Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 10/12/2006, l'intervista di Alix Van Buren a Kahled Mashal. Il testo è di fatto un megafono per il capo reale di Hamas, non una domanda che discuta le sue affermazioni. Niente di nuovo, per altro, Van Buren è stato sempre il portavoce ufficiale delle posizioni palestinesi, da Arafat prima a Mashal oggi. Ecco il Mashal pensiero, come ci viene offerto dal quotidiano di proprietà dell'Ing. Carlo de Benedetti. Lo leggano con attenzione i lettori, un consensato di menzogne e falsi, da quel Meshal che secondo Van Buren sarebbe a Damasco in " esilio". Ci spiegherà Van Buren chi l'ha esiliato ?
Ecco l'intervista:
«Chi parla di guerra civile coltiva la speranza di vederci precipitare. Ma una cosa è certa, questo non avverrà». Quasi un anno dopo la vittoria elettorale, otto mesi dopo l´ascesa al governo, con l´Autorità palestinese in drammatica bancarotta, col mondo arabo che rischia tre guerre civili, il leader supremo di Hamas Khaled Meshal parla del futuro. E dalla sua ridotta siriana, dove vive in esilio, offre una tregua di dieci anni a Israele.«Il dialogo tra le varie fazioni palestinesi si riaprirà. Abbiamo in cantiere un nuovo progetto per un governo di unità nazionale. E non è tutto, perché tra breve infrangeremo anche l´embargo israelo-americano».
Khaled Meshal, i calcoli dell´Onu sono impressionanti: una crisi umanitaria grava sui due terzi della popolazione, e un numero crescente non è in grado di sfamarsi. Lei invece vede svaporare le sanzioni?
«Proprio così. Ascolti, l´assedio va sfilacciandosi. La Lega araba si è dissociata dall´embargo. Già affluiscono fondi a riportare ossigeno a certe istituzioni, la sanità, l´istruzione. Il viaggio del premier Haniyeh nei Paesi mediorientali e islamici sta dando risultati. L´opinione pubblica regionale preme. Anche l´Europa s´è ammorbidita, benché sia un passo iniziale: i contatti procedono, dietro le quinte».
A quale prezzo politico, Meshal?
«Nessuno, davvero. Il fatto è un altro: America e Israele si sono accorti che l´isolamento porta a nulla, anzi si ritorce contro i loro obbiettivi. Infatti anziché colpire Hamas, rischiano di affondare l´Autorità palestinese. Invece di indebolirci l´embargo ci ha rafforzati».
Lei ne è tanto certo? Certi sondaggi affermano il contrario.
«Quei dati che lei cita, io li conosco bene, ma sono fatti ad arte. I rilevamenti veri raccontano un´altra storia: la consapevolezza diffusa fra i palestinesi che gli artefici dell´assedio sono America e Israele. Quanto a Hamas, vogliono che portiamo a termine il processo democratico iniziato con la nostra vittoria elettorale».
Ma intanto l´idea di un governo d´unità nazionale è finita in soffitta. Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, l´accusa d´avere alzato la posta.
«Perdoni se sorrido: è vero il contrario. Le nostre concessioni sono state molte e importanti. Gliene enumero alcune: la rinuncia, sofferta, di Haniyeh all´incarico di premier, e l´esclusione dei personaggi più in vista di Hamas da ogni ministero e incarico importante».
Però lei è inflessibile sulle nomine alle Finanze e all´Interno. Perché?
«Capirlo è semplice: sono due posti chiave per la nostra piattaforma elettorale. Noi abbiamo promesso la fine della corruzione finanziaria e del caos nella sicurezza, due piaghe che ci affliggono e il mondo intero lo sa. Per questo i palestinesi ci hanno votato. Chi vuole privarci degli strumenti essenziali, vuole bruciarci. Ecco il nocciolo del problema».
E adesso, Meshal? La piazza palestinese rischia di esplodere? Nell´assenza del dialogo affluiscono le armi.
«Non ci lasceremo trascinare nello scontro. Chi fornisce armi, soldi e addestramento a Fatah per rafforzarlo contro Hamas vuole una guerra fratricida. Mi chiedo se questa è la democrazia che intende l´America. Ma noi rilanciamo con una nuova proposta di governo nazionale. Serve il contributo di tutte le forze politiche per superare un guado tanto fondamentale. Nè temiamo nuove elezioni, come minaccia l´Olp: presenteremo i nostri candidati, anche alle presidenziali».
Resta lo scoglio del riconoscimento di Israele: è un prerequisito a ogni dialogo dell´Occidente con Hamas.
«Il nuovo primo ministro parlerà a nome del governo: non esprimerà necessariamente le posizioni di Hamas. E´ banale osservarlo, ma questo accade in ogni nazione europea: il premier s´impegna ad applicare il programma concordato fra le parti».
Questo è un escamotage per consentire un negoziato di pace con Israele?
«Tutti i gruppi, Hamas compreso, concordano su uno Stato palestinese entro i confini del 1967, con la piena sovranità sulle nostre terre, cosa che Oslo non contemplava. È un altro passo notevole. Mi chiede se è un riconoscimento di fatto d´Israele? Mettiamola così: noi accettiamo la coesistenza di fatto di due Stati liberi e indipendenti. Israele è una realtà, riconoscerlo assegnando legittimità all´occupazione, questo non lo faremo. Quanto alla pace, cominciamo col consolidare la hudna, la tregua».
Che cosa garantisce la tregua?
«Una cessazione totale delle ostilità, da entrambe le parti. Abbiamo già dimostrato l´anno scorso di tener fede alla parola data. Nella legge islamica la hudna è un contratto vincolante, chiunque sia l´altro contraente: più che un impegno politico è un obbligo morale, religioso. Ecco, noi proponiamo una hudna di dieci anni».
Così a lungo?
«Perchè no? In quell´arco di tempo, mentre noi costruiremmo uno Stato, si penserebbe a spianare la via della pace, la fine del conflitto, risolvendo i nodi più aspri come il diritto al ritorno. Serve una soluzione giusta per i profughi del 1948 da Jaffa, Nazareth, Haifa, città oggi in Israele. Ma com´è naturale dovremo tener conto della realtà. Però il problema è un altro: Israele accetterà uno Stato palestinese entro i confini del ‘67?».
Il premier Olmert ha pronunciato un discorso di pace. Lei non lo accoglie?
«Certo, il suo è un discorso dai toni moderati, ma non affronta i principi fondamentali dei diritti palestinesi: dice nulla riguardo a Gerusalemme, agli insediamenti dei coloni, nega il diritto al ritorno. Evade i dettagli».
E il piano Baker-Hamilton? Offre spiragli?
«Sì, se ristabilirà un principio di equità nella regione. Ma Israele e America non hanno compreso che il tempo gioca a loro sfavore».
Si spieghi, Meshal.
«Israele pensa di poter coniugare occupazione e sicurezza, ma questo è impossibile. E oggi attraversa una crisi ben più aspra e profonda rispetto a quella dei palestinesi e degli arabi. Israele è più potente e sviluppato di noi, però la sua parabola è discendente, mentre la nostra sale. La guerra d´estate in Libano ha travolto molte certezze: la fiducia dei cittadini nell´esercito, un evento senza precedenti. Infine, il picco dell´occupazione è stato raggiunto: dal 2000 Israele è in fase di ritiro, prima dal Libano poi da Gaza. Mi ascolti ancora: Israele deve agire in fretta, accelerare la costituzione di uno Stato palestinese entro i confini del ‘67 perchè fra breve verrà una nuova generazione di palestinesi e di arabi più severi di noi. Qui a mio avviso può svolgere un ruolo essenziale l´Europa, che è più consapevole della realtà sul terreno.
Lei parla di apertura e di negoziati, e però agita lo spettro di una terza Intifada.
«La mia non vuole essere una minaccia. Lo ripeto, l´Occidente comprenda che la causa palestinese non è soltanto umanitaria, legata all´embargo, ma ha una profonda dimensione nazionale. Senza questo, ai palestinesi non resteranno che la resistenza, l´Intifada, l´escalation, con nuove sofferenze per tutti. La comunità internazionale ci aiuti a raggiungere i nostri diritti. I palestinesi sapranno dimostrare la loro gratitudine».
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