico nel suo genere e da molti anni, i giornali, quotidiani e settimanali, se lo strappano. Come Sartre, ha sempre diffidato della mente analitica e dei democratici astratti nelle riflessioni, sulla questione ebraica ad esempio, o nel difendere una astratta libertà d’espressione. Ciò non conta davanti alla violenza e alle minacce di morte. E’ Redeker che bisogna difendere, la sua famiglia, la cui reclusione delle prime settimane, col pretesto di proteggerla, si sarebbe rapidamente trasformata in un calvario se fosse continuata senza sistemazione. Ci tengo a rendere omaggio al governo che ha trattato quest’affare, la polizia e i miei interlocutori del ministero dell’Interno che hanno capito, quando ho parlato con loro, che proteggere non era abbastanza, ma che occorreva anche permettere che la vita continuasse”. Per Lanzmann l’universalità della sofferenza delle vittime non significa che tutti gli eventi siano equivalenti nella storia. Non vuole parlare della politica negazionista di Teheran. Ma quasi come se non potesse trattenersi, alla fine dice: “Sono molto spaventato dalla minaccia di morte che arriva da Teheran e dal fatto che nessuno praticamente prenda sul serio le parole del presidente iraniano. Ahmadinejad ha affermato che il solo problema fondamentale del mondo musulmano è l’estirpazione dello stato di Israele e del sionismo. Si tratta di una mania da non prendere seriamente? Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, ha dato la risposta. Il negazionismo fu il motore e l’arma del crimine nazista, che cancellava le sue tracce al momento e al cuore del suo compimento. In un certo senso, il crimine perfetto è stato compiuto da coloro che dicono che non è successo. Quella iraniana è la stessa minaccia e formula nazista, il negazionismo iraniano è un progetto nazista. E non riguarda soltanto la distruzione del popolo ebraico”. Sempre dal FOGLIO, un a rticolo sulla persecuzione del dissenso studentesco in Iran e sulle manifestazioni di solidarietà in Europa:
In Iran è iniziata la caccia allo studente, dopo le manifestazioni e gli scontri all’Università Amir Kabir di Teheran durante la visita del 12 dicembre di Mahmoud Ahmadinejad. Le milizie del regime dei mullah hanno cominciato a setacciare i dormitori universitari per scovare e arrestare chi ha bruciato ritratti del presidente, chi ha lanciato una scarpa contro di lui e chi ha gridato “morte al tiranno”. Il ventunenne che mostrava un cartello contro il “presidente fascista” è fuggito nella clandestinità dopo essersi scontrato con due vigilantes di quartiere che lo hanno minacciato di “tirare fuori il padre dalla tomba. E’ in grave pericolo”, come ha detto al Guardian uno studente. Alcuni suoi compagni sono scomparsi e si teme siano finiti nella camera della tortura della prigione di Evin. Con le ronde delle milizie bassiji nei campus, altri studenti si preparano alla clandestinità, perché le autorità “reagiranno molto più duramente di prima – ha spiegato uno dei leader, Armin Salmasi – Il movimento studentesco sta per tornare sotterraneo, come prima della rivoluzione”. Ieri sera a Roma, davanti all’ambasciata iraniana, si è tenuta la manifestazione organizzata da molte associazioni giovanili italiane: “Dove sono finiti?”, era lo slogan. Lunedì, trecento esponenti della comunità ebraica britannica e di altre organizzazioni di ragazzi hanno partecipato a una veglia davanti alla sede diplomatica di Teheran a Londra. La comunità ebraica canadese si è riunita ieri a Toronto per “la verità, la luce e la libertà”. Alcuni studenti d’arte danesi burloni hanno comprato una pagina pubblicitaria del Teheran Times, pubblicando – sotto il ritratto di Ahmadinejad – una lista di slogan apparentemente favorevoli al presidente, come “sostenete la sua lotta contro Bush” e “l’Iran ha diritto di produrre energia nucleare”. Scorrendo in verticale le prime lettere di ciascuna frase, gli iraniani hanno potuto leggere: “M-a-i-a-l-e”. “Abbiamo preso in giro Ahmadinejad perché non pensiamo sia molto liberale e sensibile”, ha spiegato Jan Egesborg del gruppo artistico Surrend. I mullah hanno dato inizio all’opera di demonizzazione degli studenti. Il vicepresidente del Parlamento, Mohammad Reza Bahonar, ha accusato i manifestanti di essere “promotori di sesso e alcol”. Le intimidazioni – ha risposto Ali Azizi, vicesegretario dell’assemblea degli studenti della Amir Kabir – non riusciranno “a smorzare la protesta contro il governo e i suoi sostenitori”. Dopo la purga delle università – più di cento professori liberali costretti al pensionamento, 70 studenti sospesi, due arrestati e 181 ammoniti per attività politiche, decine di pubblicazioni e associazioni chiuse – il movimento si è risvegliato dal lungo sonno. Quando il nuovo rettore della Amir Kabir, l’ayatollah Amid Zanjani, ha compiuto la prima visita in facoltà, gli universitari gli hanno strappato il turbante. Il 6 dicembre migliaia di studenti gli hanno ribadito che “questo non è un seminario religioso, ma un’università”. Secondo l’ex leader Alireza Siassirad, “gli studenti sono definitivamente tornati attivi e il segnale è molto pericoloso” per il regime. Le manifestazioni sono pianificate, coordinate e non si limitano alla capitale: lo stesso 12 dicembre, all’Università di Shiraz, gli studenti hanno fischiato e interrotto il ministro dell’Interno, Mostafa Pour Mohammadi, che elogiava la convocazione di cinquanta dei loro da parte dei consigli di disciplina delle milizie. Gli studenti potrebbero catalizzare lo scontento sociale per il regime dei mullah, ma lamentano la poca attenzione della comunità internazionale impegnata – senza risultati nella questione nucleare. Nel frattempo, cristiani iraniani subiscono la loro repressione natalizia. Secondo il Comitato di sostegno ai diritti umani in Iran, gli agenti della Vevak – il ministero delle Informazioni della Sicurezza dei mullah – hanno arrestato numerosi cristiani di Teheran, Karadj Racht, confiscato libri religiosi e immagini pie e vietato le cerimonie per la natività. L’obiettivo è ottenere l’abiura della fede.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio lettere@ilfoglio.it