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Europa Rassegna Stampa
13.12.2006 Trattiamo con Ahmadinejad ( che non è un dittatore)
e ignoriamo i suoi oppositori, che sono pagati dall'America: consigli di politica internazionale sul quotidiano della Margherita

Testata: Europa
Data: 13 dicembre 2006
Pagina: 3
Autore: Stefano Baldolini - Janiki Cingoli
Titolo: ««Errore definirla dittatura, i giovani cambieranno l’Iran» - La nuova sfida di Olmert»

Ahmadinejad non è un dittatore, gli studenti che lo contestano sono probabilmente pagati dagli Stati Uniti, contestare il nucleare  iraniano rafforza paradossalmente il regime. 

Sono le sconcertanti tesi dell'antropologo William O. Beeman, intervistato con grande risalto dal EUROPA del 12 dicembre 2006.

La prima è una manipolazione: Ahmadinejad è un dittatore perché è l'esponente di un regime totalitario, non importa se la costituzione di questo regime gli assegni o meno il potere assoluto (che è di fatto della Guida suprema, Khamenei)

La seconda riecheggia le accuse del regime, ed'è irrilevante. Se l'Occidente sostiene i dissidenti iraniani, che ci sono comunque, fa solo il suo dovere.

La terza è una barzelletta: pensare che chi affronta il rischio della morte e delle torrture per sfidare un regime ormai intollerabile sia spinto a sostenere quello stesso regime in difesa del proprio diritto nazionale alle centrali nucleari è del tutto implausibile.

Piuttosto, occorrebbe spiegare con chiarezza agli iraniani tecnologie nucleari in un Iran democratico, liberale e pacifico non sarebbero un problema per l'Occidente. 

Ecco il testo:

Tende a minimizzare, William O.
Beeman, professore di antropologia alla Brown University ed esperto di cose iraniane (è autore di The “Great Satan” vs the “Mad Mullahs”: How the United States and Iran Demonize Each Other). Le proteste degli studenti d’ingegneria non sono un fatto storico e allo stesso tempo Mahmoud Ahmedinejad non può essere considerato un dittatore. In un certo senso entrambe le parti sono espressione del passato: la vera rivoluzione partirà tra qualche anno quando voterà la generazione che non ha conosciuto Khomeini.
Partirei dalla contestazione degli studenti. Per alcuni un evento storico, la prima contro Ahmedinejad, per altri non una novità in senso assoluto.
Sono d’accordo con questi ultimi.
Già nei mesi scorsi ci sono state sporadiche proteste degli studenti. E quest’ultima non era neanche così partecipata, i reporter parlano di non più di sessanta studenti. Inoltre va detto che sono trent’anni che gli studenti protestano, lo hanno fatto anche contro il riformista Mohammad Khatami, e sui temi più disparati.
Insomma, le proteste studentesche in Iran sono una lunga tradizione contro le istituzioni. Il punto è capire chi c’è dietro, di volta in volta. Quanto siano spontanee. Dal mio punto di vista posso dire che quando trattano di temi di politica estera in genere sono manovrate da gruppi esterni al paese.
Il passaggio chiave è capire chi fornisce le notizie alla stampa. Uno di questi gruppi è la Mujahedin-e Khalq Organization (Mko), sostenuta clandestinamente da elementi del governo degli Stati Uniti, con la missione di far cadere la repubblica islamica di Teheran. Si tratta di un gruppo molto sospetto e controverso.
Il presidente Ahmedinejad ha comunque reagito con serenità. Ha usato la protesta per dimostrare al mondo che non è un dittatore. Insomma quanti tiranni potrebbero permettersi dei contestatori...
Effettivamente, guardando alla costituzione iraniana, Ahmedinejad non può essere un dittatore. Non ha il controllo delle forze militari. Non ha il controllo della politica estera che invece è in mano ai religiosi. E se c’è un controllo della società iraniana non può essere ad opera di Ahmedinejad.
Le voglio raccontare un anedotto. Quando l’ex presidente Khatami il mese scorso è venuto negli Stati Uniti sono stato a cena con lui. Ahmedinejad aveva appena lanciato la richiesta per la rimozione di un professore dell’università di Teheran che non era molto gradito ai religiosi.
Dopo cena sono tornato sul punto e Khatami mi ha risposto seccamente: «Non può farlo». Ho insistito: «Come non può farlo? È il presidente!», e lui: «Lo so, sono stato presidente anch’io! So cosa può fare o no. E non può farlo!». Insomma, Ahmedinejad ha il diritto di parlare in pubblico di qualsiasi cosa, ma l’idea che lui stesso sia un dittatore o il capo di una dittatura non è “strutturalmente” possibile nel governo dell’Iran. Quello che potrebbe accadere, però, è che nell’Assemblea degli esperti vengano eletti rappresentanti religiosi addirittura più conservatori dello stesso Al Khameini.
Ma è comunque paradossale che durante un discorso contestuale ad elezioni, degli studenti parlino di dittatura.
Lei è antropologo e ha scritto molto sul linguaggio persiano e iraniano.
Ecco, che lingua parla Ahmedinejad? È un prodotto della cultura iraniana o di un mondo globale?

Oh, è un prodotto decisamente molto iraniano. È un populista. E la sua retorica è estremamente interessante.
Ha un dottorato in ingegneria civile, può essere considerato quasi un professore. È dunque un uomo molto intelligente.
E quando parla usa un vocabolario da persona molto ben educata, ma allo stesso tempo uno stile estremamente comune e popolare. La cosa interessante è che anche il presidente Bush usa lo stesso stile nei suoi discorsi pubblici. Non parla alle elites, ma sempre alla sua base, al suo elettorato.
A proposito di Bush, nel 2003, in un articolo molto divertente citava il suo barbiere di San José, Phil, come espressione della pancia del paese. Phil era stato prima un fan accanito, poi dopo la guerra in Iraq, spietato critico dell’amministrazione Usa. Oggi che dice Phil? E i barbieri dei suoi amici iraniani?
Phil non è rimasto molto contento della notorietà (ride, nda). E il popolo iraniano, va ricordato, non è molto contento del governo in genere, qualsiasi esso sia. Quello su cui gli iraniani sembrano concordare è lo sviluppo del programma di energia nucleare.
Vorrei far notare che, come in passato, anche l’altro giorno gli studenti non hanno protestato contro il nucleare. Al nucleare è legata la speranza di modernizzazione del paese.
Quindi, paradosso per paradosso, chi in occidente critica il programma nucleare iraniano finisce per indebolire gli oppositori al governo attuale.
Che non è riuscito a imporre un’agenda sui temi domestici, ma neanche a scalfire l’esito degli anni di riforme, gli aspetti più liberali della società iraniana, i comportamenti pubblici.
Inoltre la cosa più importante è che nei prossimi cinque anni la maggioranza dei votanti sarà costituita dalle generazioni che non hanno conosciuto la rivoluzione di Khomeini.
Questo sarà il vero cambiamento.

Un nuovo Medio Oriente, nel quale si tratta con l'Iran, la Siria e Hamas è delineato nell'articolo di Janiki Cingoli La nuova sfida di Olmert, carico di illusioni. Cingoli nemmeno si chiede se Iran Siria e Hamas non possano volere per davevro quel che dicono di volere: ovvero la distruzione di Israele e non la coesistenza, la guerra e non la pace.
Dovrebbe farlo, pretendendo di essere un'analista e non un propagandista del governo Prodi
 

Le ripetute dichiarazioni di Olmert contengono molti accenti nuovi, misti a posizioni più tradizionali, ancorate al passato. Il rilancio della proposta negoziale conferma l’abbandono del vecchio approccio, che prevedeva l’estensione del ritiro unilaterale da larga parte della Cisgiordania, dopo quello da Gaza. Il conflitto libanese, e la continuazione degli attacchi da Gaza, hanno fatto crollare i presupposti di quell’impostazione, dimostrando che essa non era in grado di assicurare pace e sicurezza.
D’altronde, quel fallimento va inquadrato nella più generale crisi dell’unilateralismo, come concepito dal Governo Bush, e affossato nel pantano iracheno.
Il premier israeliano non poteva a lungo adagiarsi nello status quo, perché non sono venute meno le ragioni demografiche e di sicurezza che indussero Sharon ad avanzare il suo piano di ritiro, nel 2003.
La proposta di Olmert, avanzata nella sua forma più articolata nel suo recente discorso in memoria di Ben Gurion, si rivolge a qualsiasi governo palestinese che rispetti i principi del Quartetto, metta in atto la road map e porti al rilascio di Gilad Shalit. A queste condizioni, egli si impegna a incontrare Abu Mazen, per avviare un serio e genuino negoziato, che potrà giungere alla creazione di uno stato palestinese indipendente e vitale, con continuità territoriale in Cisgiordania e Gaza, con piena sovranità e confini definiti. In questo quadro, viene ribadita la disponibilità ad evacuare molti degli insediamenti precedentemente stabiliti nei territori palestinesi.
Viene anche ribadito l’impegno a liberare, dopo il rilascio di Shalit, un alto numero di prigionieri anche condannati a lunghe pene.
Vi sono poi una serie di atti intermedi per costruire la fiducia, quali la diminuzione dei blocchi stradali all’interno dei territori palestinesi, l’ampliamento degli accessi al valico con Gaza, per facilitare la libertà di movimento di uomini e merci, il rilascio delle tasse doganali palestinesi finora bloccate, e in prospettiva la creazione di zone industriali al confine per risolvere il problema occupazionale.
I palestinesi, per parte loro dovranno fermare la violenza e il terrorismo, riconoscere il diritto israeliano a vivere in pace e in sicurezza e rinunciare al diritto al ritorno.
In questa posizione vi sono, accanto a rinnovate aperture, chiusure che assumono il sapore di uno sbarramento pregiudiziale, quale la rinuncia al diritto al ritorno. È evidente che tale diritto non verrà realizzato, ma si possono trovare modalità pratiche di soluzione, come quelle avanzate dagli israeliani a Taba nel 2000, che diano un segnale di disponibilità a collaborare alla soluzione del problema, e non ledano la dignità dei palestinesi provocandone le reazioni ideologiche.
Così dicasi per il richiamo alle tre condizioni del Quartetto (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento dei trattati pregressi), che rendono impraticabile la costruzione di qualsiasi governo di unità nazionale che includa Hamas.
In questo quadro, lo stesso incontro con Abu Mazen, sempre annunciato e sempre rinviato, si perde in un limbo indefinito, contribuendo ad indebolire sempre più il presidente palestinese. D’altronde, di fatto gli israeliani trattano con Hamas da mesi, con la mediazione egiziana, sia sui prigionieri, sia sulla tregua, sia sullo stesso governo di unità nazionale e sul possibile rientro in Palestina di Meshall.
Nelle posizioni di Olmert è d’altronde rilevante la nuova attenzione portata al piano arabo di pace del 2002 di cui, anche se non viene accettato in toto, viene sottolineata la disponibilità espressa all’unanimità da tutti gli stati arabi al riconoscimento di Israele, qualora questo accetti la creazione di uno stato palestinese. Un modello che potrebbe essere valido anche per il governo palestinese, superando il capestro delle condizioni del Quartetto.
Qualche considerazione, infine, sul quadro regionale, e sui possibili contatti con Siria e Iran. Su questo, il premier israeliano, che pure ha le sue buone ragioni per diffidare di Ahmadinejad e dei suoi revival antisemitici, ed in sostanza preferisce il mantenimento del Golan alla pace con la Siria, appare ancorato ad un quadro regionale che non esiste più, e al cui superamento il rapporto Baker ha posto l’ultimo suggello.
Il quadro nuovo, che viene emergendo, e a cui la crisi libanese ha impresso un’accelerazione determinante, pone allo stato ebraico nuove sfide, a cui esso è ancora sostanzialmente impreparato.
La nuova sfida di Olmert

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