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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.12.2006 In nome della "Grande Siria"
un deputato baathista, già consigliere di Hafez el Assad, spiega la ferma volontà del regime di annettere il Libano

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 dicembre 2006
Pagina: 11
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Ma alla fine tornerà la Grande Siria»
Dal CORRIERE della SERA dell'11 dicembre 2006, un'intervista di Lorenzo Cremonesi a George Jabbour, esponente del partito siriano Baath.

Jabbour rivendica l'obiettivo dell'annessione del Libano alla "Grande Siria".
Espressione che, a differenza della "Grande Israele" tanto cara al sensazionalismo dei nostri media, designa davvero un progetto espansionista e e aggressivo.
Che però, stranamente, non  sembra suscitare molta preoccupazione, né indignazione.

Ecco il testo:


DAMASCO — Magari tra dieci, o magari tra centro anni. Ma alla fine il Libano tornerà a fondersi nella sua patria madre, che è la «grande Siria». «Una regione immensa, una delle province più vaste del vecchio impero ottomano, che comprende oltre che gli attuali Libano e Siria, anche Giordania, la Palestina dell'ex mandato britannico e i territori iracheni nord-occidentali». Parola di George Jabbour, per 18 anni consigliere personale dell'ex presidente Hafez el Assad, parlamentare, politologo, ma soprattutto interprete fedele dell'ideologia panaraba del partito Baath. Mentre ne parla il suo sguardo passa dalla televisione, che trasmette in diretta le immagini della grande manifestazione di Beirut, alla cartina geografica appesa al muro. Con il piccolo Libano schiacciato tra il Mediterraneo e la Galilea israeliana. «Questa storicamente è la regione del cosiddetto Bilad Al-Shams, dove non c'erano confini, e neppure le nazioni imposte in modo artificioso dai regimi coloniali europei nel 1916, che con il famigerato accordo Sykes-Picot si spartirono segretamente la patria degli arabi», spiega Jabbour.
Un modo molto diretto per raccontare come a Damasco si guardi agli avvenimenti nell'«orto» vicino. «La Siria non può ignorare il Libano. Ma neppure il Libano può fare a meno della Siria. Siamo parte di una stessa identità culturale, geografica, politica. Chiunque voglia bene al Libano deve per forza considerarlo in rapporto con noi. Persino il nostro inno nazionale non menziona mai, neppure una volta, la parola Siria, ma canta la grandezza del Bilad Al-Shams e il sogno che un giorno torni alla gloria del passato», dice. Se dunque i portavoce ufficiali del regime si limitano a secchi comunicati, in cui ribadiscono che le manifestazioni di Beirut «sono avvenimenti soltanto interni alla politica libanese», Jabbour può permettersi maggior libertà. «Con il crescere delle manifestazioni di piazza, Fouad Siniora sarà costretto a cedere. Penso abbia un terzo delle possibilità di rimanere in sella, se accetta di sciogliere il suo governo e creare una coalizione di unità nazionale con l'Hezbollah. Ma più probabilmente dovrà lasciare e allora noi guardiamo con interesse a due personaggi importanti del mondo sunnita, che potrebbero prendere il suo posto. Sono gli ex premier Omar Karame e Salim Hoss». Non crede che il Paese scivolerà nella guerra civile, anche se le manifestazioni dovessero farsi più violente. Ma teme l'ex leader della Falange cristiana, Samir Geagea, che «potrebbe essere tentato dal ritornare alle milizie armate».
A parlare ancora più liberamente sono gli intellettuali e i leader dell'opposizione, gente da sempre perseguitata, abituata alla censura e costretta a scrivere sulle pubblicazioni all'estero, non ultimi i giornali libanesi. Tra loro il dibattito è aperto in particolare sulle responsabilità nell'omicidio del ministro cristiano Pierre Gemayel, nel centro di Beirut il 21 novembre. Una conseguenza diretta dell'oppressivo «abbraccio» siriano? A detta di Mashal Temu, noto portavoce del «Verso il Futuro Curdo», il blocco più popolare della dissidenza, non ci sono dubbi: «Gemayel è l'ultima vittima di una lunga serie, a cominciare da Rafik Hariri, che vede la Siria intervenire direttamente e con violenza negli affari interni del Libano. Gli assassini vanno cercati nelle cellule dei servizi segreti dei due Paesi, che da sempre lavorano spalla a spalla per impedire la separazione». È d'accordo Riad al-Turk, anziano e carismatico dirigente comunista: «La Siria vuole il caos in Libano. Oggi più che mai cerca di bloccare le interferenze occidentali che sostengono il fronte indipendentista. Ma non intende tornare alla guerra civile. Sa bene che nessuno la vuole». È molto più sfumato invece lo scrittore Akram al Bunni, che si dice certo della colpa siriana nella morte di Hariri. «Ma non nel caso di Gemayel, che potrebbe essere stato vittima delle infinite faide in casa cristiana».

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