Alla redazione esteri della STAMPA qualcosa non funziona, ovvero, quello che funziona è l'antiamericanismo. Sul numero di oggi, 09/12/2006, a pag.11, la storia allucinante di un presunto terrorista, Maher Arar, cittadino canadese e siriano (ha le due nazionalità e quindi i due passaporti, canadese e siriano) che viene fermato, su segnalazione canadese, all'aeroporto di NY nel settembre 2002, a un anno dall'attacco alle Twin Towers. E' sufficiente leggere l'articolo, scritto dallo stesso Arar, per accorgersi che l'incubo, di cui al titolo, non è americano ma siriano, e che l'errore del suo arresto viene dal governo canadese (come è stato ammesso) e non da quello americano. Ma se quello è il titolo che la STAMPA ha ritenuto di mettere, l'unica spiegazione è l'aria piena di virus che si deve respirare in redazione. E che produce questi risultati. Aggiungiamo che sotto al titolo " L'incubo americano ", c'è un sottotitolo " Io, innocente, sequestrato e torturato per un anno", che lascia capire che è stata l'America a torturalo.
Invitiamo i nostri lettori a chiedere conto alla STAMPA del perchè è stato scelto un titolo che nulla ha a che vedere con la storia raccontata.
Il mio incubo è cominciato il 26 settembre 2002. Mi trovavo in transito nell’aeroporto JFK di New York, quando mi hanno chiesto di aspettare in una sala d’attesa. L’ho trovato strano. Subito dopo alcuni agenti dell’Fbi mi vennero a trovare e mi chiesero se intendevo sottopormi volontariamente a un interrogatorio.
La mia prima reazione è stata di chiedere un avvocato, e sono rimasto sconcertato quando mi è stato risposto che non avevo diritto a un avvocato perché non ero un cittadino americano. Allora ho chiesto di fare una telefonata, volevo informare la mia famiglia di quanto stava accadendo. Hanno semplicemente ignorato la mia richiesta. Mi dissero che volevano rivolgermi solo un paio di domande e poi mi avrebbero lasciato andare. Ho acconsentito, non ho nulla da nascondere. L’interrogatorio ebbe inizio. Cominciarono a chiedermi di persone che conoscevo, e poi andavano più a fondo, sempre più a fondo. Mi chiesero della mia religione, delle mie opinioni politiche sull’Iraq, sulla Palestina, sulla situazione in Medio Oriente. Ho risposto perché, di nuovo, non avevo nulla da nascondere. Facevano con me dei giochi mentali: ogni tanto mi insultavano, poi mi dicevano che ero in gamba, poi che ero un imbecille. Dopo quattro ore, anziché imbarcarmi come promesso, mi hanno ammanettato e trasferito in un altro terminal, dove ho passato la notte.
Da un interrogatorio all’altro
Il giorno dopo l’interrogatorio è ricominciato, mi dissero che quel giorno avrebbero deciso del mio destino. In serata, uno dell’ufficio immigrazioni viene da me e mi chiede se ero disposto ad andare in Siria di mia volontà. Io dissi: «Perché volete che vada in Siria, non ci sono più tornato da 17 anni?». Mi risposero: «Tu appartieni a un gruppo di interesse speciale». Non ho capito subito il senso di quella frase, ho capito solo che non mi avrebbero fatto arrivare in Canada. Ho insistito, ho chiesto di lasciarmi tornare in Svizzera, da dove ero partito, ma hanno rifiutato. Alla fine mi hanno portato in una prigione federale, dove sono rimasto per circa 12 giorni, passando da un interrogatorio all’altro. Una volta che ho chiesto di essere riportato in cella per le preghiere, hanno rifiutato, molto seccati.
Il giorno 8 ottobre mi vennero a prendere in cella, e un agente mi comunicò che mi stavano per trasferire in Siria. Gli avevo già spiegato che se mi avessero portato in Siria, lì sarei stato torturato, ma gliel’ho ripetuto. A quel punto si è presentato un agente con una serie di fogli in mano e ha cominciato a leggermi un codice secondo cui l’Ufficio d’immigrazione non è un organismo che aderisce alla Convenzione di Ginevra contro le torture. Per me è stato uno choc: in pratica mi stavano dicendo che mi avrebbero torturato e che a loro la faccenda non interessava.
Trasferito a forza
Bendato, ammanettato mani e piedi, sono stato messo su un aereo il giorno stesso. Sono arrivato in Giordania, dove sono stato tenuto in una cella per 12 ore. Non so dire dove fossi. Dopo sono stato portato in Siria. Io semplicemente non volevo crederci. Pensavo che un miracolo sarebbe accaduto, che il governo canadese sarebbe intervenuto, che insomma qualcosa sarebbe successo e io sarei potuto tornare a casa mia, in Canada. Arrivai in Siria lo stesso giorno, sono sicuro che fosse la Siria perché appena mi hanno levato la benda ho riconosciuto un ritratto del presidente. Ho pensato di uccidermi, sapevo cosa mi aspettava. Sapevo che gli americani, il governo americano, mi avevano spedito lì per farmi torturare.
«Sono in una tomba»
Altre quattro ore di interrogatorio, ma niente botte. Verso mezzanotte una guardia mi è venuta a prendere e mi ha portato lungo una serie di corridoi. Alla fine ha aperto una porta metallica. Non potevo credere ai miei occhi. L’ho guardato e gli ho chiesto: «Ma cos’è questo?» E lui: «Entra». La cella era larga tre piedi (circa 90 centimetri), profonda sei e alta sette. Era buio, non c’era luce, era umido. Sono stato un ingenuo: pensavo mi avrebbero tenuto lì uno, due, al massimo tre giorni per farmi crollare. E invece quella bara fu la mia casa per 10 mesi e 10 giorni. Le botte cominciarono il giorno dopo, senza preavviso. Una guardia entra da me con una specie di cavo in mano. Mi chiede di aprire la mia mano destra. Lo faccio. Comincia a picchiarmi forte sul palmo. È stato doloroso al punto che ho dimenticato tutti i momenti in cui ero stato felice in vita mia.
Torture senza senso
Poi mi ha chiesto di aprire la sinistra, e mi ha picchiato ancora. Questo momento è ancora vivido nella mia memoria, perché era la prima volta che venivo picchiato in vita mia. Poi mi ha spezzato un polso. Il dolore per la frattura è durato circa sei mesi. Dopo hanno cominciato con le domande. Io avrei risposto molto rapidamente, ma loro avrebbero continuato a picchiare. Ogni tanto venivo portato in una stanza dove potevo restare solo per un po’. Potevo sentire gli altri prigionieri che venivano torturati, sentivo le loro urla. Non potevo credere che degli esseri umani potessero fare questo ad altri esseri umani. Dopo mi riportavano nella sala degli interrogatori, ricominciavano con le domande, e poi ancora con le botte. Volevano che confessassi che ero stato in Afghanistan, e la cosa mi sorprese, perché per esempio l’Fbi non mi aveva mai rivolto questa domanda. Ho confessato per far smettere le torture, e queste sono un po’ diminuite. Ma non sono cessate.
Durante questo tempo non sapevo che mia moglie aveva lanciato una campagna insieme ad alcune organizzazioni in difesa dei diritti dell’uomo, e che era andata in tv, dai giornali e ovunque per cercare di farmi uscire. I siriani mi rilasciarono comunicando all’ambasciatore a Washington che non avevo alcun collegamento con il terrorismo. Non sono stato incriminato in nessun paese, compreso il Canada, gli Usa, la Giordania e la Siria. Ma la mia vita non sarà mai più la stessa.
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