Da La REPUBBLICA del 12 dicembre 2006, un'intervista al premier israeliano Ehud Olmert (cliccare sull'immagine a fianco per leggere il titolo e il sottotitolo):
Ehud Olmert s´è messo ieri in viaggio per l´Europa, per una serie di incontri a Berlino, Roma e in Vaticano. Forse mai come adesso l´agenda di un premier israeliano è stata così densa, come dimostra la quantità di temi affrontati nel corso dell´intervista, svoltasi nel suo ufficio. E in cui Olmert fissa alcuni paletti molto netti: come quando esclude un negoziato con la Siria «se non cessa il loro sostegno al terrorismo», mentre dichiara di non «avere bisogno dell´incoraggiamento di nessuno» per rilanciare il dialogo con i palestinesi. Verso l´Iran di Ahmadinejad, invece, s´è mostrato durissimo: «Bisogna fermarlo». E in serata, appena sbarcato in Germania, ha annunciato che chiederà all´Europa di imporre sanzioni economiche contro Teheran se continuerà nel suo programma nucleare.
Signor Primo ministro, lei domani vedrà il presidente del Consiglio Romano Prodi. Il nuovo governo italiano ha cercato in questi mesi di allargare il suo impegno in Medio Oriente. Quali sono le differenze più marcate con le vostre politiche?
«Non so quali siano, può darsi che non ce ne siano neppure; vado a Roma per capire quali sono queste differenze. Ma una cosa è chiara: io ho molto rispetto per le preoccupazioni sincere che Romano Prodi ha per Israele. Ci conosciamo da tempo, ci incontravamo e parlavamo spesso quando Romano era presidente della Commissione Europea. Io credo che lui abbia davvero a cuore la situazione d´Israele, del Medio Oriente».
Come vede la possibilità di schierare una forza militare internazionale a Gaza?
«Guardate, io sinceramente credo che questa non sia ancora una proposta ben congegnata. È popolare dirlo: c´è una forza militare a nord, al confine con il Libano, quindi... Ma lì le cose sono differenti. A nord c´è solo Hezbollah, e Hezbollah non farà nulla per sfidare la forza internazionale nel sud del Libano, che quindi può agire in relativa sicurezza. Gaza è un campo di battaglia molto diverso: ci sono 20 organizzazioni differenti, non c´è un´autorità centrale, non c´è un controllo unico, non c´è disciplina. Dopo un giorno o due dall´arrivo della forza internazionale ci sarebbero scontri violenti. È questo quello che l´Italia vuole? Io credo che l´idea di una forza internazionale sia prematura, e l´ho detto al vostro ministro degli Esteri D´Alema quando è stato qui. Gli ho detto: "Calma, vediamo prima se l´Unifil nel sud Libano funziona". Io rispetto la buona volontà di chi ci dice "siamo pronti a mandare i nostri soldati nella vostra regione", ma non sono sicuro che per il momento sia una buon´idea».
Qual è il suo giudizio sul lavoro di Unifil nel Sud del Libano?
«Ho un´opinione positiva sul lavoro della forze italiane. Io credo che dovrebbero fare uno sforzo addizionale per evitare che Hezbollah continui a riarmarsi: ci sono armi che continuamente, passando dalla Siria, arrivano ad Hezbollah. Bisogna fermare questo traffico, perché se non verrà fermato completamente potrebbe diventare il detonatore per una futura guerra. Sarebbe solo questione di tempo».
Come giudica la situazione a Beirut, con il governo Sinora assediato dai manifestanti di Hezbollah?
«Credo che questa sfida sia il risultato della sconfitta di Hezbollah nella guerra con Israele. Un anno fa era completamente libero di andare ovunque, di fare tutto quello che voleva: controllava il Sud, controllava il Nord. Adesso Hazbollah sta per perdere lo spazio politico e militare che aveva a disposizione. Per questo ha lanciato questa sfida al governo Siniora».
Forse gli Hezbollah lanciano questa sfida perché sono usciti politicamente rafforzati dalla guerra, mentre il governo si è indebolito. Senza considerare il ruolo che il loro alleato strategico, l´Iran, gioca in questa partita.
«La mia valutazione è differente. Io credo che questa sia una battaglia che gli Hezbollah combattono per salvare l´investimento di una vita di presenza in Libano, prima di perdere completamente la loro influenza e il controllo della loro zona. Per sei anni hanno costruito le basi strategiche da poter mettere al servizio, un giorno, della rivoluzione iraniana. Tutto questo oggi è scomparso. Hezbollah ha perso le sue basi nel sud: è ancora presente, ma ha perso le sue postazioni strategiche. Ora nell´area ci sono migliaia di soldati libanesi e migliaia di soldati internazionali. Gli Hezbollah non sono più in grado di attraversare il confine con Israele, non sono in grado di creare quel tipo di aggressioni, di pericoli che abbiamo conosciuto in passato. Adesso stanno combattendo una dura battaglia politica contro Siniora: sanno bene che se il primo ministro libanese, con il sostegno dell´America e dell´Europa, riuscirà a rafforzare la sua posizione politica, questo significherà l´emarginazione di Hezbollah. E questo è il risultato della guerra».
Se lei avesse saputo in anticipo che questo sarebbe stato l´esito della guerra, l´avrebbe comunque condotta?
«Io non ho scelto la guerra, non ho iniziato la guerra: tutto è cominciato da Hezbollah, dobbiamo ricordarlo. Sono stati loro a rapire due soldati israeliani, ad ucciderne altri otto. Voi forse potreste chiedermi: "Adesso che lei sa com´è andata a finire avrebbe condotto diversamente la guerra?". La mia risposta è una sola: no, non avrei fatto nulla di differente».
Visto che siamo in tema, parliamo di Siria: molti si chiedono se non sia il caso di aprire un negoziato con la Siria.
«Scusate, chi dice questo?»
La Germania ha mandato il suo ministro degli Esteri a Damasco, l´Italia è favorevole al dialogo, la Gran Bretagna non è del tutto contraria e anche nel rapporto Baker-Hamilton c´è un accenno alla necessità di negoziare coi siriani.
«Mettiamola così: in democrazia possono esserci molte voci. In Siria non potete ascoltare più di due opinioni, perché la seconda voce sarebbe soppressa. In America, in Germania, in Israele, in Italia è naturale avere un dibattito. Io sono contrario, e l´amministrazione Bush è contraria ad un confronto adesso con la Siria».
Permetta una citazione dai giornali israeliani: il capo dell´intelligence militare sarebbe a favore di un negoziato con i siriani.
«Io non ho ricevuto un solo suggerimento di aprire un negoziato con i siriani senza che si sia una minima possibilità di successo. E non ho avuto alcun suggerimento in questo senso perché nessuno ci crede ancora: è vero che il ministro degli Esteri tedesco Steinmaier è andato in Siria, ma è anche vero che la cancelliera Merkel non era favorevole a questo viaggio. So che D´Alema potrebbe avere una certa idea, ma non so se Romano Prodi ha la stessa idea, e so di sicuro che il 50 per cento del Parlamento italiano, almeno l´opposizione, è contrario. Parlate a Chirac di Siria, vediamo cosa vi risponde! Guardate: il mondo è a caccia di soluzioni, noi stessi vogliamo soluzioni. Non ho nessun bisogno d´incoraggiamenti da parte di nessuno per andare avanti sulla via dei negoziati coi palestinesi, sono pronto ad incontrare Abu Mazen ovunque, in ogni momento, senza precondizioni».
Ma se è vero che in politica non esiste la parola "mai", a quali condizioni lei vede possibile aprire un negoziato con i siriani?
«Devono interrompere ogni sostegno al terrorismo, che è totalmente inaccettabile. Aiutano Hezbollah, Hamas e il terrorismo contro gli americani in Iraq: tutto questo non può essere alla base di un negoziato politico».
Non crede che la visione che avete condiviso con l´amministrazione americana sul Medio Oriente sia arrivata ad un punto di svolta? Non crede che il rapporto Baker-Hamilton sull´Iraq sia un segnale?
«Io penso che sia ancora presto per valutare il risultato finale del processo di rielaborazione della politica americana alla luce del problema iracheno. Abbiamo letto il rapporto Baker, ma sappiamo anche che il presidente non è particolarmente entusiasta di quelle proposte. Mettere dentro questo rapporto troppe cose - il conflitto israelo-palestinese, le relazioni con la Siria, con l´Iran - mettere tutto insieme e fare una grande insalata offre margini di errore».
Una soluzione negoziale è possibile anche con l´Iran?
«All´Iran non deve essere consentito di avere armi nucleari. Guardate (sfoglia i giornali, ndr): oggi a Teheran hanno convocato una conferenza internazionale dei negazionisti della Shoah, una scelta fatta per negare che sia mai esistita. Quando io vedo che dobbiamo confrontarci con tale antisemitismo, che dobbiamo fronteggiare un odio simile, quando vedo che lo stesso Stato che vuole cancellare Israele dalla carta geografica vuole avere un programma nucleare e sta sviluppando un programma balistico, come si può rimanere indifferenti davanti a tutto questo? Io richiamo l´attenzione dell´Europa su questo fenomeno, perché l´Europa non si può permettere di vedere la ripetizione di un´esperienza a cui siamo sopravvissuti per condannarla. Ahmadinejad è la più pura forma di antisemitismo, del peggior tipo. C´è solo un modo per fronteggiarlo: bisogna fermarlo. Nessuna tolleranza, nessuna pazienza. Bisogna fermarlo, e quelli che non agiranno per fermarlo dovranno portare sulle loro spalle il peso di quest´omissione».
Il ministro della Difesa americano Robert Gates ha parlato per la prima volta apertamente dell´arma nucleare israeliana, che se non altro offre il pretesto ad altri in Medio Oriente per provare ad avere le loro armi nucleari. È arrivato il momento per ammettere che Israele ha un arsenale nucleare?
«Lo Stato di Israele ha sempre dichiarato che noi non saremo i primi a introdurre l´arma atomica in Medio Oriente. Questa è sempre stata ed è la nostra politica».
Un anno fa quest´intervista sarebbe iniziata dal suo piano di ridispiegamento dalla Cisgiordania, di cui adesso non si parla più. Qual è oggi la sua strategia per porre fine al conflitto israelo-palestinese?
«La nostra strategia non è cambiata, è creare uno Stato palestinese che possa vivere accanto ad Israele in pace e sicurezza. Questa è la strategia. Qual è la maniera migliore per raggiungere questo obiettivo? Dipende dalle circostanze. Io sto cercando di ristabilire un dialogo con Abu Mazen, forse ci sono circostanze migliori adesso per far ripartire questo dialogo. Credo che Abu Mazen sia una persona genuina, un uomo che pensa quello che dice. Ho fiducia che presto, insieme, si possa fare qualcosa che possa produrre una grossa differenza».
Concretamente che cosa vuol dire?
«Che sono pronto a sedermi ovunque e in ogni momento al tavolo del negoziato col presidente palestinese, per un incontro senza precondizioni. Sono pronto a cedere territori, pronto a evacuare insediamenti di coloni ebrei, e sapete quanto sia difficile... Sono pronto a farlo in modo che i palestinesi in Cisgiordania abbiano un territorio compatto. Per questo, cederemo tutti i territori necessari».
Il capo di Hamas in esilio, Khaled Meshal, ha offerto ad Israele 10 anni di tregua.
«In cambio di che cosa?»
In cambio del ritiro israeliano sulle linee del ‘67.
«Ma lui non accetta l´esistenza dello Stato di Israele, lui vuole un solo stato, quello palestinese. Ci dà 10 anni di tregua per prepararsi alla guerra definitiva contro Israele. Ma noi non siamo completamente idioti».
Signor Primo ministro, cosa risponde alla critiche di David Grossman, che l´ha accusata di non aver fatto abbastanza per promuovere il processo di pace?
«Io ho una grande rispetto per David, per la sua tragedia personale, ha perso un figlio in guerra. Le critiche che lui ha espresso sono quelle che ha rivolto a tutti i primi ministri che mi hanno preceduto. La risposta che posso dare è che sto provando a fare tutto ciò che posso per andare avanti sulla via del negoziato: ho fatto un discorso due settimane fa che è stato valutato dalla comunità internazionale come un importante passo in avanti per creare le condizioni giuste per negoziati di pace. Io credo che David Grossman sia un grande scrittore, ma non è un grande osservatore politico, è di sinistra, non aveva ragione in passato, e non ha ragione oggi. Però è una persona sincera, genuina, che rispetto».
A margine di questa importante intervista segnaliamo la scorrettezza del sottotitolo in prima pagina: "Intervista al premier israeliano: Fermare l'Iran". Gaza, morti tre bambini".
I bambini sono morti per una faida interpalestinese, ma il sottotitolo non lo precisa e lascia pensare a una responsabilità israeliana, depotenziando la denuncia dei piani iraniani.
Non si tratta di mancanza di spazio, visto che la notizia della morte dei bambini non c'entra nulla con l'intervista ed'è stata richiamata in modo apparentemente ingiustificato
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