Il regime iraniano nega la Shoah per distruggere Israele gli studenti lo sfidano. L'Occidente da che parte sta?
Testata: Il Foglio Data: 14 dicembre 2006 Pagina: 2 Autore: Giorgio Israel - Giulio Meotti - Tobia Zevi e Daniele Nahum - Adriano Sofri - Andrea Marcenaro Titolo: «Una domanda: anche Ahmadinejad è solo un compagno che sbaglia? - Wistrich spiega perché il tiranno iraniano è un caso diverso da Irving - Andiamo a Teheran per sostenere gli studenti. Un appello dei giovani ebrei - Piccola posta - Andrea's version»
Dal FOGLIO del 14 dicembre 2006, un articolo di Giorgio Israel:
Il fatto più inquietante non è che si sia concretizzato il convegno di un’accozzaglia di nazisti, di relitti del Klu Klux Klan di mascalzoni di varia estrazione, con il condimento di qualche rabbino antisionista. Non è un fatto epocale che questi noti figuri siano riusciti finalmente a riunirsi, assieme alla rappresentanza del Judenrat, a riprova conclusiva che la forma attuale dell’antisemitismo è l’antisionismo. Piuttosto, dato che gli imbecilli non sono una specie rara – a una persona che proclamava “ morte gli imbecilli, mon Général”, de Gaulle rispose “vasto programma, cher Monsieur” – è consolante che Ahmadinejad non sia riuscito a raccattare più di una sessantina di tali arnesi. Neppure è particolarmente sorprendente che possa esistere un paese e un regime disposto a ospitare una simile pattumiera maleodorante. Quel che è invece preoccupante, e non poco, è che il convegno “Rivedere l’Olocausto: una questione globale” non è stato un evento storiografico e il paese ospitante non è un insignificante atollo del Pacifico. Partendo dal falso assioma che l’unica giustificazione della creazione dello stato d’Israele sia stata lo sterminio degli ebrei in Europa, “dimostrare” che la Shoah è una grande menzogna mira a demolire la legittimità dell’esistenza di Israele e a fornire un fondamento storico e “morale” all’obbiettivo di eliminare l’intruso sionista dalla Palestina, come prima tappa dello sgretolamento dell’occidente. In tal modo, si fornisce al mondo islamico un obbiettivo coerente per la “soluzione” del problema palestinese e si riduce al rango di tradimento ogni trattativa che contenga anche implicitamente un riconoscimento del diritto dell’intruso a occupare un centimetro quadrato della Palestina. Soltanto una tregua (hudna), nel senso chiarito dal leader di Hamas, Khaled Meshaal, è accettabile, perché non mette in discussione l’obbiettivo finale. In un mondo arabo e islamico in cui il riconoscimento di Israele ha avuto poco corso e l’antisemitismo-antisionismo ne ha avuto tanto, questa piattaforma teorica affonda come una lama nel burro. Attore di questa iniziativa non è un atollo del Pacifico, ma uno stato che ha un ruolo centrale nel mondo islamico e che sta unificando un vasto fronte (Hezbollah, Siria, Hamas) che sta stringendo una tenaglia attorno a Israele. La preoccupazione cresce alle stelle quando si guardi al modo con cui l’occidente risponde a questa sfida mostrando segni di cedimento persino negli Stati Uniti, con il piano Baker-Hamilton, autentica scimmiottatura di Monaco 1938. Ma lo spettacolo più deprimente e angosciante è quello dell’Europa, che neppure in un’occasione come questa trova la forza di un sussulto morale che non si limiti alle deprecazioni verbali. Apprendiamo che gli ambasciatori europei invitati a Teheran non vi si sono recati. Ci mancava pure… Non c’è il vuoto tra la dichiarazione di guerra e le parole al vento. Per esempio, vi sono gesti (minimi) come il richiamo degli ambasciatori per consultazioni. Invece, soltanto proteste verbali dopo le quali già ricomincia il balletto degli ammiccamenti all’Iran perché “accetti” il ruolo di potenza regionale stabilizzatrice in cambio di un po’ di moderazione: la stampa informa delle richieste di Prodi a Olmert: lasciare le fattorie di Sheeba all’Onu, trattare con la Siria… All’Iran non si chiede nulla. Non intendiamo disprezzare l’epiteto “inqualificabile” con cui il ministro D’Alema ha definito il convegno; ma sarebbe interessante conoscere le implicazioni concrete della dichiarazione della Farnesina secondo cui questa iniziativa “non contribuisce ad allentare la tensione nella regione né a rasserenare i rapporti dell’Iran con la comunità internazionale”. Questo quadro è completato dal desolante spettacolo della sinistra europea e, in particolare, italiana. Sono passati pochi giorni da quando Milano e Roma hanno visto due manifestazioni per la Palestina. Non una. Due. E la visita di Olmert a Roma è stata accolta da una manifestazione ostile con la partecipazione di un partito al governo. Ma di fronte allo scempio del convegno di Teheran, la tanto sensibile coscienza delle masse democratiche dorme placidamente: non una sia pur minima manifestazione, non un sit-in davanti all’ambasciata iraniana, neppure quattro gatti indignati per strada con un cartello scalcinato, neppure uno strillo. Intanto, il capogruppo di Rifondazione comunista al Senato, Giovanni Russo Spena dopo aver dichiarato – grazia sua – che “il negazionismo è da combattere sempre e comunque”, ha prontamente compensato tale audace affermazione con la preoccupazione che il negazionismo “possa nuocere alla causa dello stato palestinese”… Insomma, le minacce agli ebrei e a Israele sono un guaio soltanto per i danni che producono ai compagni e Ahmadinejad è un compagno che sbaglia. Ognuno ha il diritto di fare le scelte che vuole e di accompagnarsi con chi più gli aggrada senza fiatare, qualsiasi cosa dica e qualsiasi manifestazione faccia. Basta che paghi i prezzi relativi. Qui il prezzo è la perdita di qualsiasi diritto a far la morale agli altri: la prossima volta è meglio che stiano zitti prima di ricominciare il solito processo per gli “eccessi” di Israele.
Un'intervista di Giulio Meotti allo storico israeliano Robert Wistrich:
Roma. Proveniente da una famiglia che sfuggì all’antisemitismo polacco per incorrere negli sgherri bolscevichi dell’Nkvd, Robert Wistrich è uno storico in grado di raccontare l’odio. Studioso alla Hebrew University di Gerusalemme, oltre vent’anni fa, in “Hitler’s Apocalypse”, spiegò che l’ayatollah Khomeini aveva rivoluzionato la giudeofobia nazista. Già membro della commissione di sei storici nominata dal Vaticano per studiare l’operato di Pio XII, al Foglio Wistrich spiega che “per la prima volta uno stato come l’Iran, con un simile potere in medio oriente, ha deciso di innalzare la negazione dell’Olocausto a livello di politica nazionale, ammantandola di verità scientifica. Il negazionismo era un fenomeno marginale in Europa e anche nel mondo arabo, dove era molto esteso, ma prima di oggi non era stato diffuso dai governi”. Della conferenza sull’Olocausto di Teheran è stato perso di vista l’essenziale. “L’antisionismo ideologico che cerca la distruzione di Israele e un mondo ‘liberato dagli ebrei’. In altre parole, una forma totalitaria di antisemitismo, antisionismo annichilazionista”. Come era avvenuto con il controconvegno iraniano sulle vignette danesi, Ahmadinejad sfrutta l’argomento della libertà di parola. “Vuole dimostrare che in occidente l’Olocausto è un tabù, qui a Teheran abbiamo invece un libero dibattito. Il regime utilizza un linguaggio illuminista. Il rapporto fra la negazione dello sterminio e la libertà di parola è molto complesso, ma lo è per noi europei. Se mi trovo in un cinema e grido ‘al fuoco’, anche se non sta bruciando niente e la gente si ferisce nella calca, il mio gesto è giudicato criminale”. Nel caso dell’Olocausto ci si deve chiedere: qual è l’obiettivo del negazionismo? “L’antisionismo è più di una collezione esotica di slogan radicalchic sopravvissuti al dibattito degli anni Sessanta. E’ diventato sterminazionista, ideologia pseudoredentrice ricostruita in medio oriente ed esportata in Europa. Gli islamisti radicali hanno motivazione, ragioni e volontà per implementare una ‘soluzione finale’ di quello che chiamano il ‘cancro ebraicosionista’ in medio oriente. Nel chiudere la conferenza di Teheran dell’aprile 2006, Ahmadinejad non poteva essere più sincero. Si è riferito a Israele come a ‘un albero rinsecchito e marcio che deve essere annientato da una tempesta’”. Non dobbiamo confondere casi come quello di David Irving con le vetrine iraniane. “Il regime vuole delegittimare la storia morale dello stato d’Israele. L’unico modo che hanno è dire che Israele esiste solo per il senso di colpa occidentale causato dall’Olocausto”. Il caso di Roger Garaudy è rivelatorio, perché “illumina la malattia dell’occidente. Garaudy, giudicato colpevole in Francia per le sue tesi negazioniste, aveva detto che erano stati i sionisti ad aver inventato l’Olocausto. Quando si recò a Teheran, incontrò leader come Khamenei e Rafsanjani. La Francia, come la Germania, ha denunciato questa conferenza, ma nelle trattative sul nucleare iraniano dimostra il suo appeasement verso il regime. Anche l’Italia ha uno dei rapporti economici più considerevoli con l’Iran”. La leadership iraniana compatta sunniti e sciiti attraverso la giudeofobia. “E’ l’uso di una forma rivoluzionaria di antisemitismo, esattamente come negli anni Trenta. E’ sbagliato quindi presentare Ahmadinejad come un pazzo, è uno statista lucido e fanatico”.
Di seguito un appello di Tobia Zevi presidente Unione giovani ebrei d’Italia Daniele Nahum resp. politico Unione giovani ebrei d’Italia a sostegno degli studenti iraniani che si oppongono al regime:
Tra le pieghe dell’intricata vicenda iraniana, tra i proclami nefasti di Ahmadinejad e il tragicomico convegno negazionista della Shoah organizzato dalla diplomazia iraniana, due giorni fa abbiamo assistito – più o meno consapevoli – ad una straordinaria lezione; impartitaci, con grande coraggio, da un manciata di studenti della facoltà di Ingegneria di Teheran non organizzati e non affiliati (a quanto si sa) a particolari associazioni o a più o meno clandestini partiti politici. Questi ragazzi, nel mezzo di un intervento del presidente della Repubblica islamica nell’aula magna dell’ateneo, si sono alzati in piedi al grido di “morte al tiranno”, decidendo di far sentire la propria voce. Ad ogni costo. Ben consapevoli dei pericoli e dei rischi a cui andavano incontro. Sicuri di ricevere le tre stelle che nell’assurda classificazione oscurantista designano lo “studente sovversivo”. Ci pare che da questo, imprevedibile, episodio, si possa trarre una considerazione – ottimistica – e un monito: in ogni epoca, ma ancor di più nella società globalizzata, il dissenso non può essere rinchiuso in confini geografici; non può essere sepolto da un potere cieco e feroce, proprio perché tutti noi siamo, al di là delle distanze, sempre “connessi”. In ogni parte del mondo navighiamo in Internet, recuperiamo immagini e informazioni dagli stessi media, ci confrontiamo con posizioni ed esperienze estranee e diverse dalla nostra. E ciò, dunque, ci consente di sperare: che in quel contesto energie fresche e moderne, giovani e preparate, possano sfondare la terribile cortina della repressione teocratica per favorire un lento, forse lentissimo, processo di democratizzazione e trasformazione. Di una società già piena, peraltro, di molteplici e interessanti fermenti. Ma quanto accaduto ci impone una riflessione profonda. La impone a noi giovani, studenti, militanti di organizzazioni giovanili dei partiti politici, volontari in associazioni non governative, più o meno impegnati nella politica o nel mondo universitario. Da sempre abbiamo sostenuto, ognuno con le sue sensibilità, che bisogna incoraggiare i dissidenti nei paesi non democratici o in cui la libertà non esiste; da sempre abbiamo ritenuto di dover fornire il nostro appoggio a coloro che si impegnano per l’emancipazione nelle loro nazioni. E dunque, oggi noi lanciamo questo appello a tutti, giovani e studenti, portatori di diverse esperienze e culture, uniti e diversi, per fare quanto possiamo a vantaggio della causa degli studenti iraniani che hanno osato ribellarsi. Intanto dobbiamo preoccuparci della loro incolumità fisica, oggettivamente messa a rischio in un sistema che non prevede e non tollera forme di dissenso e protesta. In secondo luogo dovremo mostrare tutta la solidarietà di cui siamo capaci, in forme che sapremo studiare nel tempo. Noi oggi proponiamo tre soluzioni: cominciamo con una giornata di discussione in un’ aula universitaria, magari alla presenza di alcuni dissidenti dall’Iran, parlando di medio oriente e di politica internazionale e interrogandoci soprattutto su quale possa essere il nostro ruolo; e restituiamo in questo modo l’università, spesso teatro di un triste “assenteismo dell’impegno”, al suo ruolo naturale di valvola di confronto e sapere. Portiamo poi la nostra voce e la nostra protesta fin sotto all’ambasciata dell’Iran, come già fece il Foglio in occasione delle prime terribili esternazioni di Ahmadinejad, esigendo delle rassicurazioni sulla tutela dei diritti civili, umani e politici dal regime. E proviamo infine – ci rendiamo conto delle difficoltà, forse insormontabili – a sfidare anche noi il tiranno, recandoci in prima persona nella Teheran dove le manifestazioni sono interdette, ma dove tutti i divieti non riescono ad arginare la forza d’urto delle idee di libertà e giustizia. Possiamo farlo. Potremo riuscire o no. Ma una battaglia come questa merita di essere combattuta, tutti assieme.
Una "Piccola posta" di Adriano Sofri sullo stesso tema:
Per quelli come me, che non credono al dialogo con Ahmadinejad, e lo deplorano, esiste una sola alternativa all’impiego di una legittima forza internazionale contro il suo regime: l’opposizione civile iraniana, che però dalla minaccia di un impiego della forza viene indebolita e frustrata. In questo paradosso inciampa la mia speranza, e però la manifestazione temeraria degli studenti di Teheran, così inaspettata, stata bellissima. Quanto ai nostri governi, cui la prudenza non suggerisce mai niente di concreto da dire e da fare, hanno un’occasione per esigere di vedere e toccare i protagonisti di quella protesta, ristampare le loro fotografie e di imparare a memoria i loro nomi, i quattro di oggi e i mille di domani, e di scriverli grande, come si fa in Campidoglio, come nomi di persone vive e illese.
Infine, l'Andrea's Version di Andrea Marcenaro:
Mica per insistere, per carità, e poi la gente ha il diritto di dire ciò che vuole e quando vuole. Ma mettetevi nei panni di Gad Lerner, il cui cuore sta senza dubbio alcuno dalla parte dei fantastici studenti di Teheran ma il quale, dovendo esercitare anche la mente, ha preferito farla valere su: “L’effetto Mirafiori nel vuoto della politica”. Che sembrava anche un Pansa da terzo millennio ai cancelli delle Carrozzerie. Mettetevi se no nei panni di Michele Serra, sui cui sentimenti a favore dei ragazzi di Teheran e dell’islam moderato certamente non ci piove e che però, al momento di dondolarsi nell’amaca, se n’è scordato come un Fortebraccio dal braccino corto. Niente di grave, semplicemente non ci avrà pensato. Proprio volendo, potreste anche mettervi nei panni di Paolo Hutter, il sempre giovanile quasi-sessantenne di Milano che potrà pure affacciarsi sulla scena un nuovo Hitler, ma lui sempre Pinochet sta scrutando, lo scruta da 33 anni, e potete giocarvi la testa che lo scruterà per altri 33. Si tratta di tre signori insospettabili e per bene, intendiamoci, e io infatti non riesco a capire come non sia venuto loro d’istinto, loro che adorano sempre il movimento, di spendere una parola sui ragazzi di Teheran. Per questo chiedevo a voi di mettervi nei loro panni. Dopo di che, nel caso, potete sempre darvi una lavatina.
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