Igor Man cambia la cronaca e la storia del Medio Oriente e come al solito riesce a dare tutte le colpe a Israele
Testata: La Stampa Data: 11 dicembre 2006 Pagina: 1 Autore: Igor Man Titolo: «Il buco nero di Beirut»
Da La STAMPA dell'11 dicembre 2006:
Il momento è grave, ha detto ieri il Papa all’Angelus. Lo spettro della catastrofe occupa il cielo torbido della cosiddetta «area di crisi»: il Vicino Levante, impestato da una guerra (quella irachena) che scaramanticamente nessuno vuol definire «civile», e la crescente deriva che ne segue. Grazie a una attenta diplomazia ben radicata nei vari territori di pertinenza, la Santa Sede avverte il rischio d’un Natale di sangue: ogni angolo dell’area di crisi mediorientale è gravido di pericoli ma, nel momento attuale, è il Libano in testa alla lunga teoria di possibili disastri senza fine mai. Il clamoroso sit in degli sciiti nel cuore di Beirut è il classico zippo accanto alla tanica di benzina. Il sit in degli sciiti, cominciato undici giorni fa, contesta la legittimità del governo Siniora implicitamente sconfessando il Patto nazionale, una sorta di manuale Cencelli levantino, in virtù del quale il potere è suddiviso in base all’entità numerica delle diverse comunità. I cristiani, la maggioranza, han diritto alla presidenza della Repubblica, i sunniti alla presidenza del Consiglio, sciita è il presidente del Parlamento e via così. Ma sono forse dieci anni che codesta classifica non vale più: la comunità più popolosa è quella sciita. Ma vuoi per la misteriosa scomparsa del loro magnetico leader, Mussa Sadr, vuoi per l’abile regia di Assad di Siria, gli sciiti son rimasti a lungo i sanculotti libanesi. L’avvento di Khomeini ha sparigliato le carte della leadership maronita. E’ stato il santone iraniano a spedire in Libano, nel 1979, un plotone di pasdaran (le guardie della rivoluzione a mani nude) dalla cui costola è nato Hezbollah, quel Partito di Dio che non senza arroganza rivendica ogni primato nell’«area di crisi». Paradossalmente il destino del Libano una volta ancora è nelle mani di quella Siria che lo considera sua «provincia» rivendicando uno speciale droit de regard sul disgraziato Paese dei Cedri. Si vuole che Damasco sia legata a Teheran e questo è vero relativamente agli aiuti (interessati) con cui gli ayatollah ricambiano il libero pascolo delle milizie di Hezbollah là dove Israele s’è rivelato inopinatamente più fragile. Ma non va trascurato il fatto che, mutatis mutandis, la politica della Siria sia rimasta quella postulata e praticata dal Leone di Damasco, quell’Hafez Assad che tanto impressionò Kissinger. E questo perché a governare la politica estera è quel Faruk al Shara, già ministro degli Esteri, attualmente vicepresidente. Sarà per l’odio viscerale che porta a Israele, sarà per il suo non facile carattere, Faruk al Shara è sottovalutato. Ma paradossalmente, mentre un po’ tutti abbaiano, egli s’adopera (dietro le quinte) a far da pompiere.
Del ruolo di pompiere di Al Shara nessuno si era ancora accorto, né Igor Man ne fornisce una qualsiasi prova.
Partendo dal presupposto che una nuova guerra civile in Libano potrebbe provocare alla lunga una più vasta conflagrazione che se azzopperebbe gli Stati Uniti mortificherebbe terribilmente la Siria, Faruk al Shara vede nei «suggerimenti» di Baker e Hamilton la spinta verso una conferenza di pace sul modulo di quella di Madrid. Allora il famoso linkage funzionò: Saddam rimase in sella, ancorché acciaccato, e gli arabi accettarono di parlare, occhi negli occhi, con Israele. (Da quella conferenza nacquero gli Accordi di Oslo che l’assassinio di Rabin impedì portassero a una ragionevole pace).
Gli accordi di Oslo non portarono a una ragionevole pace, ma non per l'assassinio di Rabin, ma per il terrorismo palestinese che continuò a colpire Israele prima e dopo l'assassinio del premier da parte di Ygal Amire per il rifiuto opposto da Arafat alle proposte di Barak, prima a Camp David e poi a Taba.
Ora è diverso, Israele non sembra disponibile a trattare sul Golan, la Siria «non può» rinunciare alla tutela del Libano che storicamente considera sua «provincia».
La realtà è anche in questo caso molto diversa: Israele sarebbe disposta a trattare con la Siria, se questa rinunciasse al sostegno dei terroristi libanesi (Hezbollah) e palestinesi. Dal canto suo, Damasco non chiede una trattativa, ma l'integrale cessione del Golan. Territorio che ha a perso per aver scatenato una guerra di aggressione.
Epperò una conferenza internazionale di pace avrebbe il pregio di decantare furori e delusioni; e last but not least taglierebbe l’erba sotto i piedi di quel terrorismo senza fissa dimora, pericoloso untore, che angustia il già difficile vivere delle masse arabe (esistono, esistono).
La conferenza di pace "taglierebbe l'erba sotto i piedi " al terrorismo? La Conferenza di Madrid no lo fece. il terrorismo è "senza fissa dimora"? Saranno pure temporanee, ma le dimore dei terroristi esistono. Khaled Meshal, capo di Hamas, ha per esempio la sua a Damasco. Capitale di quella Siria che dovrebbe "stabilizzare" il Medio Orientesecondo Baker e Igor Man
E’ dunque il ritorno alla politica che può scongiurare la catastrofe. «Non vinceremo la guerra con l’esercito ma con la politica», ha detto ieri Baker III. Così com’è il piano dell’«Iraq study group» più che la realtà cavalca la speranza, ma se non altro ha ricordato agli immemori e ai falsi sordi che la pace va trovata nel cuore del mondo: in Palestina.
Giudicata irrealistica da osservatori americani di tutte le tendenze politiche offensiva dal presidente iracheno Talabani, la proposta Baker piace a Igor Man per un solo motivo: la possibilità di utilizzarla per indicare per l'ennesima volta in Israele la causa dei problemi del Medio Oriente.
Soltanto una politica non troppo condiscendente verso i «falchi» di Gerusalemme e realisticamente severa nei riguardi dei palestinesi potrebbe prosciugare il pantano mediorientale dove tutto si tiene.
Che vorrà dire politica "realisticamente severa" verso i palestinesi? Israele e la comunità internazionale da tempo chiedono ai palestinesi le stesse cose: lotta al terrorismo, riconoscimento del suo diritto ad esistere, rispetto degli accordi. Siamo severi, propone ora Man, ma anche "realistici". Vale a dire? Terrorismo in modica quantità? Riconoscimento, ma con ambiguità e possibilità di cambiare idea? Rispetto "parziale" degli accordi?
Mentre il Libano rischia di precipitare nel buco nero d’uno scontro selvaggio con connotati anche religiosi, in Iraq, vero e proprio ascesso di fissazione d’una temuta débâcle angloamericana, si leva il disperato «no» del presidente Jalal Talabani. Qualcuno ha paragonato i «wisemen» di Baker ai Re Magi del postmoderno. Facciano pure a meno dell’oro e della Mirra: a Gesù interessa un dono soltanto: la pace.
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