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La Stampa Rassegna Stampa
10.12.2006 Un palestinese buono e un iraniano che lo è stato
ma l'iraniano era lo Shah di Persia Reza Palavi

Testata: La Stampa
Data: 10 dicembre 2006
Pagina: 8
Autore: Elena Loewenthal-Farian Sabahi
Titolo: «La sfida di Ahmadinejad»

LA STAMPA, non da oggi, ha scelto di affrontare la minaccia iraniana in termini di basso profilo. Non stupisce quindi la pagina di oggi, 10/12/2006, dedicata a un palestinese meritevole di ogni rispetto nell'articolo di Elena Loewenthal, e a un iraniano altrettanto meritevole, peccato che fosse lo Shah di Persia Reza Palavi, che con la storia dell'Iran contemporaneo non c'entra nulla. Se l'articolo di Loewenthal merita apprezzamento per la storia che racconta, quello di Sabahi no. Dietro a una storia veramente accaduta, ma che è da ascrivere a merito della dinastia Palavi, cacciata da Khomeini con l'aiuto irresponsabile della Francia di Mitterand, c'è un articolo che prosegue la linea della giornalista italo-iraniana sempre tesa a dimostrare che l'Iran di Ahmadinejad non è quel mostro che si dipinge. Dall'articolo, che riportiamo, si legge persino che sta per essere proiettato un serial Tv tutto intessuto di sentimenti pro ebrei. Che poi Moshe Katzav, l'attuale presidente israeliano, fosse di origni iraniane non vediamo cosa c'entri. Andava detto semmai che la sua famiglia lasciò l'Iran quando lui era ancora un bambinio. Sabahi, ha mia sentito parlare del concorso per la miglior vignetta antisemita indetto a Teheran ? E del convegno che sta per aprirsi sempre a Teheran sulla negazione della Shoah ?

Ecco l'articolo di Elena Loewenthal:

Khaleb Kasab Mahmeed, avvocato quarantatreenne di Nazareth, è fra i partecipanti alla «Review of the Holocaust: Global Vision», la conferenza che si terrà a Teheran da domani. Ma c’è da scommettere che il tono del suo contributo stonerà nel panorama negazionista: Mahmeed è fermamente intenzionato ad incontrare il presidente Ahmadinejad per convincerlo che con i suoi proclami sull’inesistenza della Shoah il presidente iraniano non aiuta la causa palestinese, anzi. «L’Olocausto di sei milioni di ebrei è avvenuto davvero. È un dovere di tutti gli arabi e i musulmani comprenderne il significato. Comprendere l’Olocausto nel modo giusto è l’unico modo per ottenere risultati positivi nel creare la pace fra i due popoli - i palestinesi e gli israeliani».
«Non sono pazzo, al centro della mia vita c’è la fedeltà alla causa palestinese», spiega questo mite e distinto signore, un arabo con cittadinanza israeliana che nel marzo del 2005 ha inaugurato - nel corridoio del suo studio nonché abitazione, nella cittadina di Galilea dove Gesù trascorse l’infanzia - il primo museo arabo sull’Olocausto. Un’ottantina di fotografie fornite su sua richiesta dallo Yad Wa-Shem, il memoriale di Gerusalemme, con didascalie in arabo. Il repertorio è quello che il mondo occidentale conosce molto bene - un plotone di soldati che sta per fucilare un gruppo di donne, il bambino che affiora a mani levate dal ghetto di Varsavia, con la stella gialla sul petto - ma che il mondo arabo ancora ignora.
Questo museo, corredato da un sito internet in arabo e parzialmente inglese (www.alkaritha.org) è costato a Mahmeed gran parte delle sue relazioni sociali. Il fratello non gli rivolge più la parola e le cause d’avvocato scarseggiano ormai sulla sua scrivania. La sua missione è ora quella di far conoscere l’Olocausto agli arabi, attraverso questo piccolo museo e la pubblicazione di libri. Tutto autofinanziato: il museo gli è costato al momento circa 5 mila dollari.
Mahmeed si dichiara «apolitico» ma certo i suoi intenti rientrano nell’agenda dell’attualità: nessuno può tacciarlo di bieco collaborazionismo con Israele, che lo considera con una certa diffidenza per alcune sue dichiarazioni non particolarmente amichevoli. Ma quando dice che «Israele è un dato di fatto che non si può più negare perché non si può schiacciare l’interruttore del tempo» e comportarsi come se questa realtà storica e politica non esistesse, gran parte del mondo arabo lo guarda inorridito. Oppure lo ignora.
La sua battaglia ideologica è tanto eroica quanto complessa, da combattersi su più fronti. Il mondo arabo non «riconosce» l’Olocausto, anzi nega che sia avvenuto. E senza avvertire in ciò alcuna contraddizione, lo accosta spesso e in termini riduttivi alla naqba, la «disfatta», come è detta la creazione dello stato ebraico e il conseguente, drammatico esodo dei palestinesi. «Il nesso fra Olocausto e naqba - scrive Mahmeed - è che solo comprendendo il significato universale dell’Olocausto gli arabi potranno trovare una soluzione pacifica alla loro tragedia». L’approdo a una consapevolezza reciproca, ma non necessariamente simmetrica, dovrebbe essere risolutivo per comprendere il proprio passato prima ancora che quello altrui: «Non stiamo parlando di venti, trentamila ebrei uccisi in un conflitto, ma di sei milioni eliminati a sangue freddo: l’Olocausto ha un grande ruolo nella vita materiale e spirituale degli ebrei. Se gli arabi lo capissero, capirebbero anche che devono agire con tutte le loro forze per proteggere Israele dai nazisti e dagli altri eventuali assassini. E se il popolo ebraico vedesse che gli arabi hanno compreso questo, sarebbero disposti a concedere i diritti che loro spettano».

E quello di Farian Sabahi:


Mahmud Ahmadinejad, da quando è stato eletto presidente dell’Iran, ha fatto delle minacce ad Israele e della negazione dell’Olocausto lo slogan quasi ossessivo della sua politica estera. Ma nella Storia c’è un capitolo poco conosciuto e ben diverso dei rapporti che sono intercorsi tra Teheran e gli ebrei negli anni del nazismo quando Reza Shah Pahlavi, padre dell’ultimo sovrano deposto da Khomeini nel 1979, si rifiutò di consegnare gli ebrei iraniani a Hitler. Quando era chiaro che il Führer stava mettendo in atto la «soluzione finale», lo scià convinse i nazisti che gli ebrei vivevano in Iran da 2.500 anni, talmente assimilati nella lingua e nella cultura da non poter essere considerati «popolo ebraico». L’operazione riuscì anche perché molti ebrei sul passaporto non avevano indicata l’appartenenza religiosa. Alcuni sarebbero stati riconoscibili perché avevano come cognome Mussavì, che in persiano significa «seguace di Mosé». Ma i nazisti non lo sapevano.
Lo scià ha protetto gli ebrei perché era convinto che senza la comunità ebraica, cosmopolita e progressista, sarebbe stato difficile modernizzare il paese. Ed aveva compreso che la collaborazione con i nazisti gli avrebbe chiuso i canali diplomatici con molti governi occidentali. Fu così che durante la seconda guerra mondiale i diplomatici iraniani in Europa riuscirono a salvare migliaia di ebrei concedendo loro la cittadinanza e aiutandoli a raggiungere Teheran. Di fronte ai soldati tedeschi, gli ebrei potevano esibire il passaporto iraniano facendo così credere ai nazisti di appartenere a una setta islamica iraniana, e quindi non semitica.
Mille e 388 ebrei polacchi (tra cui 871 bambini) si salvarono scappando in Iran grazie ad un’operazione realizzata da Moir Ezry, che sarebbe poi stato ambasciatore israeliano a Teheran. «Lo scià - ha scritto nelle sue memorie - aveva un’affinità particolare con gli ebrei, l’apparato militare e burocratico iraniano hanno fatto il possibile per aiutare i rifugiati a giungere in Israele. E, a differenza di Paesi come la Bulgaria e la Romania, che chiedevano denaro a Israele per liberare gli ebrei, il governo iraniano non ha chiesto nulla».
Anche mille e 500 ebrei siriani e libanesi - testimonia lo storico Abbas Milani - sono sfuggiti all’Olocausto e hanno raggiunto Teheran grazie a un passaporto iraniano. Tra loro lo scrittore libanese Sélim Nassib, autore di romanzi come «Ti ho amata per la tua voce», che ha trascorso l’infanzia in Iran e poi rinunciato alla cittadinanza iraniana solo in cambio di quella francese.
L’Iran è stato il primo Paese islamico a stabilire legami diplomatici ed economici con Israele, di cui per decenni è stato il principale fornitore di petrolio. Durante la folgorante ascesa di Nasser e l’esplosione del nazionalismo pan-arabo, iraniani e israeliani hanno collaborato a una stazione radiofonica nel sud dell’Iran, da dove partivano messaggi diretti al mondo arabo contro il leader egiziano. L’amicizia tra iraniani e israeliani si è interrotta con la Rivoluzione khomeinista del 1979. Ma i legami hanno continuato a esistere. L’attuale presidente israeliano Moshe Katsav, per esempio, è di origine iraniana.
É esistita ed esiste dunque una simpatia dell’Iran per gli ebrei, dimenticata, ma documentata. Il regista iraniano Hassan Fathi ne ha fatto un serial televisivo - «Meridiano zero» - nel quale si raccontano le vicende di tre uomini che alla fine degli anni Trenta si trasferiscono a Parigi, uno di loro s’innamora di una francese ebrea e, per salvarla, le fa avere il passaporto iraniano. In onda l’anno prossimo sulla TV di Stato iraniana, mostrerà una storia che andrebbe raccontata anche in Europa. E in Israele, dove di questa antica amicizia si parla soltanto in un libro per bambini.

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