Dal MANIFESTO del 14 dicembre 2006:
«Forse dovremmo ricordarle che se un leader arabo le invia un segno di pace, anche il più esile, occorre rispondergli. Dovete far ciò per il bene di coloro ai quali, in caso di guerra, potreste chiedere di sacrificare la loro vita». Questo il passo saliente di una durissima lettera aperta contro la politica mediorentale del premier israeliano Ehud Olmert, di Shimon Peres, e del presidente Usa George Bush, resa nota dal newyorchese «Jewish Week» che ne ha pubblicato alcuni stralci. Una missiva scritta non da un qualche esponente pacifista vicino a Noam Chomsky ma da Jack Avital, leader della comunità ebraica siriana, già amico di Ariel Sharon, noto sostenitore del Likud e presidente della «Sephardic National Alliance». La lettera, che sarà pubblicata su «Image» la rivista della comunità ebraica siriana a New York, concentrata nella parte meridionale di Brooklyn nel raggio di alcune miglia attorno all'incrocio tra Ocean Parkway e Kings Highway, così lontana dallo splendido quartiere ebraico di Damasco se non per il classico accento damasceno di tanti suoi abitanti e per i profumi di albicocca, lenticchie e fave, ingredienti base della cucina siriana, ha provocato un piccolo terremoto sono solo tra gli ebrei americani di origine siriana - sempre schierati con l'ultradestra del Likud - ma più in generale nel mondo politico americano e nella stessa Israele. La clamorosa iniziativa di Jack Avital non è stata comunque un fulmine a ciel sereno essendo arrivata dopo le aperture negoziali di Damasco per «una pace completa in cambio di un ritiro completo dai territori occupati» siriani, ma anche libanesi e palestinesi, dopo il discorso di Blair sulla necessità di riaprire un dialogo con la Siria e l'Iran, le aperture dell'Iraqi Study Group -il comitato bipartisan guidato dal consigliere di Bush padre, James Baker, e da Lee Hamilton - ed infine dopo la risoluzione con la quale il parlamento europeo ha raccomandato la sempre rimandata firma dell'accordo di associazione Euro-Mediterraneo con Damasco. Jack Avital, nella sua arringa contro la politica dei no di Olmert e Bush, arriva a paragonare il premier israeliano Ehud Olmert a Golda Meir che nel 1972 rifiutò le proposte di pace del presidente egiziano Anwar Sadat costringendo quest'ultimo a lanciare, un anno dopo la guerra dello Yom Kippur.
Sadat non fu affatto "costretto" a lanciare la guerra del Kippur, che dimostra anzi che prima di essa non voleva per nulla la pace.
Quando dal leader egiziano vennero dei passi concreti, Israele rispose positivamente.
Una guerra dalla quale Sadat sarebbe poi arrivato al trattato di pace firmato nel 1979 a Camp David. «Guardate quanto sangue fu versato - sostiene Avital - per quella risposta negativa di Golda. Lo stesso sta avveè nendo oggi con la Siria. Quante altre vite di soldati dovranno perdere per arrivare alla pace?». Secondo l'esponente della comunità ebraica siriana l'apertura di trattative con Damasco dovrebbe comunque avvenire in un quadro «regionale» con una riapertura del negoziato anche con i palestinesi, con Abu Mazen, ma anche, «se necessario» con Hamas. In realtà, le iniziative di dialogo di Avital nei confronti della madrepatria risalgono a sei anni fa, al 2000 quando, alla morte del presidente siriano Hafez Assad, organizzò una cerimonia religiosa in sua memoria alla quale invitò, con la benedizione del capo rabbino della comunità, l'ambasciatore siriano negli Usa. Da allora il rappresentante siriano a Washington, Imad Mustapha, è divenuto l'ospite d'onore a molti matrimoni ebraici a Brooklyn e nel 2004, per la prima volta, l'intera dirigenza della comunità volò a Damasco per incontrare Bashar Assad. Una visita allora sostenuta apertamente dall'Amministrazione. Non così oggi quando, secondo quanto ha scritto l'autorevole quotidiano israeliano Yediot Aharonot, il presidente Bush avrebbe proibito al governo israeliano - nel quale i ministri degli esteri, Tzipi Livni, e interni, l'ex capo dello Shin Bet Avi Dichter si sarebbero pronunciati a favore di un dialogo con Damasco - di accettare una ripresa del negoziato con la Siria. Negoziato sul ritiro dal Golan occupato nel 1967 bloccato dall'uccisione di Rabin e poi sepolto, nell'estate del 2000 a Camp David, dalla mancanza di coraggio del premier israeliano Ehud Barak.
In realtà, il negoziato con la Siria non fu bloccato né dall'omicidio di Rabin né dalla mancanza di coraggio di Barak, ma dal rifiuto di Hafez Al Assad di intavolare una trattativa senza pregiudiziali e limitata al problema del Golan.
Contro l'intransigenza di Bush e Olmert si è pronunciato gran parte dell'establishment della politica estera americana, dai «realisti» repubblicani come l'ex vice segretario di stato Richard Armitage, ai democratici internazionalisti alla Warren Christopher, alla stessa Madeleine Albright. Contro ogni apertura a Damasco resistono invece il presidente Bush, Cheney e i pasdaran neocon, coloro che hanno fatto in modo che la guerra al Libano non solo iniziasse ma sopratutto durasse il più a lungo possibile.
La guerra del Libano è stata inziata da Hezbollah. E nessuno in America o in Israele ha mai voluto che "durasse il più a lungo possibile", ma solo che conseguisse i suoi obiettivi (liberare i due soldati sequestrati, disarmare il gruppo terroristico sciita)
Ma proprio il disastro libanese starebbe spingendo non pochi a Tel Aviv e nella diaspora - da qui la lettera di Avital - a interrogarsi se questa politica abbia reso Israele più sicura o se invece non vi sia alla Casa Bianca, a capo della lobby ebraica americana e in alcuni settori del complesso militare israeliano, una cricca fondamentalista pronta a perseguire i suoi folli progetti anche a costo di sacrificare lo stesso futuro dello stato ebraico.
L'esistenza di una simile "cricca fondamentalista" è naturalmente un'invenzione di Chiarini.
Piuttosto, occorre riconoscere che i regimi mediorentali e i gruppi terroristici che sono nemici di Israele lo sono anche degli Stati Uniti, proprio perché alla base della loro condotta c'è un'ideologia antioccidentale totalitaria, non rivendicazioni nazionali negoziabili.
Per questo si rivela totalmente falsa l'idea, più volte sostenuta anche da Chiarini, che la politica americana in Medio Oriente sia diretta e condizionata, contro gli stessi interessi della nazione, da Israele e dalla "lobby ebraica".
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