Due articoli dal FOGLIO del 14 dicembre 2006:
Milano. Malgrado sia stato sbertucciato da tutti, il rapporto Baker sull’Iraq alla fine potrà vantare il merito di aver riaperto il dibattito sulla natura dell’intervento americano a Baghdad. Di fronte alle difficoltà sul campo, ma soprattutto grazie alle pressioni del gruppo Baker, George W. Bush ha sollecitato una serie di revisioni interne della sua politica in Iraq per provare a delineare una nuova strategia per la vittoria. Negli ultimi giorni ha incontrato i leader iracheni, sciiti e sunniti, prima a Damasco poi a Washington. Lunedì ha ascoltato il parere dei diplomatici del dipartimento di stato e, in collegamento con Baghdad, ha sentito le proposte dei suoi uomini in Iraq. Lunedì ha incontrato due influenti ex capi di stato maggiore dell’esercito, tra cui Jack Keane, e un noto analista militare, Frederick Kagan, per tenere conto anche di voci esterne all’Amministrazione, peraltro molto critiche con il rapporto Baker. Ieri Bush è andato al Pentagono, dove ha partecipato a un summit con i capi militari, il segretario uscente Donald Rumsfeld e quello entrante Bob Gates e dopo ha confermato di non voler “abbandonare il governo iracheno nel costruire una democrazia stabile”. La sensazione, suffragata dalle anticipazioni di stampa, è che sia in corso un deciso cambio di rotta nella strategia americana in Iraq, che va però nel senso esattamente opposto a quello indicato dalla Commissione Baker. Pare abbastanza certo che il Pentagono manderà presto in Iraq venti o quarantamila soldati in più, col compito di combattere, invece che aspettarli, i terroristi sunniti e, novità, anche le milizie sciite e filoiraniane di Moqtada al Sadr. Questa nuova strategia militare sarà accompagnata da un conseguente riadattamento della linea politica (Sadr fin qui ha fatto parte della coalizione che ha vinto le elezioni). I dettagli saranno noti soltanto a gennaio, prima del discorso sullo Stato dell’Unione. Bush aveva fissato per la settimana prossima la conferenza stampa per presentare il nuovo progetto, ma poi ha deciso di aspettare, anche per concedere a Gates, che si insedierà lunedì, il tempo necessario a valutare di prima mano la situazione.
Baghdad. Sulla scena politica irachena sono rispuntati due volti noti, l’ex premier Iyyad Allawi e l’ex uomo forte di Washington Ahmed Chalabi. Le ipotesi sul futuro del governo dell’Iraq si moltiplicano, mentre continuano gli attacchi terroristici. C’è chi sostiene che presto ci potrebbe essere un nuovo esecutivo e chi parla di un golpe, più o meno indolore, ai danni di Nouri al Maliki. Ma il premier ieri ha ricevuto un’ennesima rassicurazione dal presidente americano, George W. Bush, che ha detto di contare su di lui per il governo d’unità nazionale. Una mossa nuova potrebbe però farla Abdul Aziz al Hakim – che in visita a Washington ha chiesto alle truppe americane di non lasciare l’Iraq – uscendo con il suo Sciri dall’alleanza sciita e dalla coalizione governativa. I curdi di Talabani e di Barzani sarebbero tentati di seguirlo, entrando in un nuovo esecutivo guidato dal vice di Hakim, Adel Abdul Mehdi, che era già favorito dalla Casa Bianca quando poi si impose Maliki con il voto determinante del leader radicale sciita Moqtada al Sadr. “Si tratta di un’alleanza tra le maggiori forze democratiche del paese”, ha spiegato al Foglio Mahmoud Othman, deputato curdo. L’obiettivo è marginalizzare gli estremisti religiosi, come Sadr.
Dal fronte sunnita aderirebbe al nuovo governo il Partito islamico del vicepresidente Tareq al Hashemi, il cui movimento è considerato fra i più moderati, e che due giorni fa ha fatto una visita a Washington. Non è chiaro come reagirebbero le altre formazioni sunnite. Per questo potrebbe fare il suo ritorno l’ex primo ministro Allawi, considerato il leader iracheno più laico.
In parallelo all’opzione politica non è escluso dai circoli diplomatici di Baghdad un “golpe bianco” per portare ai vertici del paese un “uomo forte” che metta fine alle violenze e allo strapotere delle milizie. A parte qualche anziano generale sunnita, si fa anche in questo caso il nome di Allawi. Da sempre sostenuto dagli Stati Uniti, l’ex premier ha l’immagine di uomo forte, è amato dai militari e, nonostante sia uno sciita, per la sua visione laica è apprezzato anche dai sunniti, che pure ancora non gli perdonano l’assedio di Fallujah.
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