Da EUROPA del 21/12/2006, un'intervista su Hamas a un giornalista della rete televisiva filo-terrorista Al Jazeeera:
«La possibilità di una guerra civile non è mai stata così concreta».
Ne ha fatta di strada Khaled Hroub. Nato in un campo profughi di Betlemme, è ora direttore dell’Arab media project all’università di Cambridge, e sulla tv Al Jazeera presenta un programma di libri.
Commentatore del giornale panarabo in lingua inglese Al-Hayat e dell’International Herald Tribune, ha appena pubblicato in Italia il libro “Hamas, un movimento tra lotta armata e governo della Palestina” (Bruno Mondadori).
In questa intervista a Europa invita a non guardare tanto alle dichiarazioni di principio di Hamas, ma ai fatti: «Con Hamas al potere non si sono più verificati attacchi suicidi nei confronti di cittadini israeliani.
L’Occidente sbaglia a felicitarsi con il presidente Abbas, che ha chiesto elezioni anticipate calpestando i diritti di un governo democraticamente eletto».
Innanzitutto, gli attacchi suicidi non sono cessati. Sono continuati, ad opera della Jihad islamica. Il governo di Hamas, dal canto suo, ha dichiarato da subito che non avrebbe contrastato la "resistenza".
L'insuccesso della maggior parte dei tentativi di attentati è stata determinata dalle misure di sicurezza israeliane, che includono la continua pressione militare contro i capi terroristi e la barriera difensiva.
Hamas ha comunque continuato a bersagliare Israele con i razzi kassam
«La mossa di Abbas non fa che aumentare i consensi nei confronti dei rivali – ci dice, da Chicago, il giornalista di Al Jazeera – e se Hamas non si presentasse alle elezioni finirebbe per tornare alla lotta armata e agli attacchi suicidi».
Perché nella Striscia di Gaza non sta funzionando il cessate il fuoco tra Hamas e Al Fatah?
La situazione si fa sempre più complicata, perché stiamo assistendo a una battaglia politica tra due forze che presentano agende completamente divergenti, due forze con ambizioni politiche completamente diverse. Il fallimento dei negoziati per un governo di unità nazionale è stato un colpo tremendo.
Io seguo la politica palestinese da sempre, e oggi temo che la possibilità di una guerra civile non sia mai stata così concreta.
Cosa pensa della proposta del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di elezioni anticipate?
La richiesta del presidente Abbas è stata prematura, perché non erano stati ancora compiuti tutti i tentativi per arrivare a un governo di unità nazionale. Inoltre la mossa di Abbas implica il rifiuto di un governo democraticamente eletto dai cittadini. Per questo penso che, agli occhi dell’opinione pubblica palestinese, potrebbe rivelarsi un boomerang per Al Fatah e far aumentare i consensi nei confronti di Hamas.
Quale potrebbe essere, comunque, l’esito di eventuali elezioni?
Nessuno ovviamente può dirlo con certezza. Tuttavia penso che il risultato sarebbe molto simile a quello delle scorse elezioni di gennaio, con Hamas che si imporrebbe comunque su Al Fatah. Ma c’è il timore fondato che stavolta le elezioni possano non svolgersi in modo libero e corretto. Questo è uno dei motivi per cui Hamas, in modo semiufficiale, ha già detto che non intende parteciparvi. E l’assenza di Hamas, stavolta, significherebbe che l’Autorità palestinese non avrebbe più legittimità agli occhi dei cittadini.
Questo potrebbe significare un ritorno di Hamas alla lotta armata, al terrorismo?
Io per Hamas preferisco non usare la parola “terrorismo”.
Per Hamas "prefersice non usare la parola terrorismo". Il giornalista di EUROPA non ha nulla da dire in proposito e continua a considerare credibile e autorevole il suo interlucutore.
Hamas, se non accetterà più la via democratica, tornerà agli attacchi suicidi nei confronti dei cittadini israeliani, temo di sì. L’ironia è che né Israele né l’Occidente capiscono che con Hamas al potere la situazione è più pacifica. Hamas oggi sta attuando un cessate il fuoco unilaterale nei confronti di Israele. Ma se viene spinta fuori dalla democrazia, che piaccia o no la conseguenza è che si mette in pericolo la vita dei cittadini israeliani.
Quindi per lei sbagliano i governi occidentali ad applaudire la richiesta di elezioni formulata dal presidente Abbas?
L’Occidente deve fare più attenzione. Così non si aliena solo il rapporto con Hamas, ma anche con metà della popolazione palestinese.
Però il problema del riconoscimento di Israele è un problema vero e concreto…
Sì, ma nel giugno scorso Hamas e Al Fatah hanno sottoscritto un documento politico che prevede la creazione di uno stato palestinese, con i confini del 1967, e quello rappresentava un riconoscimento implicito di Israele.
Falso. Rapresenta l'accetazione del piano in due tappe a suo tempo elaborato dall'Olp : costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza e successiva distruzione di Israele.
Lo stato palestinese ancora non c’è, e non possiamo dimenticare che la stragrande maggioranza della popolazione palestinese su questo punto è dalla parte di Hamas: non si possono fare accordi con Israele se non si riceve nulla in cambio.
Questa non è la posizione di Hamas. Hamas disconosce il diritto all'esistenza di Israele per motivi religiosi, non tattici
La battaglia tra Hamas e Al Fatah è di natura ideologica o è solo una battaglia di potere?
È una battaglia politica. Nessuno che osservi il con- flitto in corso può vedervi degli elementi religiosi.
E' di questi giorni la notizia di una probabile fatwa di morte emessa da Hamas contro i dirigenti di Al Fatah
Hamas non sta utilizzando slogan religiosi contro Al Fatah. Ci sono programmi politici differenti, e c’è una forte distanza sul livello di cooperazione che l’Autorità palestinese dovrebbe raggiungere con Israele.
Di seguito, un articolo di Antonio Barillari. E' falsa l'idea che in Hamas vi siano due linee e due leadership.
La linea politica del gruppo è decisa a Damasco da Khaled Meshal.
Le tensioni interpalestinesi esplose nell’ultimo periodo hanno posto sotto i riflettori una nuova generazione di leader palestinesi appartenenti a Al Fatah e Hamas. Si tratta di personalità forti, complesse, legate a personaggi del passato come Yasser Arafat e Ahmed Yassin ma che s’inseriscono in una situazione del tutto nuova: per la prima volta il governo palestinese è guidato da un movimento islamico. Le due figure principali di Hamas, il leader Khaled Meshaal e il primo ministro Ismail Haniyeh, vivono distanti; il primo in esilio a Damasco, il secondo a Gaza. In realtà, la struttura organizzativa di Hamas resta segreta e non si sa con esattezza in che misura le direttive provenienti dalla sede di Damasco siano recepite dalla leadership di Gaza.
Da Damasco Meshaal, che sta personalmente negoziando uno scambio di prigionieri tra palestinesi e israeliani, ha più volte affermato che il caporale israeliano Gilad Shalit è vivo ed è considerato “prigioniero di guerra”. In un certo senso Meshaal deve la sua leadership proprio a uno scambio di prigionieri. Era il 1997 e Meshaal guidava l’ufficio di Hamas in Giordania; per ordine dell’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dieci agenti del Mossad con passaporto canadese cercarono di ucciderlo versandogli del veleno in un orecchio. La polizia giordana riuscì però ad arrestare due agenti causando una crisi diplomatica con Tel Aviv. Meshaal stava morendo in ospedale e re Hussein chiese urgentemente a Netanyahu di fornire l’antidoto, ma inizialmente questi rifiutò. Prima che la crisi degenerasse intervenne il presidente statunitense Bill Clinton che costrinse gli israeliani a consegnare l’antidoto. Meshaal era vivo grazie alla prontezza di re Hussein e per la prima volta il suo nome, fino ad allora sconosciuto, fece il giro del mondo.
In cambio dei due agenti del Mossad le autorità giordane ottennero il rilascio di venti prigionieri fra cui Ahmed Yassin, fondatore e leader spirituale di Hamas condannato all’ergastolo. Alla morte di Yassin, centrato da un missile israeliano a Gaza nel 2004, Meshaal fu nominato leader del movimento islamico.
Meshaal manca dalla Palestina dai tempi della sua infanzia. Nato cinquant’anni fa in Cisgiordania, allora appartenente alla Giordania, nel 1967 è emigrato con la famiglia in Kuwait a causa dell’occupazione israeliana. La sua attività politica ha inizio all’età di 15 anni quando aderisce ai Fratelli musulmani; si laurea in fisica e all’università si distingue come leader del Blocco islamico palestinese che si oppone all’Unione generale studenti palestinesi vicina ad Arafat. Dopo l’invasione irachena del Kuwait i palestinesi sono costretti a lasciare il paese e Meshaal si trasferisce in Giordania dove si occupa della raccolta di fondi a favore di Hamas e comincia a tessere relazioni con Siria e Iran. Cacciato anche da Amman nel 2001 si rifugia in Siria trasferendovi l’Uf- ficio politico di Hamas.
La crisi attuale è divampata in seguito all’attentato alla vita di Ismail Haniyeh di cui Hamas ha accusato Al Fatah ma nonostante il protrarsi degli scontri armati il primo ministro minimizza, getta acqua sul fuoco delle divisioni interne e ricorda che il problema comune a tutte le fazioni palestinesi è l’occupazione israeliana.
Diventato primo ministro dopo la vittoria alle elezioni di gennaio, la sua carriera politica ha avuto una svolta nel 1997 in seguito alla liberazione di Ahmed Yassin che lo nominò capo del suo ufficio. Durante la seconda intifada la sua vicinanza all’anziano sceicco e l’uccisione da parte degli israeliani di molti leader di Hamas contribuirono alla sua ascesa tanto che alla morte di Yassin divenne responsabile del movimento a Gaza. Haniyeh si è sempre schierato a favore della partecipazione alle elezioni e nel dicembre 2005 fu scelto come capolista per le legislative del mese successivo. L’esercito israeliano ha più volte cercato di eliminarlo. Dopo il rapimento di Shalit, Israele ha nuovamente minacciato di ucciderlo se il soldato israeliano non fosse stato rilasciato e da allora vive nascosto.
Haniyeh è nato nel 1963 in uno dei luoghi più desolati della poverissima striscia di Gaza, il campo profughi di Shati dove le fogne scorrono a cielo aperto e l’immondizia copre ogni spazio su cui non sono state costruite casupole o baracche.
Durante la guerra del 1948 la sua famiglia era stata cacciata da quella che adesso è la città israeliana di Ashkelon. Al tempo della prima intifada Haniyeh ha passato tre anni nelle carceri israeliane, poi nel 1992 è stato deportato assieme ad altri 400 palestinesi nella terra di nessuno fra Israele e Libano dove è rimasto per un anno vivendo in una tenda.
Haniyeh continua a rifiutare di riconoscere lo stato di Israele. «Continueremo la nostra lotta fino alla liberazione di Gerusalemme », ama ripetere. Tuttavia ha anche dichiarato che, se Israele accettasse uno stato palestinese entro i confini del 1967 e riconoscesse il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, Hamas si comporterebbe di conseguenza.
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