Famiglia Cristiana nel numero 50 on line pubblica un articolo di Alberto Chiara intitolato “Per difendere la pace”
L’articolo delinea la situazione di forte tensione che esiste in Libano e rileva come i soldati italiani impegnati nel sud del paese nell’ambito della missione Unifil2 svolgano un compito sia umanitario che militare.
Tuttavia, ancora una volta il settimanale cattolico nel riportare gli eventi che hanno condotto alla guerra del luglio scorso “privilegia” la versione libanese evitando accuratamente qualsiasi riferimento ai continui attacchi di missili subiti da Israele, al rapimento e all’uccisione di soldati israeliani, nonché al fatto che la morte di civili innocenti è dipesa esclusivamente dal cinismo degli hezbollah che nascondevano gli ordigni nelle abitazioni.
L’esercito israeliano non ha mai scelto deliberatamente di uccidere dei civili e tra essi dei bambini.
Perché si continua a condannare Israele e il suo legittimo diritto di difendersi?
Un po’ di caffè? Il colonnello Roberto Di Giorgio accetta di buon grado, si siede, apre il taccuino e ascolta. «Benvenuto», esordisce l’ingegnere Issam Ftouni, 50 anni, vicesindaco musulmano di Cana. «Benvenuto», gli fa eco Toufic Hajj, consigliere comunale cristiano-maronita.
Circa 100 chilometri a sud di Beirut, il Libano della convivenza possibile accoglie le truppe italiane rievocando i lutti ed elencando i problemi. Gli slogan urlati nelle piazze della capitale, inquietante colonna sonora del duro confronto politico in atto all’interno della società libanese, qui non arrivano, o quando arrivano, via Tg, sembrano incutere meno paura. Ftouni allarga le braccia. Questione di priorità, fa intendere. «Da un lato stiamo facendo i conti con la tragedia che ci ha colpiti; dall’altro puntiamo a riprenderci celermente sotto il profilo economico-sociale. Voi potete aiutarci», spiega il vicesindaco.
«Quello che è accaduto il 30 luglio lo sapete tutti», continua Ftouni. «Le bombe israeliane hanno colpito una casa, uccidendo 30 civili: tra essi, 23 bambini. Durante il conflitto della scorsa estate, non tutti i 10.000 abitanti di Cana hanno potuto o voluto scappare. Questa è la seconda strage che insanguina la nostra città. Nel 1996, Israele colpì uomini, donne e bambini che si erano rifugiati sotto le bandiere dell’Onu. Allora si contarono 105 morti».
Cana vuole voltare pagina. «Sono state distrutte o seriamente danneggiate 60 case, hanno colpito la rete idrica e quella telefonica, ci hanno infestato i campi di cluster bombs», precisa Ftouni. «Siamo serviti dall’acquedotto di Tiro, ma ancora oggi non abbiamo acqua tutti i giorni. Abbiamo costruito dei pozzi ma ci mancano le pompe per farli funzionare. L’esercito libanese e alcune organizzazioni non governative hanno bonificato il 40 per cento del territorio comunale, quello dell’area abitata; molti appezzamenti di terra, però, rimangono impraticabili per i tanti ordigni inesplosi non rimossi. Vi lascio immaginare come sia andato quest’anno il raccolto delle olive. Potete darci una mano?».
Il colonnello Di Giorgio prende appunti. Tornerà a Cana, promette, con i suoi uomini del Cimic, l’unità dell’esercito preposta alla cooperazione e agli aiuti. Le istantanee dei nostri soldati impegnati nella missione Unifil 2 rendono ragione di un impegno che è, al tempo stesso, umanitario e militare. Tutto avviene dal fiume Litani in giù, verso Israele, uno Stato che il Libano non riconosce (nelle sue mappe ufficiali lo chiama Palestina), e verso un confine che le carte locali, quasi a volerlo "diluire", definiscono "linea blu".
Subito sotto Tiro, ecco un veicolo blindato, un Puma, il cui posto di mitragliere è occupato da una donna, italiana a dispetto del nome, il caporal maggiore Tanja Mataluna. Va verso una postazione dei lagunari. Lungo la strada che costeggia il mare, ora c’è il sergente Giuseppe Pagliara, affiancato dai caporali maggiori Vincenzo Caturano ed Emanuele Valotto. A qualche chilometro da lì, il maresciallo Alessandro Antonini, con alle spalle missioni in Bosnia, Kosovo e Irak, sta facendo brillare con la sua squadra due bombe che ostacolano il lavoro di una famiglia di agricoltori.
Tutti si muovono nel Libano meridionale, roccaforte degli sciiti. Le bandiere di Hezbollah sventolano ovunque. Appese a lampioni e tralicci, le foto dei "martiri", come sono chiamati i combattenti uccisi, si alternano ai ritratti di Sayyed Hassan Nasrallah, leader del "Partito di Dio", le une sollecitando la riconoscenza della popolazione, i secondi ricordando chi davvero comanda da queste parti. Le ferite della guerra diventano più evidenti man mano che da Nord si scende a Sud e da Ovest ci si sposta a Est. Ponti crollati, strade dissestate, case rase al suolo, distributori di benzina centrati in pieno, ripetitori inceneriti.
Hezbollah c’è ma non si vede. In divisa e armi in pugno, circolano soltanto i soldati libanesi e i caschi blu dell’Onu. A maggior ragione non c’è traccia di eventuali attività sotterranee delle forze sciite. Nel suo quartier generale, a Tibnin, il generale Paolo Gerometta, comandante del contingente italiano e del settore occidentale, sa che qualcuno pensa e scrive che questa missione è inutile, dal momento che non impedisce a Israele di violare lo spazio aereo del Libano e non impone il disarmo di Hezbollah. Sa che qualcuno pensa e scrive che tanto denaro pubblico (i nostri percepiscono un’indennità aggiuntiva che mediamente si aggira sui 5.000 euro netti al mese) potrebbe essere utilizzato altrimenti. Sa che l’apprensione cresce con il moltiplicarsi delle manifestazioni e delle accuse tra partiti libanesi anti-siriani contro filo-siriani.
Sa e risponde, il generale Gerometta. «Noi qui lavoriamo sodo. Non perdiamo tempo. Non sciupiamo soldi. Chiunque sostiene il contrario offende i nostri ragazzi. Qual è il fine che ci muove? La pace. Detto questo è detto tutto. Ogni giorno in più di pace che garantiamo a questa gente, possiamo dire: missione compiuta».
«Finora l’Onu, nell’ambito dell’operazione Unifil 2, ha schierato 8.000 militari, 2.500 dei quali italiani. Solo nella zona di mia competenza (in cui operano anche un battaglione del Ghana e un battaglione francese), ogni giorno escono tra le 80 e le 90 pattuglie. Le assicuro che il terreno è ben monitorato. La risoluzione 1.701, che legittima il nostro intervento, ci affida il mandato di aiutare le forze armate libanesi che hanno preso il pieno controllo di queste zone, fino al confine con Israele, mettendo in campo 15.000 uomini».
«Le regole di ingaggio rimangono riservate per ragioni di salvaguardia del personale impiegato», prosegue il generale Gerometta. «Il giusto riserbo non è, tuttavia, sinonimo di ignavia. Basti sapere che, se attaccati, siamo autorizzati a difenderci con ogni mezzo e che, soprattutto, in caso di grave minaccia, siamo autorizzati a difendere i civili. La promessa che le Nazioni Unite hanno fatto, "mai più Srebrenica, mai più il Ruanda", qui è e sarà rispettata».
Tutti i segnali che la complessa società libanese manda in ordine sparso vengono valutati con la massima attenzione. Venerdì 1° dicembre, gli sciiti di Hezbollah e di Amal (la formazione che esprime il presidente del Parlamento, Nabih Berri) e i cristiano-maroniti del generale Michel Aoun, senza che accadesse il benché minimo incidente, sono riusciti a portare nelle piazze di Beirut circa un milione di libanesi.
Hanno chiesto le dimissioni del Governo presieduto dal musulmano sunnita Fouad Siniora e un nuovo esecutivo di unità nazionale (dove possano esercitare il diritto di veto). Finché ciò non accadrà, hanno promesso, «ogni sera 5.000 dimostranti si riuniranno sotto la sede del Governo».
La maggioranza al potere (sunniti di Saad Hariri, drusi di Walid Jumblatt, cristiano-maroniti dei Gemayel e di Samir Geagea) considera le manifestazioni di piazza come «un colpo di Stato orchestrato dalla Siria». Il generale Michel Suleiman, dal canto suo, comandante dell’Esercito libanese, ha ordinato alle sue truppe di «essere pronte a proteggere la libertà d’espressione, ma anche a prevenire disordini», e ha assicurato che il Libano non è alla vigilia di un’altra guerra civile: l’attuale tensione, ha spiegato Suleiman, non assomiglia assolutamente a quella che si registrava alla vigilia degli scontri del 1975.
«Le dita della storia qui non mollano mai la presa», ammonisce Robert Fisk, il famoso inviato di guerra inglese, da decenni residente a Beirut. Gli esperti raccontano gli Usa e la Francia determinati ad appoggiare Siniora, la Siria timorosa che il Tribunale internazionale chiamato a far luce sull’assassinio del premier Rafic Hariri la trascini sul banco degli imputati e intenzionata a riprendersi il potere d’un tempo; scrivono di un Iran silenzioso, ma pronto a far valere le sue possibilità di ritorsione, e di un Israele voglioso di saldare i conti con Hezbollah. Una miscela esplosiva.
«Io me lo ricordo bene il Libano della guerra civile», dice il tenente colonnello Michele Prignano, 51 anni. «Giovane ufficiale, ero a Beirut al seguito del generale Angioni, quando il 23 ottobre 1983 attacchi suicidi causarono la morte di 241 marines americani e di 58 parà francesi. Aiutai a scavare tra le macerie per sette giorni e sette notti. Poi, tra il 23 e il 26 dicembre 1983, fummo noi a finire sotto tiro, fortunatamente senza gravi conseguenze. No, non credo che la situazione degeneri».
«Siamo consapevoli di quanto ci sta accadendo intorno, noi continuiamo a operare con la stessa sensibilità e determinazione per aggiungere un altro giorno di pace a quelli già garantiti», conclude il generale Paolo Gerometta.