Prima di poter affrontare la minaccia iraniana, sostiene Jean Daniel in un articolo pubblicato su REPUBBLICA del 21 dicembre 2006, si deve risolvere il conflitto israelo-palestinese (irrisolto, in realtà, perché i palestinesi preferiscono la prosecuzione della jihad contro Israele alla costruzione di un loro stato).
Ovvero: prima di poter che venag presa in considerazione la difesa di Israele dalla mianaccia di un genocidio atomico bisogna costringerla a concessioni territoriali senza garanzie per la sua sicurezza, chiunque sia a governare nei territori palestinesi. Fosse pure uno stretto alleato di Ahmadinejad.
Una tesi assolutamente irresponsabile.
Ecco il testo:
Il 2006, anno dominato dal disastro iracheno, si conclude con le minacce iraniane. Non è il Natale che si augurava l´America, l´Europa o il resto del mondo. Scontro di civiltà? Si potrebbe pensarlo, se non si fosse costretti a contare le guerre civili dei musulmani che uccidono altri musulmani: a Bagdad, a Kabul e ormai anche in Palestina...
Le cause di queste guerre civili sono diverse, ma dovunque ritroviamo l´Islam radicale. La prospettiva di uno scontro di civiltà potrebbe venire piuttosto dal conflitto, finora verbale, tra l´Iran da un lato e dall´altro gli Stati Uniti e Israele. Una guerra fredda è di fatto già iniziata, anche se indubbiamente le ultime elezioni hanno indebolito il presidente iraniano Ahmadinejad. In quello stato teocratico si è concesso al popolo un insolito margine di libertà, consentendogli di dire che preferisce il pane e la libertà allo spirito di crociata. Ma per il momento nulla induce a pensare che la provocatoria messa in discussione dell´esistenza dello Stato d´Israele, e – cosa ancora più grave – la negazione del genocidio razzista possano cessare di essere usate come armi al servizio del nazionalismo nucleare iraniano. Su quest´ultimo punto, quel presidente provocatore potrà ancora disporre di una relativa popolarità. E può darsi che un giorno questa prima manifestazione di un negazionismo di stato sia ricordato come un evento non meno grave degli attentati dell´11 settembre 2001.
Alcuni anni prima della sua morte, il grande poeta e saggista palestinese Edward Said si era rivolto ai suoi connazionali e a tutti gli arabi scongiurandoli di compiere lo sforzo, per quanto arduo, di comprendere l´immensità del trauma suscitato dal genocidio nazista. Ai corrispondenti palestinesi che reagirono ricordando come gli arabi non avessero alcuna colpa nelle atrocità commesse contro gli ebrei dalla cristianità occidentale, Edward Said rispose che a quel livello di orrore, la sorte di qualunque essere umano sul pianeta riguardava tutti gli altri.
Se il presidente Ahmadinejad si è schierato su posizioni radicalmente opposte, non lo ha fatto obbedendo a motivi puramente passionali: nella sua campagna di provocazione niente è improvvisato o abbandonato al caso. Senza dubbio, fin dall´inizio della rivoluzione khomeinista gli ayatollah denunciavano la sorte della Palestina come una delle più gravi ferite inferte al cuore dell´Islam; ma non si può dire che fin da allora la loro regola di condotta fosse la fedeltà a questo discorso. È stato il presidente Ahmadinejad a concepire, insieme ad alcuni ayatollah radicali, l´attuale strategia iraniana, che servendosi del problema palestinese addita innanzitutto alla riprovazione di tutti i musulmani gli attuali dirigenti del mondo arabo.
Il messaggio che si nasconde sotto le affermazioni liricamente aggressive degli iraniani è in realtà molto chiaro. E´ rivolto agli arabi, ai quali dice in buona sostanza: «Da mezzo secolo voi arabi sunniti, oltre ad occupare indebitamente i luoghi santi dell´Islam alla Mecca, siete stati incapaci di liberare quelli di Gerusalemme, e avete abbandonato i palestinesi. Ora però la nazione persiana, islamista e sciita, sta per dotarsi dell´arma nucleare e si porrà alla testa dell´Islam in marcia. L´egemonia araba è finita. Sta a noi riprendere una sorta di califfato spirituale, che l´impero ottomano si era indebitamente arrogato».
Questa lettura è quella di tutti i governi arabi, tanto più intimoriti in quanto esistono ormai da tempo nell´opinione pubblica dei loro paesi - la cosiddetta «strada araba» - le condizioni per accogliere il messaggio iraniano, sia esso sciita o meno. E´ un fatto che in quasi tutti i manuali scolastici degli stati arabi, dalla Mauritania agli Emirati, la causa palestinese è esaltata, se non addirittura santificata, mentre si stigmatizza lo Stato d´Israele, e il più delle volte anche gli ebrei in generale. Non si possono ascoltare impunemente ogni giorno, a tutte le ore, bollettini con notizie come quella dell´uccisione di una ventina di palestinesi, in gran parte civili, per rappresaglia contro un´aggressione che aveva fatto dieci volte meno vittime. Un martellamento del genere non può che rendere isterici persino i meno motivati tra gli ascoltatori. Dovunque sono in mostra carte geografiche del Medio Oriente in cui la Palestina è rappresentata nei suoi contorni di un tempo, mentre Israele non compare affatto. E in qualsiasi momento si può consultare, su Internet o nelle librerie, il noto falso dal titolo «Protocollo dei saggi di Sion», confezionato dai russi all´inizio del XX secolo per denunciare un ipotetico dominio planetario dell´Internazionale ebraica. Ma si dà il caso che le minacce iraniane abbiano oggettivamente l´effetto di avvicinare i governi arabi allo Stato d´Israele, divenuto improvvisamente uno scudo contro l´islamismo.
Eppure la «ferita palestinese» non veniva strumentalizzata dai primi islamisti. Non ne parlavano gli algerini addestrati in Afghanistan, che hanno scatenato nel loro paese una guerra civile atroce, né gli autori degli attentati dell´11 settembre contro le torri del World Trade Center, e neppure Bin Laden nei suoi primi messaggi. Nella fase iniziale, l´antiamericanismo organizzato non aveva altra funzione che quella di denunciare l´Arabia Saudita per essersi sottomessa agli Stati Uniti e aver accettato la presenza di basi militari americane, più o meno vicine ai luoghi santi della Mecca. E´ stata soprattutto la guerra in Iraq a far scivolare l´antiamericanismo verso l´antisionismo, giunto al suo punto culminante in seguito alla guerra del Libano.
Il fatto che un capo di stato abbia autorizzato, avallato e legittimato i dubbi proclamati da certuni sulla realtà del genocidio nazista e la sua pretesa strumentalizzazione da parte degli «ambienti sionisti» è stato accolto come una divina sorpresa dai negazionisti occidentali invitati alla conferenza antisionista e antisemita di Teheran. In realtà le sue tesi, di pura origine francese, sono quelle avanzate da Faurisson e in qualche misura anche da Garaudy: e ora una grande nazione le proclama come verità ufficiali e slogan di battaglia. Queste tesi dovrebbero aiutare l´Islam a riprendere la fiaccola dell´antisemitismo, abbandonata dopo essere stata brandita per duemila anni dalla cristianità.
Faurisson ha puramente e semplicemente negato l´esistenza delle camere a gas, e contestato il numero delle vittime ebraiche del regime nazista; mentre Garaudy si è limitato a dire che solo l´autoflagellazione di un Occidente colpevole della Shoa ha reso possibile la sconfitta degli arabi e l´esproprio dei palestinesi. E´ facile immaginare quanto gli amici di Le Pen, di Dieudonné e di Tariq Ramadan – prima della sua recente conversione a una laicità di buona lega – apprezzassero l´appoggio degli iraniani alla loro causa.
Questo fenomeno, di una gravità estrema, ha potuto avanzare, crescere e prosperare da tempo senza suscitare una reale attenzione in Occidente. Molti grandi intellettuali, a New York come a Parigi, hanno dedicato studi approfonditi al riemergere di un certo «antisemitismo di rigetto» in Occidente – e ciò nel momento stesso in cui c´era bisogno di mobilitare tutte le energie e le intelligenze per analizzare gli sviluppi del fondamentalismo islamico antisemita, che oggi sembra riprendere il testimone del nazionalismo antisionista arabo. Chiunque abbia familiarità con la sensibilità araba sa bene cos´abbia rappresentato la causa dei palestinesi, anche per quella parte degli arabi – numericamente assai consistente – che non li guarda con simpatia.
Formulerò oggi con più forza del solito un mio convincimento che vorrei veder condiviso – anche se certo il conflitto israelo-palestinese non spiega i mali del mondo, e neppure le difficoltà del mondo arabo. Ma dovunque, nel mondo arabo e ormai in tutta quanta l´area dell´Islam, questo conflitto sta suscitando il desiderio di una guerra santa - la riconquista dei luoghi santi e la vendetta dei popoli umiliati, per dare nuovo respiro all´antica e mai sopita speranza di una risurrezione della passata gloria dell´Islam.
In ogni caso, c´è già chi si chiede se oggi l´Iran non minacci Israele come a suo tempo Hitler minacciò la Cecoslovacchia. E se non si debba fare di tutto per evitare di capitolare di fronte ad Ahmadinejad come già a Monaco davanti a Hitler. Chi lo pensa incita alla guerra. E non si può escludere che americani e israeliani siano tentati di distruggere alcuni siti missilistici iraniani. O in altri termini, di scatenare una riedizione della guerra irachena.
Pensando a questa spaventosa eventualità, non mi stancherò mai di ripetere una cosa: fin dall´inizio siamo stati ostili a un intervento anglo-americano in Iraq, nella certezza che avrebbe incentivato e moltiplicato quello stesso terrorismo che si voleva sradicare. Ma se anche il pretesto invocato per quell´intervento fosse stato soltanto quello di punire il criminale dispotismo di Saddam Hussein, avremmo comunque ritenuto, al pari di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski e gli ambienti vicini a Tony Blair, che prima di lanciarsi in quella guerra era indispensabile arrivare a una pace in Palestina.
Allo stesso modo, e benché non creda che la distruzione dei siti nucleari sia il modo migliore per neutralizzare la minaccia iraniana, sono ancor più persuaso della necessità di imporre per prima cosa una pace a israeliani e palestinesi, se mai ci si dovesse rassegnare a questa cattiva soluzione. Ad esempio, oggi gli americani dovrebbero rendersi conto che bisogna incitare Israele ad accettare la proposta di incontro e di dialogo inaspettatamente formulata dal presidente siriano Assad. Se si desidera attirarsi la simpatia dell´opinione pubblica araba e musulmana, bisogna rendersi conto che nessuno mai potrà essere legittimato a rendere giustizia se prima non si saranno spenti in Medio Oriente i focolai del sacro.
(Traduzione
di Elisabetta Horvat)
E Kerry sfida il muro di Bush, titola La REPUBBLICA. Segue l'entusista articolo di Alix Van Buren sulla visiita del senatore democratico a Damasco, che non ha certo contribuito a stabilizzare il Medio Oriente, ma semmai ha dato una mano alla propaganda di un regime amico dei terroristi e dell'Iran.
Ecco il testo:
DAMASCO - Il senatore John Kerry sbarca in città, e Damasco rispolvera il tappeto rosso dell´alta diplomazia internazionale. La statura di Kerry sbuca dalla pancia d´un aereo da trasporto militare americano. E quando il senatore posa il piede a terra, rompe l´isolamento diplomatico prescritto alla Siria dalla Casa Bianca: l´esclusione da ogni colloquio e trattativa, in vigore dal 15 febbraio 2005: ventiquattr´ore esatte dopo l´assassinio a Beirut dell´ex primo ministro libanese Rafiq Hariri.
Alla visita fanno da sfondo il dibattito sul rapporto Baker-Hamilton, l´opportunità di aprire un contatto con la Siria e l´Iran per svincolarsi dall´impasse irachena; il graduale ritorno dei "realisti" ad accerchiare l´Amministrazione. Nei saloni dell´albergo Four Seasons, dove il protocollo del Dipartimento di Stato lo consegna, Kerry lancia all´indirizzo di Bush: «Sono venuto a porre domande: magari ne avessimo poste, di più e più dure, prima di finire in questo gran pasticcio», rimbecca le critiche per un´iniziativa giudicata da Bush «fuori luogo e colpevole di minare la democrazia nella regione».
Kerry è scortato da una delegazione del potente comitato Affari esteri del Senato. Procede a braccetto col senatore Chris Dodd, democratico e, quel che più conta, aspirante candidato alle presidenziali del 2008. Due teste canute, sono compagni di passate imboscate: detonarono lo scandalo Iran-Contra: le operazioni segrete della Cia in Nicaragua. Ora eccoli di nuovo ad affilare le armi: «La Casa Bianca cambi rotta, adesso», avvisano. «Non muoia più un soldato per colpa dei politici inetti nell´affrontare la realtà», rilanciano l´anatema di Kerry ai tempi del Vietnam.
In controluce s´affaccia la lotta che si allestisce nelle aule del Campidoglio sulla politica mediorientale. A Damasco Kerry promuove il piano Baker: «Reclamo da due anni una importante iniziativa che coinvolga anche Siria e Iran mirata a formulare una soluzione politica e a porre fine alla violenza. Oggi che i Democratici guidano Senato e Congresso, possiamo riportare l´America sul binario giusto».
Quel che Dodd e Kerry hanno detto in privato alle autorità siriane, è oggetto di somma discrezione. I senatori hanno incontrato il presidente Assad per più di ore, sfidando la Casa Bianca. Hanno insistito sul Libano, il presidente ha riaffermato il sostegno della Siria a «un consenso fra le parti, senza però interferenze straniere». Hanno parlato dell´Iraq e del dossier palestinese, degli strumenti per riattivare il processo di pace in Medio Oriente «sotto un patrocinio internazionale onesto». Hanno passato in rassegna il rapporto Baker, con il presagio di un´apertura alla Siria.
Al ministro degli Esteri Walid Muallim, i due uomini hanno riproposto il quesito di Baker: «Dimmi, Walid, che cosa si può fare per restituire al rapporto fra America e Siria la fiducia creata negli Anni Novanta?». E Muallim, di rimando: «Lo desideriamo anche noi. La via è una: dialogare».
«Già», si sente ripetere all´ambasciata, risvegliatasi per un sol giorno dal torpore. Ancora poco tempo fa era disertata dai siriani. Nessuno s´era presentato alla festa imbandita per l´arrivo dell´incaricato d´affari Corbin. L´ultimo rapporto con le autorità di Damasco è una telefonata al viceministro degli Esteri Arnous il 12 settembre, il giorno della sparatoria di fronte all´ambasciata nell´Abou Roumaneh. Tutt´attorno fervono d´incontri le sedi diplomatiche d´Italia, di Germania e Spagna. Si rianima la britannica, dopo un lungo freddo. E soprattutto c´è movimento nella sede diplomatica russa, con Mosca che punta a riportarsi al centro della scena mediorientale.
La guerra in Iraq come quella del Vietnam: "la frustrazione porta all'escalation". Lo sostiene Vittorio Zucconi. Ma la guerra del Vietnam , è bene ricordarlo, non fu per gli Stati Uniti una sconfitta militare.
Si trattò di una guerra persa sul fronte interno, per il crollo del morale all'interno della società americana.
A questa sconfitta, i media diedero un rievantissimo contributo.
Un po' quello che continuano a fare oggi con la guerra in Iraq.
Ecco il testo:
Di nuovo, quarant´anni dopo il Vietnam, la frustrazione porta all´escalation. La guerra che in ottobre Bush stava - ci assicurò offeso - «assolutamente vincendo» diventa, appena due mesi e una batosta elettorale più tardi, la guerra che «non stiamo vincendo, ma non stiamo neanche perdendo».
Qualcosa dunque di surreale, di tragico e di indefinito che vive nel limbo della disperazione impotente di un uomo che annaspa sotto l´ombra del Vietnam. E che, esattamente come i suoi predecessori nei momenti più bui di quell´altra guerra perduta, egli vuole esorcizzare ricorrendo alla trappola «escalation», all´aumento del numero di soldati, per rincorrere la chimera di una vittoria che neppure i suoi generali riescono più a definire che cosa sia.
La conferenza stampa di Natale, che George Bush ha organizzato in fretta, prima di sfuggire all´assedio politico della capitale e rinchiudersi nel ranch texano con la moglie Laura convalescente dall´asportazione di un tumore alla pelle, voleva essere una risposta allo shock dell´intervista concessa martedì al Washington Post, nella quale, per la prima volta, la giaculatoria dello «stiamo vicendo» era divenuta l´ammissione già fatta dal nuovo ministro della difesa Gates davanti al Senato, che gli Usa non stanno vincendo affatto. E dopo quasi quattro anni, tremila caduti, 20 mila feriti e 600 miliardi di dollari fuori bilancio federale bruciati (una cifra pari a 12 «manovre» della Finanziaria italiana) al massimo il Team Usa può vantare un pareggio.
Nonostante lo sprezzo e l´arroganza con la quale il presidente ha licenziato il rapporto Baker-Hamilton e la sua spietata analisi della guerra, qualche scheggia di realtà è penetrata nella corazza ideologica di questa Casa Bianca.
Sia l´intervista al Post che la conferenza stampa di ieri contengono quegli elementi di ammissione, non ancora di realismo, che per tre anni e nove mesi sono completamente mancati nel piccolo mondo di ideologi dei quali Bush si era circondato. «Sto studiando una nuova strategia per la vittoria», ha ripetuto il presidente, nella evidente conferma che, dal marzo del 2003, la strategia seguita non ha funzionato.
Ma per questa «nuova strategia per una vittoria», che deve escludere ogni contatto ufficiale con i veri avversari, l´Iran e la Siria, definita come un Iraq «stabile e capace di autogovernarsi», sono necessarie più truppe, più "boots on the ground", più stivali sul terreno, allo scopo di controllare almeno la capitale Bagdad e creare l´impressione che l´ordine pre bellico sia tornato in Iraq. Ma queste truppe aggiuntive, calcolate in 30 o 50 mila oltre le 150 mila già al fronte, non ci sono, in un esercito americano che l´ex capo di stato maggiore Powell definisce «pezzi» e anche i generali in servizio sanno essere «troppo stressata». Occorre dunque, per permettere la mini escalation sognata da Bush e teorizzata dagli ideologi che hanno sbagliato ogni previsione ma oggi giurano di avere finalmente la formula vincente, aumentare gli organici complessivi delle forze armate, reclutare almeno altri 100 mila soldati volontari ai 650 mila che oggi compongono l´esercito e i marines.
E´ quindi una piccola «corsa al riarmo», un´escalation in chiave minore, quella che il Bush della disperazione oggi chiede al Congresso, secondo il modello della Guerra Fredda che lui ha citato a parallelo della sua «Guerra al Terrore», che è «la battaglia ideologica fondamentale che attende questa e le prossime generazioni». Ma è anche la contraddizione radicale della dottrina militare che la sua amministrazione, e il suo uomo di punta Rumsfeld, avevano concepito per il XXI secolo, la forza «leggera, mobile e rapida», pensata per interventi e vittorie lampo, supportata da altissima tecnologia, e completamente inadatta a una occupazione, come quelle che il Pentagono si è trovato costretto a gestire.
E qui, cade la mosca nella minestra dei progetti per l´ultima carica, la surge, che Bush proporrà a un´America ormai disillusa e scettica, al ritorno dalla sua fuga in Texas. Nella minestra dei sogni di Bush, c´è il Congresso, quella Camera oggi in mani democratiche che dovrà digerire e approvare i costi astronomici anche del «mini riarmo» richiesto, del primo aumento di organici militare in 15 anni, dalla grande smobilitazione ordinata da Bush padre e poi proseguita da Clinton, dopo il collasso dell´Unione Sovietica nel 1991.
Il Pentagono ha già chiesto 100 miliardi di dollari di finanziamenti supplementari fuori bilancio per Iraq e Afghanistan, da sommare agli oltre 550 miliardi di budget ufficiale per la Difesa e la Camera, che non ha il potere di determinare il corso della strategia nazionale, tiene tuttavia le chiavi del forziere federale. Mentre Bush dolorosamente, pubblicamente comincia a scendere a patti con la realtà di una strategia fallita, l´ufficio della contabilità generale dello stato, il Gao, calcola che i 100 miliardi supplementari, dopo i 500 già spesi, porteranno il costo della «guerra che non stiamo vincendo» oltre il conto finale dei 15 anni di guerra in Vietnam, 589 miliardi in dollari di oggi. Bush promette una guerra di generazioni. I nuovi leader del Parlamento, i democratici, sono disposti ad accettare al massimo altri sei mesi. Poi, come nel 1973 in Vietnam, la flebo dei dollari buttati nella sabbia della Mesopotamia, sarà staccata.
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