In Iraq l'America vuole vincere strategie di una "seconda liberazione"
Testata: Il Foglio Data: 21 dicembre 2006 Pagina: 3 Autore: Michael Novak - Ralph Peters - Daniele Raineri Titolo: «La seconda liberazione dell'Iraq - “Non siamo andati in Iraq per vincere, ora dobbiamo farlo” - Mandare più truppe non basta, bisogna inviarle per fare queste sette cose - Dal fronte di Fallujah»
Dal FOGLIO del 21/12/2006, un articolo di Michael Novak:
Caro amico, mi scrivi per farmi mille domande sull’America di oggi. Sulle elezioni di novembre, la guerra in Iraq, il futuro di quel paese e soprattutto su come vediamo l’Europa dall’America. Inizierò dalle elezioni. Gli ultimi sei seggi incerti nella notte delle elezioni erano molto vicini nei sondaggi e anche nei conteggi di quella stessa notte. Se anche uno solo fosse andato ai repubblicani, essi avrebbero continuato a essere partito di maggioranza al Senato e quindi a guidarlo. Contro ogni probabilità, i democratici hanno vinto in tutti e sei i casi. Il che dà loro una maggioranza di un solo voto, 51 contro 49. La settimana scorsa, uno dei senatori democratici più gentili, validi e benamati – un democratico conservatore del South Dakota – è stato colpito da una malformazione cerebrale congenita che ha reso necessario un intervento chirurgico immediato. Tutti preghiamo perché si rimetta, come sembra stia facendo, dopo che l’operazione è andata bene. La sola idea che i democratici potessero perdere un seggio, però, ha creato un panico improvviso. In quel caso, i numeri sarebbero diventati 50 a 50, e il voto decisivo sarebbe andato al vicepresidente Cheney. I repubblicani avrebbero ripreso il controllo del Senato (nel South Dakota, un senatore democratico può essere sostituito da un repubblicano, perché il governatore ha facoltà di nominare un successore, e il governatore è repubblicano). Anche supponendo che il senatore torni in salute, un certo numero di democratici voterà con i repubblicani su determinati temi, e viceversa. Il precario equilibrio al Senato quindi legherà indebitamente le mani al presidente George W. Bush. Ma spetta alla maggioranza, in questo caso ai democratici, definire il programma di lavoro e gestire il calendario. Una missione definita Il passaggio di poteri alla Camera è stato più drastico, ma spostamenti di questo genere sono normali nelle elezioni di metà mandato, quando non sono concomitanti con le elezioni presidenziali, tanto più nel sesto anno di una presidenza di due mandati. Il cambiamento va sempre in direzione del partito d’opposizione. Inoltre, con una mossa astuta, i capofila liberal hanno scelto di candidare una dozzina di democratici conservatori, la maggior parte dei quali ha effettivamente vinto, spesso grazie all’effetto sorpresa sugli avversari, che si sono visti arrivare il nemico da destra, non da sinistra. La distribuzione di conservatori e liberal alla Camera potrebbe non pendere poi così a sinistra come alcuni pensano. Una ragione della vittoria democratica è stata l’impopolarità di Bush. Come altri presidenti, ha mirato a raggiungere compromessi con l’altra parte, cosa assai poco gradita dal suo partito. Modi e stile di Bush – uomo del west, informale, spiritoso – disturbano molti in California e nelle grandi aree urbane dell’est. In quella che gli Americani chiamano “la costa di sinistra” (California, Oregon, e Washington), la parte meno religiosa della nazione, le dichiarazioni e le azioni religiose del presidente sembrano discordare dalla realtà dei cittadini. Una delle ragioni principali della sconfitta è stata anche la guerra in Iraq. Nonostante ai nostri critici in Europa e Asia piaccia accusare gli Stati Uniti definendoli “imperialisti”, di fatto, ogni qual volta le forze statunitensi ingaggiano battaglia con un nemico al di fuori dei confini nazionali, inizia a sentirsi una pressione politica che spinge in direzione di “un’uscita strategica”. In America, le minoranze più consistenti sono sempre contro la guerra, almeno se gli americani sono impegnati a proteggere i propri interessi (a differenza delle missioni a scopo umanitario, come in Bosnia). Durante la seconda settimana dell’invasione in Iraq, quando le forze statunitense che avanzavano vero nord sono rimaste bloccate per due o tre giorni, i giornalisti di sinistra hanno incominciato a paragonare l’Iraq al Vietnam, due “pantani”. Al termine della terza settimana, quando il regime di Saddam era del tutto finito, Baghdad libera, e la statua di Saddam abbattuta, sempre più americani hanno cominciato a organizzarsi per chiedere il rientro delle truppe. L’azione militare oltreoceano incontra quasi sempre la resistenza degli americani, e le guerre oltreoceano sono patite con pazienza e sopportazione. Le democrazie non amano le guerre, perché l’opinione pubblica in genere non le vuole. Ragion per cui i sistemi democratici sono a tutto vantaggio della pace, e per questo Bush vede nella mancanza di regimi e tradizioni democratiche la fonte prima di instabilità e violenza in medio oriente. La stessa democrazia che vorrebbe vedere crescere là gli lega le mani nel suo paese. Un altro fattore: il modo in cui è stata condotta la guerra in Iraq, a volte brillante, troppo spesso è stato macchiato da qualche fallo. Mancava una guida chiara sul campo. Questa mancanza derivava, con ogni probabilità, da Bush e dal suo staff. Una volta deposto Saddam, la maggior parte degli alti gradi militari si è concentrata sulla formazione delle forze irachene, in modo da permettere ai soldati americani di andarsene il più presto possibile. Tralasciando però la sicurezza di Baghdad e di altre grandi città. Non c’erano truppe sufficienti per quel compito. I vertici dell’esercito erano inclini a pensare che fosse un dovere della società civile la costruzione di una nazione e non delle forze armate. Il risultato è che nessuno ha combattuto per la vittoria, ma solo per andarsene il più in fretta possibile. Un ulteriore fattore è stata l’irrequietezza dell’opinione pubblica americana. I sondaggi dimostrano che addirittura il 72 per cento, in un qualche momento, è rimasto insoddisfatto del modo in cui è stata condotta la guerra. Ma solo una parte di questi insoddisfatti vuole il ritiro in tempi brevi; altri sono insoddisfatti perché vorrebbero vedere l’invio di più truppe, che si puntasse a vincere, non ad andarsene in fretta. Per queste persone, vittoria significherebbe portare sicurezza nelle grandi città, in modo che la società civile possa prosperare e crescere (già l’economia irachena è sorprendentemente dinamica, come ha appena rilevato Newsweek, solitamente non favorevole alla guerra). Gli americani come vedono l’Europa? Sono disorientati dall’irreligiosità, o dalla non religiosità, dell’Europa. Lo stesso vale per il declino demografico. Perché il declino significa che non ci sarà modo alcuno di mantenere le promesse del welfare in futuro, poiché questi benefici dipendono dalle nuove generazioni che pagano le cure necessarie agli anziani, la cui vita s’allunga. Il declino demografico è anche un segnale di perdita di fiducia. E con preoccupazione maggiore gli americani tendono a pensare che gli europei non prendano sul serio le minacce di Iran, Siria e di altri sostenitori degli “islamisti” violenti ed estremisti. Alcuni qui in America temono che entro il 2030 una parte significativa di europei vivrà secondo la sharia, dopo essersi arresi senza troppo lottare. E dopo essere stati scavalcati demograficamente. Qualche americano ricorda che una sola generazione dopo la morte di Manuele II Paleologo, imperatore bizantino per 35 anni, Costantinopoli, da più grande città della cristianità che era fu svuotata dei cristiani in un orrendo bagno di sangue. Praticamente tutte le chiese cristiane furono abbattute o trasformate in moschee, e Bisanzio divenne una roccaforte musulmana. Il triste fato di Costantinopoli in quei giorni potrebbe essere una delle morali insite nel discorso, meditato e indagatore, di Papa Benedetto XVI all’università di Ratisbona, con cui ha attirato la nostra attenzione sulla vita e sui tempi di Manuele II Paleologo: le grandi città a volte cadono improvvisamente, nello spazio di una sola generazione. All’inizio del settimo anno di questo nuovo millennio, sia gli europei sia gli americani devono prendere decisioni d’importanza capitale. Da queste decisioni può dipendere il destino di milioni di uomini e donne a venire. (traduzione di Elia Rigolio)
Sempre dal FOGLIO, un'analisi dei compiti che dovrebbero svolgere le truppe inviate in Iraq:
Le nostre forze militari dovrebbero essere contrassegnate da un cartellino con la seguente scritta: riflettere bene prima di usare. Di fronte agli appelli (alcuni sinceri, altri dettati dalla disperazione politica) per l’invio di altri soldati a Baghdad, il nostro esercito, già sottoposto a un dispiegamento eccessivo, è pronto a fare il saluto e a obbedire agli ordini del presidente. Ma i comandi militari hanno una richiesta più che ragionevole: una missione chiara e precisa. Qui a Washington, la brigata degli “esperti” civili insiste sul fatto che per rispondere al problema iracheno bisogna riportare a Baghdad i soldati stanziati nelle basi militari, al fine di ripristinare la sicurezza. Sembra un piano perfetto… fino a quando non si chiede in quale modo abbiano intenzione di usare le truppe. Quali sarebbero i loro compiti specifici? “Ripristinare la sicurezza” è una definizione vaga – abbiamo bisogno di individuare obiettivi pratici e concreti. E quali sarebbero le nuove tattiche da adottare? Le regole di ingaggio sarebbero cambiate? In quale modo dovremmo trattare i prigionieri, dato che, nel caso di un giro di vite da parte americana, ne sarebbero catturati decine di migliaia? Cosa dovremmo fare se il governo di Nouri al Maliki si rifiutasse di accettare il nostro piano? A questo punto, gli esperti dei think tank ti guardano con una faccia stralunata e si mettono a parlare in termini generali. Tocca ai militari pensare a tutti i fastidiosi dettagli. Ma sono proprio i dettagli a fare la differenza tra la vittoria e il fallimento. Se non si individuano gli tivi, e i mezzi per realizzarli, non si fa altro che chiudere gli occhi per non vedere gli ostacoli. Ma i nostri soldati non possono fare la stessa cosa. Le generalizzazioni e la banalità non serviranno a risolvere il problema iracheno, ma faranno certamente morire inutilmente i nostri soldati. Prima di impegnarli in una missione così ardua, dovremmo affrontare le questioni più difficili. I generali dell’esercito sono preoccupati dal fatto che molti politici, in preda all’agitazione, vogliano inviare più truppe in Iraq soltanto per far vedere che stanno prendendo provvedimenti di decisiva importanza. I comandi militari non sopportano, giustamente, che le truppe possano essere usate per far salire gli indici d’approvazione dei politici. Faranno ciò che gli verrà ordinato, e lo faranno bene. Ma vogliono che la missione abbia possibilità di successo, tali da giustificare i costi strategici e umani. Un aumento di 20 mila o 40 mila unità potrebbe fare la differenza? Sì, ma soltanto se sarà loro assegnata una missione chiara e realizzabile e se il nostro governo saprà stargli al fianco. Inviare più truppe nella speranza che ciò farà magicamente migliorare la situazione sarebbe solo una farsa (…). Ecco l’unico approccio capace di rendere Baghdad una città sicura e vivibile: tolleranza zero. Rudy Giuliani aveva visto giusto. Se si colpisce con severità la piccola delinquenza si riduce anche la grande criminalità. Naturalmente, per riportare l’ordine a Baghdad non basta punire qualche piccolo malfattore, ma il principio è lo stesso, e soltanto soltanto le dimensioni dell’impresa sono differenti. Non siamo mai stati pronti a fare tutto ciò che è necessario per vincere. Fra poco non ne avremo più il tempo (…). Ecco un breve elenco di provvedimenti difficili da imporre e da accettare che il presidente Bush dovrebbe adottare se non si vuole che questo ulteriore impiego di forze militari rimanga al livello di una vana speranza: 1. Tolleranza zero sul possesso di armi per le strade o nelle automobili. Le autorità devono avere il monopolio assoluto della forza. 2. Servizi di pattugliamento a piedi: i soldati devono scendere dai loro veicoli e “infilarsi nei vicoli”. Inizialmente, questo potrebbe causare un aumento delle perdite umane, ma non c’è altro modo per avere una conoscenza diretta del territorio. Non appena i cittadini iracheni e i nostri nemici si renderanno conto della nostra determinazione a rimanere sul posto e a imporre il controllo, gli attacchi contro le nostre forze diminuiranno. Dobbiamo occupare i più importanti quartieri della città. 3. Carcerazione immediata per chiunque sia coinvolto nel possesso o trasporto di armi e altre attrezzature militari. 4. Severa imposizione della legge, a partire dalla chiusura del mercato nero della benzina fino al rispetto del codice stradale. 5. Deciso e simultaneo intervento contro le milizie sciite e le roccaforti dei terroristi sunniti. Imporre il principio che andiamo dove vogliamo e quando vogliamo, rimanendo per tutto il tempo necessario. 6. Capillari perquisizioni di ogni edificio di Baghdad. Non deve rimanere alcun rifugio sicuro, nemmeno le moschee. Smantellare tutte le strutture usate per conservare le armi o per nascondere le fazioni armate. 7. Disarmare tutte i servizi di sicurezza privati di Baghdad che non siano stati vagliati e approvati dalle autorità americane. Se non siamo pronti ad adottare questi provvedimenti, non faremo alcun concreto progresso, indipendentemente da tutte le truppe che potremo inviare. Chi si opporrebbe a un piano come questo? Qui sta il problema. Il governo di Maliki si rifiuterebbe di accettare un intervento contro le milizie sciite. Ma se non siamo disposti a scavalcare il regime che noi stessi abbiamo imposto e celebrato, il piano non potrà essere realizzato. I mezzi di informazione ci accuserebbero di crimini di guerra ogni cinque minuti. I media globali vogliono che l’Iraq collassi e sguazzano nelle attuali sofferenze cui il paese è sottoposto. Se non siamo pronti a sfidare i media, per l’Iraq non c’è speranza. Ah, quasi dimenticavo, le truppe, nel caso di un loro rafforzamento, dovrebbero rimanere in Iraq per altri due anni. Sta tutto nella mani del presidente Bush. Se un aumento delle truppe non dovesse produrre risultati positivi, i nostri nemici prenderebbero ulteriore coraggio e il morale delle nostre forze, già eccessivamente utilizzate, colerebbe a picco. Inviare altre truppe? Soltanto se abbiamo intenzioni serie.
Infine , un articolo sul nuovo esercito iracheno:
Roma. Il generale americano che ha l’incarico di addestrare il nuovo esercito dell’Iraq, Martin Dempsey, ha appena annunciato che l’obiettivo di 325 mila uomini sarà centrato entro la fine di questo mese. Entro dieci giorni i ranghi del nuovo esercito saranno completi. “Prima riusciremo a dare agli iracheni la responsabilità per la sicurezza del loro paese – dice Dempsey – meglio sarà anche per noi”. Ma a che punto è la preparazione dei nuovi soldati? Lo spiega Bill Roggio, esperto militare e meraviglioso esempio di giornalista indipendente – finanzia le proprie spedizioni grazie all’aiuto della sua cerchia di fedelissimi lettori – che in questo momento si trova a Fallujah, nella provincia calda di al Anbar, proprio per raccontare senza filtri come stanno le cose. Dopo aver partecipato alle operazioni congiunte di esercito iracheno e americano, Roggio dice che ormai è chiaro: nel nuovo esercito iracheno ci sono cose che non vanno proprio e cose che invece vanno molto meglio di quanto è raccontato dai media ufficiali. I punti deboli. Il primo problema per i “jundi” – come gli americani chiamano i commilitoni iracheni – è la logistica. C’è scarsità di mezzi e di equipaggiamento. Mancano ancora giubbotti antiproiettile, elmetti, batterie elettriche e tute da combattimento. In alcuni casi, i soldati iracheni sono costretti a passarsi queste cose l’uno con l’altro prima di uscire in pattuglia. Il secondo grosso problema è il centralismo inefficiente. Tutto – anche ogni richiesta minima di rifornimento, si tratti di pneumatici o munizioni – passa per il ministero della Difesa di Baghdad, e laggiù per la maggior parte delle volte si arena. E’ lo stesso ordine di cose che l’ex segretario americano alla Difesa, Donald Rumsfeld, è riuscito a rivoluzionare al Pentagono, al suo grado peggiore. Un problema collegato è il sistema dei pagamenti in mano al dicastero. Alcuni soldati e ufficiali non ricevono la paga da più di un anno. E gli uomini più bassi in grado sospettano che lungo la catena amministrativa ci sia qualcuno che se ne impossessi. In casi estremi si è scoperto che soldati e ufficiali ormai usciti dall’esercito erano ancora presenti sui registri, per intascarne la paga. Il momento del pagamento è un problema anche da un altro punto di vista: non c’è un sistema bancario centralizzato. Questo vuol dire che i soldati devono fisicamente portare i soldi a casa, alle famiglie. Ma devono lasciare la propria arma alla loro unità: e il trasferimento dello stipendio, in un paese dove i militari disarmati e con denaro in tasca sono il bersaglio di vendette e di rapine, si trasforma in un’avventura. L’ultimo grande problema è che continuano a chiedere armi più pesanti, mortai, carri armati, artiglieria, ma ancora non le hanno ricevute: “Il loro atteggiamento – dice Bill Roggio – è di frustrazione. Dateci quello che ci serve, dicono, e faremo noi il lavoro”. Ora sono “on the lead” Accanto a questi problemi, il nuovo esercito iracheno ha raggiunto con successo molti obiettivi. La cosa che delizia i colleghi americani, quando escono di pattuglia assieme, è che l’intelligence sul campo si è finalmente rovesciata a loro favore. “Riescono a capire soltanto dai vestiti o da una parola se un iracheno è della zona o di un’altra, se sta mentendo, se c’è un dettaglio fuoriposto in una strada, se un’auto si comporta in modo sospetto, se qualcuno sta soltanto fingendo di avere il veicolo in panne”. Per i fanti americani appiedati in un teatro di guerra ostile e straniero, vie e viuzze di cittadelle sunnite e enormi quartieri metropolitani in mano agli sciiti, è come se qualcuno avesse acceso la luce. Ma l’utilità in appoggio non è la sola cosa che conta. I soldati iracheni, a livello di compagnia, stanno raccogliendo informazioni per conto proprio e stanno pianificando e compiendo missioni in completa autonomia. Eseguono pattuglie, raid, imboscate e posti di blocco. Sono coraggiosi, e non rifiutano di esporsi al pericolo: anche se, per colpa del loro equipaggiamento di livello inferiore, finiscono col subire quattro volte il numero di perdite della Coalizione. Sono bravissimi – dicono i soldati americani, che ne sono a ragione ossessionati – a identificare gli indicatori di Ied, quei segni che rivelano la presenza di una trappola esplosiva (anche soltanto un sacchetto della spazzatura dove di solito non c’è, o un cambiamento sospetto negli spostamenti della gente). Sono pieni di risorse: “Fanno quello che possono con quello che hanno”, modificano in meglio il loro equipaggiamento, emulano i marine. I risultati migliori sono quelli dei soldati e degli ufficiali più giovani, maggiori, capitani e tenenti, a cui ormai sono delegate senza paura missioni “on the lead”: gli iracheni pianificano e aprono la strada, stanano il nemico, eseguono i fermi; gli americani si limitano a fornire la copertura. Ma la cosa più importante la dice a Bill Roggio il tenente Turner, un ufficiale americano embedded nell’esercito iracheno a livello di compagnia, per fare loro da consigliere militare durante la preparazione e nelle azioni sul campo. I soldati lavorano bene assieme, le differenze confessionali non sono un fattore che conta. “Non c’è alcuna tensione interreligiosa tra loro: prima di tutto si considerano musulmani e iracheni”.
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