Nell'articolo pubblicato a pagina 2 del MANIFESTO del 13 dicembre 2006, Ali Rashid accusa i "più zelanti dell'entourage di Abu Mazen" dell'assassinio dei tre bambini a Gaza.
Tesi quanto meno soprendente, dato che l'obiettivo politico dell'azione era un uomo di Abu Mazen.
L'articolo di Rashid, a partire da questa tesi, è interessante perché dice qualcosa sulla collocazione politica del deputato di Rifondazione Comunista, che si presenta come un moderato, nella politica palestinese.
E' evidente che Rashid è più vicino ad Hamas che ad Abu Mazen.
E' anche evidente che cosa pensi del terrorismo: la "resa totale" che a suo dire Israele vorebbe dal "popolo palestinese" non è altro, in realtà che la fine del terrore.
E Rashid non vuole che i palestinesi si "arrendano".
Ecco il testo:
La visita del primo ministro palestinese Ismail Haniyeh a Teheran ha coinciso con la risoluzione del Congresso Usa che, spinto da Israele, vieta al governo americano ogni contatto con il governo palestinese guidato da Hamas; e con la raccomandazione della maggioranza dell'esecutivo dell'Olp ad indire nuove elezioni politiche e presidenziali. Il primo fatto è un invito a governi e forze «sensibili» in Medio Oriente, e non solo, a sbarrare la strada ad Hamas. Il secondo è una forzatura conseguente, che azzera i risultati ottenuti nella creazione di un governo di unità nazionale e minaccia l'unità del popolo palestinese, trasformando il conflitto dovuto all'occupazione israeliana in uno sciagurato conflitto interno. Il fallito attentato contro il ministro degli interni del governo Hamas e l'uccisione dei tre bambini a Gaza vanno letti in quest'ottica e autorizzano a pensare che i più zelanti nell'entourage di Abu Mazen, gli stessi che da sempre ostacolano il dialogo inter-palestinese e da tempo ricevono soldi e armi da Stati Uniti e Israele, abbiano raccolto le indicazioni americane e siano responsabili di questi atti, forse i primi di una saga la cui conseguenza logica sarà trascinare i palestinesi verso una guerra civile che solo un grande senso di responsabilità, da parte di Hamas e di Abu Mazen, potrà impedire. E le dichiarazioni di Haniyeh a Teheran insistono in realtà su cose già note, come il reciproco non riconoscimento da parte di Hamas e di Israele. Haniyeh ha però ribadito che l'obiettivo del suo governo rimane la creazione di uno stato palestinese sui territori occupati dopo la guerra del '67, compresa Gerusalemme, e la soluzione del problema dei profughi. Questione dei profughi e costante pulizia etnica, colonie ebraiche, muro di separazione e annessione: ecco l'essenza stessa del conflitto e della tragedia palestinese, delineando nel contempo la natura e il ruolo di Israele nella regione - come ha ben spiegato Danilo Zolo. La tappa iraniana di Haniyeh si inserisce nella sfida decisiva per il futuro del Medio Oriente: il rapporto tra le due anime dell'Islam, diviso tra sunniti e sciiti. Questa divisione assume sempre più importanza nella strategia americana, che utilizza i sunniti come surrogato del proprio esercito in chiave anti-sciita e anti-iraniana, fatto evidente in questo momento in Libano. In questo contesto, Hamas e Hezbollah rappresentano le punte più avanzate per l'intero Islam contro il dominio americano, l'occupazione e l'arroganza israeliana. Il fallimento americano in Iraq e gli spaventosi effetti dell'occupazione e della guerra civile su base confessionale, trasformano le due forze in risposta a esigenze diffuse, aumentandone prestigio e rappresentanza. Il fallimento del processo di pace dopo l'accordo di Oslo, la morte «misteriosa» di Arafat e la demolizione dell'Anp, in sintonia con l'insensata e feroce aggressione israeliana che mira alla resa totale del popolo palestinese nel silenzio complice della comunità internazionale e del mondo arabo, offrono alle due forze consensi inaspettati che superano i confini nazionali e abbracciano l'intero Islam. È un fenomeno nuovo, sottovalutato. L'esperienza di governo di Hamas non va interrotta con i colpi di stato, né si deve impedire ad Hamas di governare, perché la sfida più importante da vincere è indurre un movimento politico di matrice islamica ad accettare il sistema democratico e il principio di rappresentanza parlamentare; e non spingere queste forze ad abbracciare il modello iraniano di partito islamico unico, fino poi a trasformare le residue forze laiche in regimi antidemocratici al servizio del dominio americano e dell'egemonia israeliana. Il braccio di forza in corso in Palestina e Libano vede coinvolte potenze regionali e internazionali, ma a difendere la democrazia e lo stato di diritto, per la sovranità e contro la corruzione, a trovarsi in prima fila sono Hezbollah e l'insieme composito per tendenza politica e provenienza dei suoi alleati. Rimane il punto fisso della fine dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi e di una soluzione politica del conflitto basata non su presunte «concessioni» di Israele ma sul diritto internazionale. La comunità internazionale deve avere coraggio e un ruolo costruttivo e onesto, lontano dalla leggerezza del passato. Al premier israeliano Ehud Olmert oggi a Roma, il nostro governo deve dire con parole chiare che la salvaguardia dei diritti inalienabili del popolo palestinese è l'unica garanzia per la sicurezza di Israele e per il suo inserimento a pieno titolo in Medio Oriente, obiettivi incompatibili con gli strumenti di aggressione e destabilizzazione permanente che oggi ipotizzano un futuro desolante per la regione.
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