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La Stampa Rassegna Stampa
20.12.2006 Chi sono i buoni e i cattivi tra gli arabi?
una domanda di Lucia Annunziata a Massimo D'Alema

Testata: La Stampa
Data: 20 dicembre 2006
Pagina: 1
Autore: Lucia Annunziata
Titolo: «D'Alema ricordi quei bimbi»
La STAMPA del 20 dicembre 2006 pubblica un articolo di Lucia Annunziata, che rivolge un'importante domanda, riguardo ai tre bambini palestinesi uccisi in un agguato a Gaza,  al ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema.
Pubblichiamo l'articolo, augurandoci che segni l'inizio di un uovo corso nel quotidiano torinese, dopo l'eccesso di faziosità antiamericana e antisraeliana degli ultimi tempi ( si veda ad esempio l'ultimo editoriale di Barbara Spinelli da noi commentato qui)


C’è una domanda che mi piacerebbe depositare nella valigetta diplomatica che accompagna il ministro degli Esteri nel viaggio che inizia questa mattina, a Beirut e in Palestina. Una domanda semplice.
Anni fa un bambino in Italia venne ucciso, sciolto nell’acido, per vendetta contro il padre, in una guerra di mafia. Fu un delitto che traumatizzò persino gli ambienti mafiosi e provocò una serie di dissociazioni. Due settimane fa un identico delitto è stato consumato a Gaza, tre bambini, dai 4 ai 9 anni, uccisi di proposito da un commando di Hamas in un’imboscata, per vendetta contro il padre, uomo di Abu Mazen. La domanda è: possiamo accettare che la morte di questi tre bambini palestinesi susciti in noi una reazione meno vigorosa, meno definitiva di quella che ha accompagnato l’uccisione del bambino italiano? Meglio: si può perdonare ad Hamas quello che non perdoniamo nemmeno alla mafia?
E se vi sembra, questo, un quesito ingenuo o poco appropriato agli alti orizzonti della politica internazionale, proverò a spiegarmi meglio.
Due tempeste gravano sul Vicino Oriente: le proteste in Libano contro il governo Siniora e il rischio guerra civile fra Palestinesi. Insieme possono provocare «la tempesta perfetta» , con una sovrapposizione tale da non permettere nessuna via d’uscita. Si tratta infatti (con tutte le dovute diversità) di casi abbastanza simili: due gruppi islamici, estremisti, Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina, lanciano intorno a un obiettivo tipicamente democratico - le elezioni - una sfida per il controllo del potere. Entrambe queste sfide fanno vacillare i pilastri dell’iniziativa europea, in cui quella italiana ha un grande ruolo.
In Libano siamo impegnati nel contenimento (militare ma anche politico) di Hezbollah, e la pressione del Partito di Dio ha ricominciato a crescere; nei Territori gli Europei sostengono da anni, e con maggiore convinzione degli Stati Uniti, il diritto dei Palestinesi: ma certo c’è poco da chiedere se poi questi Palestinesi precipitano in una guerra civile.
In breve, è l’intera impostazione, sia diplomatica che militare, degli Europei che minaccia di saltare. E basterebbe questa idea - senza nemmeno scomodare tutte le ulteriori conseguenze - a far gelare il sangue. Roba da frana di consensi per una politica lodata fino a poche settimane fa come straordinaria.
Ma forse i politici hanno sangue più freddo del nostro, perché certo le loro reazioni sono quasi inesistenti. Tacciono, o dicono banalità, come Blair appena passato in Israele, o temporeggiano, come la Lega Araba, la cui sola convocazione è in corso da alcune settimane. Per questo aspettiamo ora con curiosità che cosa dirà il nostro ministro degli Esteri.
È solo prudenza questo silenzio? Avanziamo un’ipotesi: forse è imbarazzo.
Le vicende in Libano, in Palestina, ma anche in Iraq, stanno dimostrando quanto forte sia il conflitto inter-arabo. Conflitto per altro perdurante da un secolo, avvitato intorno alla supremazia e al controllo delle risorse. Per comodità, cinismo o semplice opportunità, tuttavia, questo aspetto delle guerre mediorientali è sempre stato, soprattutto dall’Europa, rimosso, seppellito sotto il conflitto con Israele. È stato infatti comodo e utile fare della guerra irrisolta con Israele il peccato originale. Problemi in Egitto? «Colpa della radicalizzazione dovuta agli accordi con Israele». Terrorismo palestinese? «Certo, c’è l’occupazione». Conflitto in Libano? «Ma è ovvio, è nato con l’invasione di Israele». E così per Iraq, Iran, Bin Laden. Fenomeni attribuiti alle ingerenze Usa e all’espansionismo del suo alleato a Gerusalemme. Analisi per molti versi corretta, ma fino a che punto?
Uno dei frutti amari del dopoguerra iracheno è invece l’acuirsi dell’odio inter-arabo, che solo per certi versi nasce dalle ingerenze occidentali. Le crudeltà della guerra civile in Iraq, ad esempio, e quelle fra Palestinesi, la sete di potere di nuovi gruppi radicali, la corruzione di molti potenti e potentati: possono le colpe dell’Occidente riassumere tutto questo?
È arrivato forse il momento di aprire gli occhi di fronte a questo problema ed entrare nelle responsabilità di ciascuno. Ci piacerebbe che finalmente qualcuno ci dicesse chi sono i buoni e i cattivi fra gli Arabi, chi sono i nostri alleati (stiamo con Siniora, fino a quando e con quali prospettive?), con chi stiamo in Palestina (Hamas, o Abu Mazen?). Vorremmo uscire insomma da questo «giustificazionismo» generico con cui si guarda agli Arabi, in nome di un vittimismo che somiglia molto alla condiscendenza. Non dobbiamo forse poter dire, come governi che mandano i propri uomini e i propri soldi, chi consideriamo fuorilegge, quali atti sono per noi inaccettabili, e quali linee tracciate non sono da attraversare?
Per questo, ministro D’Alema, quei tre bambini sono dopotutto molto importanti: la democrazia occidentale chiede che nessuno, in nessuna circostanza, ammazzi bambini, tanto meno per vendetta. Apriamo infatti inchieste contro gli Stati Uniti quando violano i diritti umani: dovremmo forse sottrarci a identiche richieste nei confronti dei Palestinesi, al cui fianco siamo impegnati?
Entri dunque a Gaza, ministro, e dica, come lo sa fare lei quando si raggela dalla rabbia, che chi uccide i bambini è solo un criminale, e che va consegnato e mandato in galera. Provi a fare questo piccolo gesto che dica ben chiaro che noi poniamo un limite etico alla nostra presenza militare in Medioriente.
Un piccolo gesto, che può avviare una nuova fase. Quella fase due che, viste le tensioni, non è detto che non sia necessaria in politica estera, oltre che in quella economica.

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