La rivoluzione negazionista la sfida del regime iraniano
Testata: Il Foglio Data: 13 dicembre 2006 Pagina: 3 Autore: Giulio Meotti - Vittorio Emanuele Parsi - Tatiana Boutorline Titolo: «Lo scrittore olandese De Winter contro gli»
Dal FOGLIO del 13 dicembre 2006, un colloqui con Leon De Winter di Giulio Meotti:
La mia è una delle tante storie ebraiche di scomparsa, distruzione e sofferenza”. La famiglia dello scrittore Leon De Winter era destinata, come altri 140 mila ebrei olandesi, a diventare “luftmenschen”, creature dell’aria da passare per il camino. “Le famiglie di mio padre e mia madre sono state incenerite nelle camere a gas – racconta al Foglio De Winter – Sono stati bruciati tutti nel campo di sterminio di Sobibor, nessuno si è salvato. I miei genitori ne sono usciti per miracolo, protetti da un gruppo della Resistenza e da alcune suore e preti. I miei nonni, zii, cugini e cugine furono gassati o fucilati nelle città polacche”. E’ da questa ferita sempre aperta che De Winter si affaccia sul baratro del negazionismo iraniano, la conferenza di Teheran sul “mito dell’Olocausto” e la compiacenza degli “utili idioti” che, come negli anni Quaranta, secondo De Winter restano alla finestra, mentre per strada sfilano i carri bestiame. “L’origine dell’Olocausto viene fatta risalire alla Prima guerra mondiale e alla crisi economica tedesca. Ma c’è sempre qualcos’altro che sfugge agli storici: la gioia di odiare l’ebreo, la soddisfazione per la capacità di ucciderlo. Gli ebrei sanno che lo sterminio di massa è sempre possibile, il concetto di nemico è parte della loro storia, memoria collettiva, identità. Io sono cresciuto con la paura del nemico”. Lo schianto dell’11 settembre lo ha portato a rivivere il fremito che dovettero sopportare i suoi nonni, prima di diventare cenere nella cloaca del lager: “Vivere con la consapevolezza di essere odiati da uomini che li consideravano nemici. Per l’islamista la nostra sola esistenza è fonte di odio. Per gli ebrei la guerra fu una inquantificabile distruzione di vita umana e di talenti. Ma se c’è una lezione che possiamo trarre da Sobibor è che non abbiamo scelta: dobbiamo batterci contro il male, come fece Winston Churchill. Se vedi qualcosa che cammina come un cane e abbaia come un cane, concludi che si tratta di un cane. Oggi osserviamo fascisti islamici che parlano da fascisti islamici e si comportano come tali: con il male non scendi mai a compromessi”. Secondo Emil Fackenheim, Auschwitz ha aggiunto l’undicesimo comandamento: sopravvivere. I pasdaran iraniani stanno usando l’Olocausto a più livelli. “Ahmadinejad spera di compattare sunniti e sciiti nell’odio verso gli ebrei: odiamo loro più di quanto odiamo noi stessi. La nuova leadership del mondo islamico ha bisogno di un nemico comune, che dall’inizio della storia dell’islam è stato individuato negli ebrei. Il giudaismo, non la cristianità, è considerata una congiura: gli ebrei avrebbero manipolato il messaggio originale dei profeti islamici, come Abramo e Mosè”. Per De Winter l’antisemitismo è la più antica tradizione del complotto, “una cospirazione”. “Gli ebrei sarebbero in grado di manipolare il mondo, gli ebrei superiori, gli ebrei dietro l’11 settembre. Se l’islam è la religione perfetta e superiore, perché noi musulmani non siamo intelligenti, ricchi e affascinanti come gli ebrei? Perché gli ebrei sono in grado di manipolare il mondo! E’ propaganda geniale: non parliamo di soppressione femminile, libertà di parola, arretratezza economica e scientifica, è colpa degli ebrei. Ahmadinejad è un moderno predatore persiano con una missione. L’islamismo è guidato dal fuoco religioso di una visione in cui tutto il globo terrestre dovrà passare sotto lo stendardo della legge islamica. E sta guadagnando terreno: Sudan, Somalia e Gaza”. Come Israele ha sperimentato in Libano, la superiorità militare non è garanzia di successo. “E’ l’ideologia e la teologia islamista che deve essere affrontata, le idee dell’inevitabile vittoria ed egemonia dell’islam. Il nazismo era guidato da una gioia di massacrare e arrecare dolore agli ebrei, come oggi fa l’islamismo. Mi chiedo se i musulmani moderati siano in grado di fermarlo. Ma nutro poche speranze”. La vittimologia del colonialismo rinsalda l’alleanza fra sinistra neomarxista e islamismo. “Israele è visto come l’ultimo degli stati americani. A Teheran partecipano anche ebrei, le stesse dodici famiglie di rabbini che odiano Israele, ma anche uno studioso come Norman Finkelstein, uomo intelligente ma disturbato. Noi non uccidiamo i nostri ebrei pazzi. Li prendiamo per i fondelli, Finkelstein è come l’ebreo di Joseph Goebbels. Ma sono adorati dalla sinistra antisionista”. Lo storico Walter Laqueur fa notare che Hitler ha dato una pessima reputazione all’antisemitismo. “Non si può essere antisemiti dopo il 1945 – spiega De Winter – Si fanno chiamare antisionisti. Ma parliamo della stessa cosa. Così come l’antiamericanismo è una forma di antisemitismo. C’è qualcosa di sconfortante nel mettere in prigione David Irving senza condannare il negazionismo iraniano”. Durante la guerra intere comunità di ebrei dell’Est non sentirono spirare il vento della morte. “Non hanno saputo concepire l’inconcepibile, riconoscere il male. Sono finiti sui treni della morte. Gli ebrei oggi si sentono esposti e insicuri, attaccati dai media e dalle élite. Nel contempo non vogliono vedere il pericolo islamista. E poi c’è qualcosa di noioso nel parlare di antisemitismo, troppi libri, troppi film, troppe conferenze”. Quando il musicista Mikis Theodorakis definisce il popolo ebraico “la radice del male”, non lo fa per ignoranza dell’Olocausto. Così come le immagini di cataste umane ad Auschwitz non hanno impedito a Josè Saramago di paragonarlo a Ramallah. Dalla piccola città di Bloemendaal, De Winter lancia uno sguardo al magico deserto del Negev. “Se gli ebrei non si fossero difesi nel 1948 sarebbero stati massacrati come era successo agli ebrei europei pochi anni prima. Un pugno di ebrei – persone che secondo l’interpretazione musulmana hanno rifiutato il messaggio di Maometto – è riuscito nel 1948 a tener testa agli eserciti di un numero consistente di paesi arabi. Gli effetti dello choc causato dall’infamante sconfitta inflitta dagli ebrei si fanno tutt’ora sentire. I ‘martiri’ islamici non combattono per Jenin e Gerico, ma per Giaffa e Gerusalemme. Israele è la soluzione ebraica, gli ebrei di tutto il mondo possono trovarvi rifugio. E’ la ragion d’essere del sionismo. Sento intimamente la possibilità di emigrare, ho bisogno di sapere che da qualche parte c’è un posto chiamato Israele. Poi mi chiedo anche cosa sarebbe la vita ebraica oggi se non esistessero gli Stati Uniti”.
Di seguito, un articolo di Vittorio Emanuele Parsi:
Siete disposti a combattere per la pace?”. Questa è stata la domanda con la quale il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha replicato all’offerta avanzata da Romano Prodi di inviare truppe italiane ed europee non soltanto al confine israelo-libanese, ma anche a quello tra Gaza e lo stato ebraico. E’ un quesito semplice e diretto che smaschera i tanti virtuosismi verbali che han cercato di costruire un riparo di parole ai quasi tremila soldati italiani inquadrati nell’Unifil, mentre la situazione sia in Libano sia a Gaza sembra peggiorare rapidamente. Il premier palestinese, in visita a Teheran, ha ribadito come Hamas la Repubblica islamica dell’Iran siano membri di un’alleanza strategica che ha per obiettivo la “liberazione della Palestina dall’entità sionista”. E il presidente iraniano Ahmadinejad ha inaugurato lunedì una due giorni internazionale il cui solo scopo è quello di “relativizzare” (cioè minimizzare e, nella sostanza, negare) la realtà dell’Olocausto. Su questo sfondo, nel frattempo, si fa un gran parlare della necessità di coinvolgere la Siria e soprattutto l’Iran in una sorta di “grande conferenza regionale”, per la risistemazione complessiva dell’intero medio oriente, a partire, evidentemente, dai dossier più caldi e disatrosi: Iraq, Libano e, immediatamente dopo, Palestina. A tale scopo si alternano i toni del candore più naïf del pacifismo marciaiolo con quelli di un cinismo realpoliticker, che farebbe apparire l’accoppiata Metternich-Kissinger come ingenue dame di carità. Persino la Commissione Baker ha insistito sull’opportunità di un coinvolgimento di Damasco e Teheran, in nome del principio (sacrosanto) che è stolto non parlare con i nemici. Già. Parlare. Ma per dir che cosa? E soprattutto: si può parlare anche con Belzebù, a condizione di avere ben chiaro con chi si ha a che fare e quali possono essere i nemici comuni alle democrazie occidentali, alla dittatura di Assad e alla teocrazia iraniana, sempre che esistano. A chi storce il naso per le ricorrenti ossessioni antisemite che agitano la leadership iraniana, viene spesso replicato, quasi con sufficienza, che si tratta di discorsi a uso interno, cui dei navigati osservatori non dovrebbero dar troppo conto. Lasciateci dire che lasciamo volentieri ai “soliti smaliziati” tutta questa furbizia. Noi vorremmo soltanto sottolineare che a Teheran hanno ben chiaro che il solo, vero, robusto collante dell’estremismo in medio oriente, il denominatore comune a sciiti e sunniti, arabi e non, fanatici religiosi e bombaroli baathisti è l’odio per Israele. E il regime teocratico ha deciso scientemente di utilizzare questo strumento fino in fondo, con la consueta spregiudicatezza. Teheran sa perfettamente che soltanto indicando come nemico chi è clamorosamente “altro” rispetto ai vicini (in termini, religiosi, politici e sociali) può sperare di stemperare la diversità iraniana. E così consentire all’Iran di giocare la propria partita per l’egemonia regionale. Ahmadinejad sì che sa indicare in maniera chiara e convincente quale sia il “nemico comune”, che rende plausibile quell’alleanza “empia” tra sciiti e sunniti che i “puristi” del jihad (come al Qaida) respingono con orrore. E infatti Teheran e i suoi alleati e accoliti sono in netto vantaggio nella loro offensiva regionale: non solo e non tanto sull’occidente e sui regimi che ne cercano la protezione, ma persino sulle formazioni dell’estremismo sunnita che non ne accettano la leadership (come invece ha fatto Hamas). Ecco a che finalità risponde il continuare ad alimentare l’odio per Israele (che, sia detto apertamente, “ci mette del suo” per attirarselo, con errori politici incredibili). Proponedosi a campione dell’intransigente antisionismo, Teheran cerca un dialogo diretto e insieme pompato mediaticamente (grazie alla compiacente al Jazeera) con le masse popolari del mondo arabo, scavalcando i loro timorosi governanti, costringendoli magari a inseguire la “lepre iraniana” nella direzione dell’estremismo anti israeliano più violento e sfuggendo da quelle paludi della disputa parateologica e dottrinaria nelle quali si sono invece incagliati Osama bin Laden e i suoi epigoni. Questo è il motivo per cui l’ostilità verso Israele esibita con veemenza dal regime degli ayatollah non è né un fatto contingente né puro folklore a uso interno: essa rappresenta invece un asset strutturale della politica estera iraniana, capace di alimentare un furore ideologico che trascende persiani e sciiti, ma che Teheran considera giustamente una risorsa fondamentale della propria politica estera, esattamente quanto lo è la risorsa energetica: entrambe al servizio delle mire egemoniche iraniane sul medio oriente. Chi vuole farlo, tratti pure con chiunque, ma si ponga almeno la realistica domanda se assecondare i disegni di coloro che non smetteranno mai di desiderare la distruzione di Israele va nella direzione della pace o in quella di una guerra ancora più devastante.
Di seguito, un articolo di Tatiana Boutorline sull'opposizione studentesca in Iran:
Roma. All’indomani dal plateale affronto a favor di telecamera contro Mahmoud Ahmadinejad, mentre i picchiatori danno la caccia ai “mercenari americani”, l’euforia non è ancora stata congelata dalla paura e gli studenti ribelli di blog in blog non fanno che chiedersi che cosa scriveranno i giornali stranieri. Perché se il presidente pasdaran è diventato un maestro nell’arte della provocazione, anche i figli della rivoluzione hanno imparato la lezione. “Troppi gesti coraggiosi restano sconosciuti – racconta uno degli ispiratori della sfida degli studenti al Politecnico Amir Kabir – questa non è certo la prima contestazione, ma i giornalisti stranieri non viaggiano nelle province, allora ci siamo detti: dobbiamo scendere sul suo terreno, sfruttare le luci della ribalta offerta dalla conferenza sull’Olocausto per dire c’è un Iran che si vergogna di Ahmadinejad e del suo antisemitismo, c’è un Iran che non si rassegna all’oppressione e all’oscurantismo”. Il 6 dicembre alla vigilia della “giornata dello studente” annullata lo scorso anno, ufficialmente a causa dell’inquinamento, è andata in scena un’altra manifestazione. Agenti in borghese e bassiji presidiavano i cancelli, a Teheran le porte sono state sbarrate per evitare la fuga dei dimostranti. Anche quest’anno le autorità hanno negato il permesso di commemorare la giornata, ma la maggiore organizzazione studentesca Daftar-e-Tahkim Vahdat (Dtv), spalleggiata da altri gruppi minori, ha lanciato l’iniziativa “L’università è viva”. A mezzogiorno nei principali atenei migliaia di studenti hanno innalzato cartelli per la liberazione del capo del sindacato dei conducenti d’autobus, Mansour Ossanlu, e di altri dissidenti. A Teheran, numerosi passanti sono stati fermati e arrestati per non aver fornito “spiegazioni convincenti sul motivo dei loro spostamenti”. All’interno del campus i ragazzi gridavano “vogliamo la libertà”, “non abbiamo altro da perdere se non le nostre catene”. A quel punto i cancelli sono stati sbarrati per evitare la fuga dei dimostranti, ma i leader del Dtv hanno tenuto i loro discorsi. Said Habibi, già capo dell’organizzazione, ha arringato i presenti appassionato: “Questi non sono giorni da consegnare al silenzio. Questi non sono giorni per amene conversazioni intorno al fuoco. Questi sono i giorni in cui dobbiamo gridare forte per il bene della nostra nazione”. Quando lunedì Ahmadinejad ha varcato i cancelli del Politecnico Amir Kabir, l’impressione dei picchiatori di professione era che con quell’exploit gli studenti avessero esaurito le energie. Il movimento studentesco è stato infiltrato dai servizi di sicurezza che non hanno lanciato alcun allarme rosso. “Abbiamo deciso in pochi – spiega uno degli organizzatori – poi ci siamo affidati al passaparola”. E così il presidente, nel giorno della sinistra e trionfante conferenza sull’Olocausto, è stato sbeffeggiato dai membri della sua ex organizzazione. Anche Ahmadinejad ha fatto parte del Dtv. Anche Ahmadinejad come molti allievi dell’Amir Kabir ha studiato ingegneria. Anche il presidente, nel ’79, gridava slogan contro l’oppressione. Oggi invece l’oppressore è lui. Dall’inizio del suo mandato ha minacciato professori e fatto cacciare studenti, promesso di far seppellire nei campus “i martiri della guerra”, innalzato nell’olimpo accademico il sanguinario ayatollah Amid Zanjani. “Coloro che si oppongono ai valori ispirati dal sangue dei martiri saranno annoverati tra le spie e trattati di conseguenza”, ha avvertito Zanjani pronto a fare tutta la sua parte per fermare il laicismo, “malattia perversa dell’occidente”. I ragazzi denunciano l’avvento di una seconda rivoluzione culturale. Un anno fa hanno attaccato Zanjani durante la sua cerimonia di insediamento e qualcuno tra la folla gli ha sfilato il turbante gridando “Akhund (termine dispregiativo per mullah, ndr) maledetto”. A maggio e poi ancora a giugno si sono mobilitati con un sit in e una manifestazione per difendere i professori forzatamente pensionati. Zanjani ha intimato: “La pensione è una piccola morte”. Nessun accademico purgato potrà mettere piede nell’Università di Teheran. Il 31 luglio – dopo nove giorni di sciopero della fame – è morto nella prigione di Evin Akbar Mohammadi, leader studentesco arrestato come istigatore delle proteste del ’99. Voleva la separazione della religione dallo stato. Prima di morire ha raccontato le torture subite. “Per ogni mese dell’anno c’è un caduto della nostra battaglia – spiega uno dei ribelli dell’Amir Kabir – Oggi anch’io sono in fuga. La morte è una possibilità. Siamo tutti morti che camminano”. Ma quelli che il regime chiama “mercenari americani” stanno cambiando pelle. La Dtv è divisa in un’ala più radicale e una attendista. La sconfitta del pallido riformismo di Khatami ha distrutto molte vite e spaccato il movimento. Secondo Abbas Hakim Zadeh, uno dei leader della Dtv, il 90 per cento degli appartenenti all’organizzazione non crede più in una transizione graduale del regime e appoggia invece forme di resistenza non violenta. Sono passati i giorni in cui gli studenti iraniani promuovevano entusiasti l’ipotesi di colloqui diretti con gli Stati Uniti. Di questi tempi prevalgono i distinguo. “Se il negoziato offrirà garanzie sulla sicurezza del regime come contropartita di concessioni sul nucleare non potremo accettarlo”. Per i vertici dell’organizzazione il dialogo tra Teheran e Washington, ma anche tra Teheran e la comunità internazionale più in generale, “deve fondarsi su richieste specifiche in tema di diritti umani e democratizzazione. Con questo obiettivo in mente stiamo cercando di formare un cartello per i diritti che includa i gruppi femminili e le organizzazioni dei lavoratori. “Noi non ci arrendiamo, ma siamo assediati e abbiamo bisogno del sostegno della comunità internazionale”. Sempre che la telecamera occidentale non cambi ancora una volta inquadratura.
Dalla prima pagina, una breve notizia:
AHMADINEJAD: “ISRAELE SPARIRA’ PRESTO”. LA CRITICA DEL VATICANO. Il presidente iraniano ha detto che “la parabola del regime sionista è in fase discendente” e che “presto scomparirà come è accaduto all’Urss”. Il convegno negazionista sulla Shoah, concluso con la creazione di una commissione d’inchiesta presieduta da un collaboratore di Ahmadinejad, è stata criticata dal Vaticano: “La Shoah è stata un’immane tragedia di fronte alla quale non si può restare indifferenti. Il ricordo di quei fatti deve rimanere un monito per le coscienze”. “Un insulto all’intero mondo civilizzato”, secondo la Casa Bianca. Il premier inglese Blair ha parlato di iniziativa “scioccante”. “Non accetteremo mai cose del genere”, ha spiegato il cancelliere tedesco Merkel. Per il ministro degli Esteri D’Alema: “E’ un fatto inqualificabile”.
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